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Cronicario: I 300 delle Spreadopoli

Proverbio dell’8 ottobre Per il corvo il figlio canta come un usignolo

Numero del giorno: 19.895 Ftse Mib alle ore 11.00

Guardo attonito le orde dei mercati travolgere gli eroici 300 che avevamo messo ad argine del nostro Btp decennale e anzi spingersi fino al quinquennale, anche lui ormai in eccesso di 300 sul granitico Bund. I nostri 300 punti, come gli spartani travolti alle Termopili, cadono come soldatini accompagnando il tonfo della nostra borsa, che scende sotto il 20.000 punti quando appena sei mesi fa veleggiava sopra i 24.000.

Tiro le somme: abbiamo perso oltre  il 16% di capitalizzazione di borsa, un centinaio di miliardi pure malcontati, e in pratica abbiamo raddoppiato lo spread, perdendo almeno altrettanto (ma sospetto di più) sullo stock di Btp detenuti in Italia, che essendo in pancia alle nostra banche (e alle assicurazioni)

ci regala questa tempesta perfetta che rischia di rendere necessario nuove ricapitalizzazione delle nostra banche e chissà con quali soldi.

A fronte di queste mestizie sento uno dei massimi esponenti del governo del cambiamento dire che è in corso una resa dei conti fra economia virtuale ed economia reale. Non so a voi, ma io di virtuale vedo ben poco in questa ordalia. Sempre lo stesso spiega paziente che “il diritto al lavoro e le pensioni vengono prima dello spread”, con ciò mostrando di fregarsene della provenienza dei soldi per pagare l’uno e le altre. E’ questione di principio, perbacco. E non si può consentire ai mercanti di prevalere sugli eroi, come scriveva già Sombart durante la Grande Guerra.

Dal che deduco che i 300 sacrificati alle Spreadopoli non saranno gli ultimi. Semmai i primi. Dobbiamo ancora fare i conti (letteralmente) con quello che dirà Bruxelles sulla manovra una volta letta, e poi quello che diranno le agenzie di rating. I 300 diverranno 400, come ha argutamente profetizzato un altro fenomeno del governo del cambiamento. E da li chissà.

Bon voyage.

A domani.

Cronicario: All’Italia serve una propria monetina

Proverbio del 2 ottobre Se incontri uno senza sorrisi regalagliene uno

Numero del giorno 80 Spread Grecia-Germania meno quello Italia-Germania 

Chissenefrega dello spread, certo. E ancor meno me ne frego della borsa, tanto là ci stanno solo i ricchi, come no. Però del conto corrente, almeno di quello, ce ne vogliamo occupare? Per dire, se fossi un correntista postale dovrei fare un pensierino ansioso ai miei soldarelli che ivi giacciono, scarsamente remunerati, mentre il governo verdolino sogna di usare la Cdp, che incidentalmente controlla le Poste, come manleva di tutte le catastrofi aziendali nazionali?

Capisco l’entusiasmo per il governo del cambiamento, però non sarebbe male farsi qualche domanda. Tipo: perché uno dei massimi cervelli economici del paese, che incidentalmente è anche il responsabile economico di uno dei partiti della coalizione, nonché incaricato di pubblico servizio parlamentare, dichiara senza remora alcuna che “l’Italia avrebbe bisogno di una propria moneta”? Non serve essere geni come lui per capire che poi succede questa cosa.

Specie quando l’arguta affermazione avviene dopo la precipitosa ritirata di ieri sera del ministro Mammamia dall’Ecofin col pretesto di dover scrivere il Def. Che è come dire che il ministro s’era presentato all’interrogazione senza i compiti fatti. E poi quando il Gatto e la Volpe, ormai in grandissimo spolvero, dicono che a) non arretreremo di un millimetro sul Def; e che b) faremo causa a chi vuole male all’Italia, e in particolare agli eurocrati che con le loro dichiarazioni fanno salire lo spread. Infischiandosene della circostanza che lo spread sale da maggio, quando l’Europa taceva, non da ora.

E’ chiaro a questo punto pure a persone di scarsa intelligenza come me che nessuno può essere così privo di discernimento, anche se com’è noto la stupidità è un abisso senza fondo. Sicché ne deduco che c’è del metodo in questa follia e ne prendo atto. Vorrei però che le grandi intelligenze che stanno metodicamente facendo calare il valore dei nostri titoli di stato in corso di validità – ah non lo sapevate che questa è una delle tante conseguenze dell’aumento dello spread? –

dicessero ai loro tifosi che odiano l’Europa, i tedeschi, i francesi e chissà chi altro, che un buon 70 per cento dei titoli di stato italiani sta in Italia (dati settembre 2018).

Un bel po’ ce l’ha la Banca d’Italia, via QE ormai in corso di conclusione, e poi ci sono banche e assicurazioni, dove voi, cari tifosi, tenete i vostri soldini in conti correnti e polizze vita o chissà cos’altro. Perciò fatevi un’altra domanda: quanto hanno perso in valore i titoli di stato nelle pance di banche e assicurazioni (e stendo un velo sulla capitalizzazione della borsa dove tanto stanno i ricchi, banche comprese) da quando il governo del cambiamento ha cominciato metodicamente a fare incazzare gli acquirenti/venditori dei nostri titoli di stato? Facciamo i conti della serva. Sono tirati per i capelli, ma servono solo a chiarire l’idea. Lo spread è salito di circa 150 punti da maggio. Abbiamo un 2.300 e rotti miliardi di debito pubblico, diciamo che il 70% è in Italia, quindi, malcontati saranno un 1.600 miliardi. Il debito pubblico italiano ha una durata media residua di 82 mesi e mezzo (dato di giugno 2018). Quindi il nostro orizzonte di perdite teoriche, dando per buoni i conteggi della tabella sopra, si colloca in una forchetta fra il 7 e il 13% di 1.600 miliardi, ossia fra i 112 e i 208 miliardi. E questa perdita chi la paga?

Perciò, carissimi. Più che una moneta propria, l’Italia ha urgente bisogno di una monetina da tirare in aria per affidarsi alla sorte, visto che non riesce da sola a decidere che fare da grande. Testa o croce?

A domani.

 

Cronicario: I tavolini del Mise a rischio investimento

Proverbio del 18 luglio Il frutto maturo cade da solo, ma non nella nostra bocca

Numero del giorno: 4,2 Aumento % annuo compravendite immobiliari in Italia

Nel caso doveste mai passare dalle parti del ministero dello Sviluppo economico, che insiste su una traversa della celeberrima via Veneto a Roma, non stupitevi della folla di tavolini che vi trovate davanti.

E soprattutto non vi ingannate: non sono i baristi ad essere impazziti: è il governo. La confessione è arrivata dritta dritta dal titolare del dicastero, notoriamente instancabile e in perenne veglia per la salute economica, i diritti e soprattutto la dignità di Noi Tutti. Costui, mai pago di fornirci preziose informazioni, oggi ha reso noto che al Mise sono in piedi nientepopòdimeno che 144 tavoli per altrettante situazioni di crisi aziendali, attorno ai quali bisognerà decidere le sorti di 189 mila lavoratori. Tanto è l’impegno, che il Nostro, per quanto uno e bino e probabilmente trino, ha dovuto coinvolgere al baretto Mise anche quattro parlamentari a scopi non solo conoscitivi, ma anche di servizio.

Comprenderete l’ansia che m’ha divorato al pensiero che 189 mila lavoratori e altrettante famiglie siano in attesa di servizio pubblico al tavolo. Non sai mai quello che ti portano, ma costerà sicuramente caro e sulla qualità lévati. Poi però un paio di altre voci autorevolissime del governo del cambiamento sono giunte fino a noi, producendo in me un improvviso senso di tranquillità.

Il primo a parlare è stato il titolare dell’Economia, quello che rima con mammamia, il quale ha notato  che a) dal 2008 al 2018 gli investimenti della pubblica amministrazione si sono ridotti del 50% e questa “è una situazione drammatica”. Perciò il ministro Mammamia ha “evidenziato la necessità di mettere in campo investimenti sia pubblici che privati” poiché “trovare uno stimolo endogeno alla crescita significa affrontare il tema dell’occupazione”;

b) nel bilancio dello Stato sono stanziati 150 miliardi in 15 anni per gli investimenti pubblici, già scontati nel deficit. Di questi, 118 miliardi sono “considerabili immediatamente attivabili”, ma procedure complesse e capacità progettuale insufficiente ne complicano l’utilizzo, tanto da rendere biblici i tempi di realizzazione delle opere.

Il secondo a parlare è stato il titolare dei Trasporti, che ha confessato ciò che il vostro Cronicario qui, cazzeggiando come sempre, vi aveva anticipato: il decollo dell’Alétalia: “L’Alitalia tornerà compagnia di bandiera con il 51% in capo all’Italia”, visto che “l’italianità è un punto fondamentale nel futuro”. Si cerca un partner che metta il 49% e “la faccia volare”. M’immagino la fila. Specie perché il ministro bino di poco fa ha assicurato costoro e noi tutti che si “spenderà personalmente per Alitalia”.

Sicché ho finalmente capito il destino che si prepara per i tavolini al Mise: saranno investiti dal potente motore della crescita alimentato a denaro pubblico che non abbiamo.

Tutto ciò mentre il Fmi, nel documento preparato per il prossimo vertice del G20, invita i paesi per i quali la posizione “è vulnerabile alla perdita di fiducia del mercato” parlando casualmente del nostro, a evitare “stimoli di bilancio pro-ciclici” e a “ricostruire riserve di bilancio” per i tempi brutti che sono sempre in agguato. Non avete capito? Era un “Mammamia”, in versione Fmi. E non si riferiva al ministro.

A domani.

Cronicario: Nato in the USA, residente in terra di nessuno

Proverbio dell’11 luglio Meno si mangia più il cuore si riempie di luce

Numero del giorno: 150.000 Animali rapiti in Italia nel 2017

Contro il logorio della vita moderna, per ricordare un amabile spot di un’epoca fa, non usa più farsi un cordiale ma bisogna assolutamente essere capaci di discordia. Non chiedetemi perché: non faccio il sociologo né sono capace di pensieri profondi. Anche perché poi finisce che qualcuno ci crede e finisce il divertimento. Quindi nell’attesa che uno dei tanti marchettari postmoderni che affollano il web ci spieghi la weltanshauung di giornata, tocca contentarsi di quello che offrono le cronache che comunque sono uno spasso, come sempre accade quando il protagonista è il nostro amatissimo Mister T.

Questo fenomenale esempio dello spirito del nostro tempo (cit. per i famosi marchettari) oggi è riuscito a litigare con i cinesi, avendo imposto loro un altro pacco di miliardi di dazi, poi con la Germania, accusandola di essere praticamente una dependance della Russia, e poi ha svillaneggiato la Nato col solito argomento che gli americani pagano il conto più grosso, e sarebbe strano il contrario, visto che è una roba Born in the Usa, come la celebre canzone del Boss. Senonché a quest’altro boss, cui evidentemente non dispiacciono i toni della discordia, la Nato, nata (e pagata) in virtù dell’alleanza atlantica, sembra un giocattolo fuori tempo massimo e peraltro costoso, come in fondo inutile deve parergli l’Ue, visto che lui parla solo coi pezzi grossi come lui – gente del calibro di Putin e Xi – e nella Ue non ce n’è nemmeno uno. Sicché al povero segretario della Nato non è rimasto che ricordare come l’alleanza atlantica non sia scritta sulla pietra, anche se è interesse di Europa e America conservarla. Col che finalmente delineandosi la sindrome di cupio dissolvi che ha avvolto l’Occidente, ormai non più vocato al Tramonto, come profetizzava un cent’anni fa Spengler, ma direttamente all’estinzione.

Poiché la concordia non è trendy, non bisogna stupirsi più di tanto che la Cina accusi gli Usa di bullismo commerciale, con ciò preparandosi evidentemente un bellissima escalation per la gioia dei rissosi da tastiera che sono talmente intelligenti da non capire che i dazi di Mister T stroncheranno anche le nostre ambizioni da esportatori (giusto oggi è uscita la notizia che abbiamo superato la Germania per esportazioni farmaceutiche). Anche qui da noi, non manca la materia prima per le risse e tanto meno mancherà in futuro. Per dire: oggi un pezzo grosso di Blackrock, che per chi non lo sapesse gestisce alcuni trilioni di dollari di asset, ha detto che “lo spread italiano è ancora in terra di nessuno” (ma comunque è salito un cento punti base da maggio) perché non si capisce che voglia fare il governo, visto che i vari ministri dicono tutto e il suo contrario e nessuno ci sta capendo più niente, con la conseguenza che paghiamo (lo spread significa che paghiamo più interessi se non fosse chiaro) più di quanto dovremmo e meno di quanto potremmo se a furia di dire minchiate gli investitori inizieranno a prenderci sul serio. Nel senso che iniziano a credere sul serio che faremo una minchiata.

I giochi si scopriranno a ottobre, ha concluso l’uomo Black(rock), quando il governo dovrà presentare la sua legge di bilancio. E figuratevi i botti. Quanto a me, che mi sbellico dalle risate leggendo queste risse da cortile, poiché sono Nato in the Usa e residente in terra di nessuno, faccio la cosa migliore che resti da fare.

Finché dura, almeno.

A domani

Cronicario: Cala il potere d’acquisto, per fortuna è tutto gratis

Proverbio del 28 giugno Mentre nuoti ricorda i vestiti lasciati sulla riva

Numero del giorno: 12 Quota % italiana fatturato agricolo nell’Ue

Diciamolo a chiare lettere: non c’è di che preoccuparsi. Se appartenete a quella sparuta minoranza che ancora nota con raccapriccio che i soldi gli bastano mai, sappiate che questa brutta esperienza sta per finire. Il calo del potere d’acquisto registrato da Istat, che piano piano sta divorando i vostri risparmi, è solo la fase terminale di un ciclo economico globale dal quale l’Italia, finalmente col portafogli sovrano, uscirà la settimana prossima, o quella dopo ancora, o comunque prossimamente, quando, insieme al decreto Dignità tà tà arriverà il resto del contratto di governo.

Peraltro il fatto che i consumi nazionali crescano infischiandosene dei redditi, che in termini reali calano, è solo l’ennesima prova della lungimiranza del popolo italiano che ha già capito che il futuro non è guadagnare. Il futuro è spendere. E manco i soldi nostri: quelli della Ue, che secondo eminenti governanti dovrebbe pagarci tutto ciò che riteniamo opportuno perché siamo italiani. E se non lo fanno diciamo a tutti che sono cattivi.

Meglio ancora: in futuro non ci sarà neanche bisogno di consumare le nostre misere retribuzioni: sarà tutto gratis. Si comincia con la mezz’ora di internet, ma mica penserete che finirà qua. Cure gratis, vacanze gratis, lavoro gratis, studi gratis, casa gratis. Tutto gratis. Sempre per mezz’ora però.

Ci rivediamo il 9 luglio.

 

Cronicario: Harleysti di tutta Europa unitevi

Proverbio del 25 giugno Giudica il mondo con la bilancia dell’innocenza

Numero del giorno: 27 Evasori totali scoperti a Lodi negli ultimi 18 mesi

Cari amici harleysti – mai guidato una Harley però so che è una passione niente male – vi scrivo per darvi una notizia che vi farà molto piacere: la vostra casa madre ha deciso di spostare una parte robusta della produzione fuori dagli Usa in modo da schivare i dazi che l’Ue ha messo sulla vostra moto preferita, per vendicarsi dei dazi voluti da Mister T. Questo straordinario risultato, che farà di sicuro felici i lavoratori americani che così potranno riposare di più, farà felicissimi voi, che risparmierete un 2.000 e rotti dollari medi di dazio che vi sareste dovuti sobbarcare dopo l’aumento dal 6% al 21% della tariffa, e farà ancora più felici i lavoratori di Australia, Brasile, India e Thailandia, dove sono allocati gli impianti internazionali della Harley. Un capolavoro assoluto.

La Harley stima che i dazi costeranno un centinaio di milioni l’anno che ovviamente la società non ha la minima intenzione di scaricare sui consumatori finali, cioé voi, cari harleysti d’Europa, e così fa produrre in quei paesi con i quali l’Ue ha una politica commerciale meno tesa, pur di mantenere i prezzi fermi. Anche perché va bene la passione, ma duemila dollari sono sempre una spesa niente male. Felice per questa decisione anche la borsa di New York, dove la Harley ha perso l’1,72% in apertura.

Perciò cari harleysti di tutta Europa unitevi e dite un bel grazie a nostro super Presidente che con la sua illuminata politica del commercio internazionale tiene bassi i prezzi favorendo le delocalizzazioni. Dite che non doveva andare così? E’ una fake news.

A domani.

Cronicario: Ministro buono e ministro cattivo

Proverbio del 21 giugno La seconda parola dà inizio al litigio

Numero del giorno: 232.563 Colf italiane nel 2017, in aumento del 6,9% sul 2016

Stamattina mi son svegliato e ho trovato la spiegazione: siamo prigionieri (dei) politici. C’è il ministro cattivo, che ogni santissimo giorno ci ubriaca di parole spaventose su qualunque argomento per convincerci a votarlo. E il ministro buono, che ci blandisce recitando le parole che ci rassicurano prima o dopo.

Il ministro cattivo piace alle masse, che sono evidentemente incattivite. Il ministro buono piace alle élite, che sognano di diventarlo. E così il governo di Pinocchio raggiunge la difficile quadratura di accontentare tutti non spiacendo a nessuno, al netto di minoranze elettoralmente insignificanti e per giunta in via di estinzione. Prigionieri inconsapevoli della politica ai tempi dei social, stiamo già mostrando segni incipienti della sindrome di Stoccolma e fra un po’ adoreremo i nostri carcerieri che ci stressano con le loro promesse e pretendono da noi solo che confessiamo di votarli almeno nei sondaggi. Perché loro sanno quello che desideriamo: la flat tax e il condono, il reddito di cittadinanza, ma anche la pensione, l’abolizione della Fornero, il posto fisso e la casa gratis e nel frattempo terranno lontano gli invasori che partono dalla Libia. Tutto questo “rispettando i vincoli europei”. E lo dicono senza neanche ridere.

Inutile spiare vie di fuga. Fuori dalla cella nella quale ci siamo infilati con le nostre stesse mani, lontano dall’eloquio saggio e furbetto del ministro buono e dalla ruvida parlantina del ministro cattivo, c’è solo lo sproloquio scoraggiante degli oppositori – quei pochi che ancora parlano – che hanno la credibilità dei fantasmi che sono diventati per la semplice ragione che li conoscevamo bene quando erano in vita. Per dire – e pesco a caso fra le risse di giornata – fra il Noto Scrittore e il ministro cattivo è molto difficile capire chi piaccia meno, quando invece dovremmo avere pochi dubbi su chi piaccia di più se non vivessimo dentro la nostra cella foderata di politica con le luci perennemente accese.

Comprendo che a questo punto dovrei fornirvi una parola di speranza, o almeno strapparvi due risate, che poi è quello per cui è nato il Cronicario. E d’altronde il penitenziario Italia – non si spiegherebbe la nostra passione insana per le cronache carcerarie se non ci vivessimo dentro – offre ogni giorno cento ragioni per una risata liberatoria. Ma fra ex politici di rango, ai quali sequestrano cinque milioni di euro guadagnati  non si capisce bene come, e virulente polemiche per nulla autoironiche sulla cannabis light al tempo della dipendenza da videogiochi, la migliore che trovo è lo spettacolo d’arte varia di un sottosegretario alle infrastrutture che non ricorda chi sia il suo ministro, con l’aggravante che quando gli dicono chi è, lui lo rinnega per tre volte senza neanche chiamarsi Pietro. Il governo che non conosce se stesso è la nostra perfetta rappresentazione. Il ministro buono e quello cattivo quello che ci meritiamo.

A domani

Cronicario: Il surplus sta finendo (e un anno se ne va)

Proverbio del 18 giugno Il frutto maturo cade da solo ma non nella nostra bocca

Numero del giorno: 426.000.000 Tonnellate anidride carbonica emesse in più, 2017

E siccome è lunedì, vi beccate il post stralunato che parla persino di cose serie in un momento di massima ilarità nazionale, provocata dall’ennesima replica in stile Bagaglino dell’eterna telenovelas italiana “Io pago, tu rubi”. Post serio dicevo perché molto seriamente l’Istat ci fa notare che il nostro commercio estero va talmente bene che il surplus diminuisce malgrado aumenti l’export.

L’erosione del surplus commerciale, malgrado la crescita su base annua dell’export del 6,6% dipende dal fatto che nel frattempo è cresciuto anche l’import del 9,6% con la quota dell’import extra Ue aumentata dell’11,4%. Insomma: godetevi la tabella qua sotto e fateci due pensierini.

Io sono riuscito a farne uno solo. I dati grezzi, nel confronto aprile 2017/2018, registrano un aumento robustissimo (il 18,5%) delle importazioni di energia, mentre i saldi mostrano un costo per l’energia superiore ai 12 miliardi e mezzo nei primi quattro mesi dell’anno. Ciò vuol dire che il saldo dell’export totale pari a 22,975 miliardi, è stato “mangiato” per oltre il 50% dalla bolletta energetica e questo è più che sufficiente per spiegare perché i nostri saldi congiunturali (ossia mensili) siano in calo. Ora se pensate che il 22 giugno ci sarà una riunione nella quale l’Opec plus dovrà decidere se e quanto ridurre i tagli alla produzione, che impattano non poco sul prezzo del petrolio, magari vi verrà l’uzzolo di appassionarvi un po’ più ai giochetti del mercato petrolifero invece che allo spetteguless politico-giudiziario…

Ma nel caso non dovesse succedere, almeno date una raddrizzata alle vostre priorità. Per esempio: sapete chi sono i nostri principali partner che importano da noi? Ve lo dico io. Anzi ve lo dice l’Istat:

Ecco. Quando vi dicono che il nostro futuro commerciale è in Russia, magari toccate ferro. E poi compratevi qualcosa made in Ue. Almeno è reciproco. Con gli Usa non saprei: fra un po’ si daziano da soli e quindi meglio lasciarli perdere. Almeno finché non rinsaviscono. Infine una notazione di calendario. Nel caso non l’aveste notato siamo agli sgoccioli del primo semestre e alla vigilia del grande esodo.

Un anno se ne va e ancora non ho letto una sola cosa che avesse una quale parvenza di intelligenza nel nostro dibattere pubblico. Siamo in preda agli auto-insulti almeno da un quadrimestre. E dopo l’estate arriverà implacabile come una cambiale la legge di bilancio. Considerando che il DEF preparatorio dovrebbe arrivare domani alla Camera e al Senato, c’è da sperare solo che l’acronimo, dopo il dibattito, non diventi un’abbreviazione. Di deficit, per cominciare. Perché a furia di far deficit si diventa deficienti.

A domani.

Cronicario: L’occupazione aumenta come gli stipendi: precariamente

Proverbio del 12 giugno L’uomo morale si adatta alle circostanze della vita

Numero del giorno: 3 Aumento % annuo credito al settore privato in Italia

Dovrei raccontarvi dell’asta dei bot annuali di oggi, giusto per far sapere a lor signori che “ormai va tutto bene” che abbiamo dovuto pagare un tasso dello 0,55% mentre l’ultima volta avevamo venduto a un tasso negativo per lo 0,36. In sostanza ci avevamo guadagnato e oggi ci abbiamo perso. Certo, un progresso straordinario se lo paragoniamo al martedì della paura, quando il semestrale fu venduto all’1,2% e addirittura il rendimento del biennale superò quello del decennale. Ma non è che mi consoli questa cosa. Stiamo meglio ma non stiamo affatto bene.

Sarà colpa delle tossine che abbiamo rilasciato sul finire della nostra crisi di governo, mi dico, e me ne convinco quando mi cade sotto gli occhi un paper diffuso dal Ceps, un pensatoio che sta per Center for european policy estudies, dove viene riesumato il glorioso piano B di uscita dall’euro che tanta fortuna ha portato ai capitali residenti in Italia e ai nostri tassi di interesse.

Vagamente intossicato anch’io corro alla ricerca di buone notizie per distrarmi dallo scoramento, ma la cosa più allegra che trovo, volendo evitare di parlare di Trump e dei nordcoreani, dei profughi sul mare e delle altre facezie di questa tranquilla giornata di giugno, è l’Istat che rilascia i dati sull’occupazione.

Scorro il bollettino e scopro che abbiamo fatto 147 mila occupati in più su base annua, ossia un povero +0,6%, solo che questa crescita è trainata dai dipendenti a termine. Sicché mi risulta improvvisamente chiara la ragione per la quale la crescita delle retribuzioni, sempre su base annua, non abbia superato lo 0,4%, meno dell’inflazione. Occupazione e retribuzioni crescono nello stesso modo: precariamente. Sostanzialmente poco. E poco serve a consolarmi la circostanza che sia diminuito il tasso di inattività quando Bankitalia nella sua ultima relazione annuale ha certificato che i redditi equivalenti reali sono il 10% in meno rispetto a prima della crisi.

Se mi tocca consolarmi con l’Istat è perché il resto che gira è pure peggio. Per cose che succedono esce pure l’analisi mensile di Bankitalia sull’economia italiana, della quale l’unica cosa che dovremmo tenere a mente è il grafico sulla titolarità del nostro debito pubblico (quello dell’asta di prima), che come potete vedere è ben assortito e molto internazionale: un settecento miliardi a occhio risiede all’estero.

Perciò m’è scappata una risata a metà fra l’isterico e il preoccupato quando ho letto che autorevoli fonti hanno fatto filtrare da Palazzo Chigi, dove si è svolto un vertice fra il premier i ministri economici che nell’Ue “la musica deve cambiare”.

Figuratevi poi che m’è successo quando, sempre Bankitalia, ha notato che le sofferenze bancarie sono scese del 10,7% in un anno. Come se il problema fosse solo dove eravamo e non dove stiamo.

La musica deve cambiare nell’Ue. Ma anche da noi direi.

A domani.

Cronicario: E d’improvviso a tutti importa dei porti

Proverbio dell’11 giugno L’amata senza sorriso è come una lampada senza luce

Numero del giorno: 18.000 Frammenti di Dna che distinguono l’uomo dallo scimpanzé

Se non fosse per la Spagna, che con un bell’olé ha risolto l’emergenza dell’Aquarius offrendo ospitalità ai profughi africani, staremmo ancora a discutere dei porti italiani che mai come oggi hanno avuto l’onore delle cronache e che adesso, assai repentinamente verranno dimenticati. La qualcosa ha del fenomenale. Siamo l’unica penisola al mondo con una lunga storia di commercio marittimo alle spalle che parla di porti solo quando arriva l’uomo nero. Per il resto…

No, veramente: ce ne infischiamo tutti. Sicché, poiché l’emergenza migranti ha acceso un faro sulla nostra ricettività portuale, ne approfitto per raccontarvi che abbiamo una rete portuale che potrebbe farci stare assai meglio di quanto stiamo se fossimo capaci di utilizzarla. Per dire, se in Italia sbarcassero anche tanti più cargo, oltre ai profughi, sarebbe un terno al lotto per la nostra economia. E invece facciamo viaggiare il grosso delle nostre merci su strada anziché per mare.

Vi do giusto un paio di anticipazioni contenute nell’ultimo rapporto che domani Sace presenterà a Milano, dove la fra le altre cose viene fuori che siamo al 26esimo posto nella classifica mondiale delle infrastrutture strategiche per il commercio. E noi saremmo anche un paese esportatore. Secondo le stime di Sace perdiamo 70 miliardi l’anno proprio per questo deficit di capacità di trasporti che potrebbe far crescere di altrettanto le nostre esportazioni. Ora non è voglio farvi arrabbiare col solito confronto con i tedeschi, ma loro stanno molto meglio di noi a livello di infrastrutture portuali spendendo peraltro parecchio in investimenti, 50 miliardi a fronte dei 30 italiani. Tutto ciò determina che il nostro sistema portuale esporta e importa rispettivamente il 26,5 e il 30,5% dei nostro commercio estero a fronte del 38,5 e 34,6% che viaggia su strada. E abbiamo pure perso connettività rispetto alle principali rotte internazionali.

E questo è il punto. Se a noi non importa dei porti, poi non stupiamoci che importino ad altri.

A domani.