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Si prepara la Grande Rotazione dalla politica monetaria a quella fiscale

La fine dell’anno porterà con sé un rialzo dei tassi Usa, ormai tutti se lo aspettano e i mercati, che infatti si sbriciolano, per primi. Questa circostanza segnerà un deciso orientarsi delle aspettative circa la politica monetaria statunitense verso la sua normalizzazione. Tale circostanza, aggiungendosi alla conclusione della vicenda elettorale Usa, finirà col dare il via al movimento che segnerà lo sviluppo dell’economia internazionale a cominciare dal prossimo anno: la Grande Rotazione dalla politica monetaria a quella fiscale. L’età dello stimolo monetario volge al termine, adesso toccherà ai governi direttamente aprire i cordoni della borsa. Questo non vuol dire che la moneta facile sparirà. Tutt’altro. I tassi bassi sono un strumento essenziale per il secondo capitolo del lungo libro che l’economia internazionale sta scrivendo nel tentativo di rilanciarsi: il capitolo degli stimoli fiscali.

Ormai non si contano più gli appelli a fare spesa pubblica per investimenti produttivi. L’Ocse, il Fmi, l’Ue: praticamente tutti gli organismi internazionali, in questi mesi, hanno esortato i paesi con spazio fiscale, Germania in testa, a usarlo per investire sulle infrastrutture. A seguire, praticamente tutti i governi, direttamente o per il tramite di veicoli speciali, si sono fatti promotori di piani per roboanti investimenti pubblici o stimoli fiscali.

L’ultimo in ordine di apparizione è stato il governo canadese. Il primo ministro ha presentato un piano da 120 miliardi di dollari canadesi in dieci anni fra tagli fiscali e investimenti infrastrutturali. Una scommessa, ha scritto il WSJ, che sottolinea anche il limite raggiunto dagli stimoli monetari. La Banca centrale ha tagliato i tassi fino allo 0,5% due volte nel 2015, ma ha fatto capire di non poter fare di più. Sicché arrivano i nostri, ossia il governo (come se la banca centrale viva sulla luna).

Lo spazio fiscale il Canada ce l’ha. Il debito Pil è inferiore al 100%, il 94% riporta il WSJ, e la spesa del governo sul Pil supera di poco il 40%, poco sopra il Giappone, che però ha un debito Pil superiore al 230%, e inferiore alla Germania, dove la spesa pubblica sul Pil rimane intorno al 43% e il debito pubblico sul pil all’80%. Come dire: se il Canada può fare un piano del genere, figuratevi se non potrebbe farlo la Germania, su cui infatti, come abbiamo già osservato, si concentrano le attenzioni di tutto il mondo che conta. Per finanziare il suo piano, il primo ministro canadese farà ricorso senza imbarazzi al deficit di bilancio che dovrebbe raggiungere l’1,5% del Pil. Sicché, conclude il WSJ, gli occhi del mondo si sono puntati sull’esperimento canadese. Come se veramente una soluzione economica si possa esportare da un paese all’altro.

Ma tant’è. Ormai da un secolo viviamo nel mito dell’economia manovrata, ora dal governo, ora dalla banca centrale, il più delle volte insieme, e quindi l’esperimento canadese servirà solo a dar fiato ai tanti che oggi auspicano una decisa scelta per i governi verso il deficit spending.

Non a caso, agli appelli reiterati dell’Ocse e del Fmi sono seguite le promesse elettorali dei candidati alle elezioni statunitensi, i pensierini dell’UK che deve pur far qualcosa per assorbire i contraccolpi di Brexit, e soprattutto il Grande Stimolatore fiscale, ossia il Giappone, che da circa un ventennio fa stimoli monetari e fiscali, ottenendone soltanto il prosieguo della deflazione e l’aumento dei debiti. E tuttavia di recente ha ribadito che avrebbe investito 74 miliardi di dollari in stimoli fiscali. Quanto all’Europa, rimane in piedi il mitico piano Juncker da 300 miliardi, di cui poco si sa e ancor meno si è visto.

Ma in fondo conta poco. Ciò che importa è capire come si svolgerà la prossima narrazione del governo collettivo, chiamiamolo così, che si nutre di mode culturali – oggi si parla di stimoli fiscali per investimenti produttivi – alimentate dalla disperazione per il fallito raggiungimento degli obiettivi. I governi, tutti, hanno sempre fatto credere di poter far crescere l’economia indefinitamente. Adesso devono dimostrarlo. A spese nostre, ovviamente.

Caccia grossa alle riserve cinesi

Ci siamo già occupati del fenomeno del boom di riserve accumulate dai paesi emergenti in concomitanza con l’esplosione degli asset finanziari nei paesi cosiddetti ricchi. Quello che non sapevamo, ma che abbiamo scoperto leggendo un interessante paper diffuso pochi giorni fa dal Nber, è che gli accademici stanno già ragionando su come tale stock di riserve possa influenzare il futuro del sistema monetario.

Il titolo stesso dello studio è assai eloquente: Il futuro della liquidità internazionale e il ruolo della Cina. Prima di addentrarci nel dettagli, vale la pena anticipare una conclusione. Lo status di potenza creditrice raggiunto dalla Cina nell’ultimo decennio ha condotto il Paese a diventare un serio candidato al ruolo di pietra angolare del sistema finanziario globale. O, per dirla in altro modo, i debiti dell’Occidente rischiano di consegnare all’Oriente copia delle chiavi del futuro. Questo suggerisce la teoria economica. In pratica la partita sarà assai più politica, come dimostra l’annuncio dell’avvio dei dialoghi per creare uno spazio economico-commerciale fra Usa e Ue fatto prima da Obama e poi da Barroso proprio poche ore fa.

Il paper riepiloga un simposio tenutosi a Pechino fra il 30 ottobre e il primo novembre 2011, quindi alcuni dati sono un po’ obsoleti. Ma il succo non cambia. Secondo l’autore dello studio, Alan M.Taylor, il mondo rischia una terza crisi monetaria, sul modello di quanto accadde nel 1930, quando la sterlinà abbandonò il gold standard, e nel 1971, quando gli Usa sganciarono il dollaro dall’oro. Ciò anche perché la notevole integrazione finanziaria raggiunta, che purtroppo si è scoperta essere associata con una grande turbolenza, sta facendo crescere in maniera esponenziale la domanda di riserve. Ed è proprio questa domanda che rischia di far collassare l’equilibrio monetario attuale basato sul dollaro.

Il punto di partenza è il cosiddetto paradosso di Triffin, dal nome dell’economista che l’ha formulato nel 1960. Ossia la circostanza che se la moneta di uno Stato viene usata come valuta di riserva mondiale, lo Stato in questione dovrà fornire agli altri stati moneta sufficiente per soddisfare la loro domanda di valuta di riserva, causando quindi un deficit della bilancia dei pagamenti, in particolare sul conto corrente. Se la domanda di riserva cresce esponenzialmente, in pratica, rischia di saltare il banco. Può accadere che gli altri stati non abbiano più voglia di sostenere gli squilibri della bilancia dei pagamenti dello stato-moneta con la conseguenza di una crisi valutaria prima e sistemico-monetaria poi. E’ già successo, e potrà succedere, nota Taylor. 

La prima questione è misurare la domanda di riserve. Dal 1990 al 2010 (tempo monitorato dalla ricerca) il rapporto Riserve/Pil nei paesi avanzati si è attestato intorno al 4%. Nei paesi emergenti tale rapporto è schizzato al 20%: il quintuplo. In valori assoluti, lo stock di riserve globali è passato dai 200 miliardi di dollari a circa 12.000: si è moltiplicato per 60. Da dove è arrivato tutto questo denaro? E soprattutto, dove è finito?

Cominciamo dalla seconda domanda. La lettura dei grafici pubblicati nello studio mostra con chiarezza che fino a metà 2005 lo stock di riserve dei paesi emergenti era più basso di quello dei paesi sviluppati. Poi avviene il sorpasso. Da quel momento la curva schizza in alto e continua a crescere, salvo una breve flessione fra il 2008 e il 2009.

Quindi sono i paesi emergenti a mettere fieno in cascina per i più svariati motivi, ma sostanzialmente per una buona ragione: anni e anni di crisi hanno insegnato agli emergenti che è meglio non fidarsi. Avere riserve da spendere aiuta eccome in caso di crisi valutaria o di aumento dell’import, cosa che di solito accade quando un paese si sviluppa ai tassi dei Bric. A tale conclusione è giunto di recente anche il Fmi (ne abbiamo parlato nel post Il capitalismo finisce in riserva).

Sapere da dove vengono questi soldi è ancora più facile. Dal 1990 in poi, quindi dopo la caduta del muro di Berlino, il livello di attività e passività in valuta in relazione al Pil dei paesi sviluppati è cresciuto a ritmi straordinari. Tale rapporto quotava poco più di 1,5 nel 1990 e ormai ha superato quota 5. Quindi i soldi arrivano da qui, dai Grandi Consumatori.

Il grafico successivo racconta un’altra storia interessante. La domanda di riserve detenute dai quattro Bric si impenna verticalmente fra il 2009 e inizio 2011. La paura della Grande Crisi la fa quasi raddoppiare. In pratica i Bric si riempiono di dollari proprio mentre l’America ne stampa a più non posso per allentare la morsa del credit crunch. Ciò che provoca la crisi (lo squilibrio della bilancia dei pagamenti americana)  allo stesso tempo la nutre. Di nuovo il paradosso di Triffin. Tale asimmetria, alla lunga, potrebbe generale un “dollari panic” disastroso, per l’America, ma anche per i Bric che vederebbero evaporare il valore di quanto hanno a riserva.

Come se ne esce? Lo studio vede un paio di scenari. Uno, chiamiamolo autarchico, in cui gli squilibri esteri si risolvono nel modo più traumatico. Un controllo più fitto sui movimenti di capitale, e quindi sulla finanza per come si intende oggi, capace sostanzialmente di far crollare il rischio di turbolenze, farebbe diminuire la fame di riserve, ma al costo di “esternalità negative” capaci di riportare l’orologio del commercio internazionale indietro agli anni ’30. Questo dice lo studioso.

O sennò bisogna fare in modo che la Cina entri nel grande gioco, infilando la sua moneta (rectius le sue riserve) nel grande calderone. Serve una riforma del sistema monetario internazionale nella quale, sostanzialemente, la Cina ceda riserve in cambio di posizione, con il Fmi nel ruolo di grande ciambellano. Perché è partita la caccia proprio alle riserve cinesi? Facile rispondere anche a questo. Nel 2000 le riserve cinesi erano poche centinaia di miliardi di dollari, ora sfiorano i 4.000 miliardi, quando la Russia, che è la seconda per riserve, non arriva a 500.

La morale della storia è che per mantenere lo status quo e insieme sciogliere il  paradosso di Triffin gli americani dovranno diventare un po’ cinesi e i cinesi dovranno diventare più americani.

Casualmente l’Europa si trova proprio in mezzo.

Ue, Usa e Giappone: l’orso, il cavallo e il somaro

La giornata comincia con due notizie che ormai non lo sono neanche più. Il presidente delle Fed Bernanke ha ripetuto di non aver nessuna intenzione di abbandonare le misure non convenzionali adottate per sostenere la ripresa americana, aggiungendo che “c’è molto da fare”. Evidentemente gli 85 miliardi di dollari al mese (fra acquisto di obbligazioni garantite dal mattone e di bond pubblici) che la Fed garantisce al sistema finanziario Usa non bastano. Il cavallo americano dovrà bere almeno fino a quando la disoccupazione non scenderà.

La seconda notizia riguarda il Giappone. La banca centrale ha ripetuto che continuerà a perseguire una politica “aggressiva”, visto che export e produzioni industriale sono in calo e il nuovo premier Abe ha annunciato armi non convenzionali contro l’annosa deflazione, fra stimoli fiscali e target inflazionistici da raggiungere. Peraltro la BoJ ha anche tagliato le stime di crescita per otto delle nove regioni economiche monitorate. Il somaro giapponese dovrà convincersi a diventare un cavallo a suon di sganassoni monetari.

Due non notizie, quindi, che hanno soltanto lo scopo di mandare chiari segnali agli investitori. Infatti in America il mercato immobiliare è in crescita per la prima volta dal 2008 (+6,6% in Florida nel 2012) e si torna a riparlare di imminente boom di borsa. Quanto al Giappone lo Yen ha toccato il minimo sull’oro dal 1980. Questo tanto per dire che le parole hanno sempre conseguenze.

La terza notizia è arrivata dall’Ocse. Nell’ultimo quarto del 2012 il Pil dell’area è cresciuto dello 0,3%, trainato per due terzi dai consumi privati, e per un terzo dalle esportazioni. Con una importante notazione: i campioni dell’export sono Francia, Germania, Italia e Gran Bretagna; i campioni dei consumi, sia pubblici che privati, sono gli americani. In Giappone sono crollati sia i consumi che l’export. All’interno dei paesi europei considerati, si segnala la buona performance dell’export italiano (+0,6 punti), la migliore fra i paesi europei in termini percentuali, del tutto oscurata dal crollo dei consumi (-0,6 punti). Siamo una via di mezzo fra la Germania (per l’export) e il Giappone (per i consumi interni).

Ma un po’ tutti gli stati europei hanno un passo simile. Con l’eccezione della Gran Bretagna, “rappresentante” europea della politica espansiva giappo-americana. La GB ha avuto un incremento dei consumi privati assimilabile a quello americano, e lo stesso vale per la spesa pubblica. La Germania ha visto un leggero aumento dei consumi privati (da 0,1 a 0,2 punti fra il secondo e il terzo quarto), mentre la spesa pubblica ha fornito un modesto 0,1 (dopo lo 0 del secondo quarto). In Francia i consumi privati sono cresciuti di 0,1 punti e la spesa pubblica altrettanto. In Italia, al crollo dei consumi privati (-0,6) si è aggiunto il calo della spesa pubblica (-0,1). L’immagine complessiva che viene fuori dall’Europa (continentale) è quella di orso in letargo che aspetta la primavera e intanto consuma il grasso in eccesso o mangiuncchia quello che trova (l’export).

Il problema è che la primavera in Europa, continuando così, sorgerà solo quando spunterà l’estate in America, visto l’andamento dei consumi privati e della spesa pubblica.

I giapponesi invece hanno già detto che serviranno almeno tre anni per battere la deflazione. D’altronde la loro economia è basata sull’export, e l’Europa si avvia pericolosamente a somigliarle, dovendo peraltro competere con la tigre cinese, il quarto animale della nostra storiella di cui ci occuperemo un’altra volta.

Può farcela il cavallo americano, abbondantemente abbeverato dalla Fed, a trainare la carretta del mondo ancora una volta, o rischia di finire schiantato (per non dire annegato) dalla troppa liquidità? Negli anni ’90 abbiamo già visto il cavallo giapponese diventare un somaro. Cosa impedisce agli Usa di fare la stessa fine? La risposta a questa domanda scomoda categorie che appartengono alla politica, più che all’economia, le cui cosiddette leggi hanno un grado di elasticità direttamente proporzionale al potere dei soggetti ai quali si rivolgono.

Il futuro è quantomai incerto anche per i giapponesi. In un recente report S&P ha riconosciuto che il processo reflazionario è partito in Giappone (reflazione=moderata nuova inflazione successiva alla deflazione innescata dalla iniezione di una maggior quantità di moneta), ma sul paese gravano notevoli ostacoli. A cominciare dall’esorbitante debito pubblico  e dai problemi di export. Il somaro giapponese, gravato da debito pubblico e avanzo commerciale in calo, rischia di schiantarsi ancor prima di muovere un passo se produzione industriale e consumi interni non ripartono. Per questo il governo ha varato misure di stimolo. Ma fra i motivi di scetticismo di S&P c’è anche la circostanza che il Giappone c’è già passato, senza successo, da politiche reflazionistiche, lungo i primi anni 2000.

L’orso europeo intanto si gode il suo letargo, appena infastidito dai rumori delle folle di cittadini del sud Europa infuriati. La bufera valutaria innescata da Giappone e Usa per il momento non lo inquieta (l’euro è ancora lontano dai massimi di 1,46 sul dollaro di un anno fa) e ha ancora abbastanza grasso addosso da predicare l’austerità (la contrazione tedesca di fine 2012 non preoccupa finora la Germania).

Il retropensiero è che il lavoro sporco (inflazionare il debito e, in generale, i vari mercati, dai titoli alle commodity) lo faranno gli altri.

Una generazione all’inferno

Finalmente sappiamo come è finita in Grecia. Ossia che non è finita e che probabilmente non finirà mai.

I ministri delle finanze dell’Ue hanno dato tempo fino al 2020 ai greci per portare il debito al 124% del Pil, con il corollario (perché in fondo è un teorema) di scendere al 110% nel 2022. Quindi di sicuro non finirà per i prossimi dieci anni, la brutta novella greca.

E infatti è già pronta la prossima puntata. Entro il 13 dicembre dovrà arrivare la decisione formale per il versamento dei 43,7 miliardi faticosamente strappati ai portafogli europei, dopo che i singoli parlamenti nazionali avranno dato il loro via libera. E l’uomo (greco) campa.

Questa pantomima sulla pelle della Grecia si ripete ormai con defatigante regolarità da oltre quattro anni, seguendo ogni volta il solito copione allarme-paura-sospiro di sollievo, che fa di sicuro la felicità di chi lucra sui corsi azionari e obbligazionari, ieri al ribasso oggi al rialzo, e genera ansia diffusa fra i cittadini europei, che vivono nello stato sospeso di chi pensa “non succede, ma se succede…”.

Oggi sappiamo che questa sospensione della pena, visto che in greci sono gravemente indiziati di eccesso di debito e già condannati in primo grado, durerà almeno per i prossimi dieci anni. Rassicuriamoci, perciò, dovremo patire ancora, e patiremo a lungo.

Per i greci andrà peggio. Quella che doveva essere una breve stagione nell’inferno del debito è ormai diventato un periodo lungo una generazione intera. Un bambino nato in Grecia nel 2000, già a sette anni aveva arricchito il suo vocabolario con parole come crisi, debito, disoccupazione. A dieci sapeva tutto dello spread. A venti saprà che è ancora gravemente indebitato e quindi ben lungi dall’aver espiato la sua condanna. A 22, chissà, forse conoscerà un momentaneo sollievo.

Nel frattempo avrà pagato, sotto forma di meno servizi, diritti e garanzie, le colpe dei suoi padri.

Molto biblico.

Non fa una piega.