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Le metamorfosi dell’economia: Ringraziamenti
Ci siamo intrattenuti per trenta settimane immaginando di raccontare le metamorfosi dell’economia. E’ stato il primo esperimento, per me, di libro scritto e pubblicato a puntate senza che ogni settimana avessi idea di cosa sarebbe uscito la prossima. Una gran fatica. Ma anche una cosa molto bella da vivere insieme a voi. Sapere che ogni mercoledì avevamo un appuntamento, che io vi avevo dato e che quindi dovevo onorare, è stato un potente stimolo alla ricerca. Sono contento di aver rispettato l’impegno, a dimostrazione del mio rispetto per voi che leggete.
E’ stata anche una cosa molto ottocentesca, se ci pensate. A quel tempo era prassi comune pubblicare a puntate su giornali e riviste sterminati feuilleton che fecero la fortuna della letteratura di quel periodo. E in fondo recuperare, innovandoli, alcuni buoni pensieri dei vecchi tempi è stato lo spirito che ha animato tutto il lavoro di scrittura.
Il libro non ha grandi ambizioni. Non sogna di diventare grande. L’ho scritto pensando di volere trascorrere con voi queste lunghe settimane che ci hanno portato verso l’estate e la fine della quarta stagione del blog, discorrendo di ciò che più ci sta a cuore: ossia il nostro comune benessere. L’economia, come ho più volte detto su queste pagine, è solo un pretesto per ricordare l’elementare verità che appartiene alla saggezza popolare: l’unione fa la forza. E quindi la nostra forza di persone e poi di cittadini dipende dal tipo di comunità che possiamo pensare di costruire insieme. Ma per riuscirci dobbiamo condividere i nostri pensieri, dai quali si originano le nostre azioni. Una qualunque comunità non può esistere se non si condividono alcuni pensieri. Quelli che una volta si chiamavano valori.
Questo libro perciò, perciò, voleva solo essere un tentativo di condividere pensieri per vedere se sono capaci di creare uno spirito comune. Cercare compagni di excursus, o, quantomeno, lettori privi di pregiudizi. E dalle interazioni e le valutazioni che ho ricevuto nel frattempo si può dire che la fatica – ossia il mio tempo – sia stata ben spesa. Ci siamo intrattenuti piacevolmente, e spero anche creativamente. Abbiamo ragionato di cose delle quali in questi tempi di devastazione econometrica non si parla più quando si discorre di economia, ossia il valore del tempo – che è la nostra vita – della possibilità di farne l’autentica misura del valore, della possibilità di riconciliare ozio e negozio, di creare isole di libertà fra i Moloch delle istituzioni che, rigide e incapaci, ci stanno conducendo verso una sostanziale spersonalizzazione in cambio di un’illusione di ricchezza che alimenta un benessere malvivente. Ciò al fine di superare consuetudini ormai insostenibili e instaurare un nuovo rapporto col lavoro, ossia ciò che ci dà da vivere.
Il mio primo ringraziamento, quindi, è per tutti coloro che hanno contribuito ad animare il viaggio: chi ha commentato, chi ha condiviso i capitoli che gli sono piaciuti di più e chi è diventato un habitué dei rendez vous del mercoledì. Ringrazio particolarmente Leonardo Baggiani (@LBaggiani) che si è offerto di rileggere l’intero manoscritto per offrirmi suggerimenti e critiche, perché magari il libro, che non vuol diventar grande, possa trovare nel giardino della sua infanzia un editore incosciente abbastanza da pubblicarlo. Nel caso ve lo farò sapere, ma non ci contate troppo. Tutto ciò che viaggia fuori le righe difficilmente viene impaginato.
Il secondo ringraziamento è in realtà il riconoscimento dell’enorme debito che ho accumulato nei confronti dei tanti pensatori – alcuni sono citati nel libro, la gran parte vive nella filigrana della mia memoria – il cui lavoro ha consentito a me di fare il mio. Ogni libro, in fondo, non è che una raccolta di glosse al grande libro della storia, e questo non fa eccezione. Questo debito è destinato a non esser mai ripagato, ma è un debito sano. Un debito che genera libertà, non schiavitù.
Il terzo ringraziamento è per la mia famiglia, vittima dei miei sproloqui e delle mie assenze. Anche questo debito è destinato a non esser ripagato, ma è altrettanto sano: genera gioia, non dolore.
Infine, una notazione sul futuro. Le Metamorfosi dell’economia concludono in qualche modo quella che voleva essere una riflessione filosofica sull’economia. Adesso il prossimo lavoro, parecchio più ambizioso, avrà un taglio storico. Si tratterà di una ricognizione molto documentata sull’ultimo secolo della nostra economia. Vi aggiornerò su tempi e modalità di pubblicazione.
A tutti coloro che sceglieranno di far con me questo nuovo viaggio dedico il mio ultimo grazie.
A presto.
(30/fine)
L’economia segreta dei fondi pensione
L’altra faccia della previdenza, tanto nota quanto poco discussa, è quella rappresentata dai fondi pensione. Entità ormai stellari che muovono decine di trilioni di asset cercando di spuntare rendimenti per i loro iscritti, che poi saranno i pensionati di domani.
Ancor meno discussa è la circostanza che i fondi pensione rappresentino meno di un quarto del totale delle risorse che i cosiddetti investitori istituzionali hanno totalizzato.
L’Ocse, nel suo ultimo Pension market focus ci ricorda tali asset essere arrivati a fine 2013 a 96,6 trilioni di dollari, ossia all’incirca al livello, com’è logico che sia, del totale dei debiti corrispondenti.
Questa montagna di ricchezza se la spartiscono i fondi di investimento, per 34,9 trilioni, le compagnie di assicurazione, 26,1 trilioni, e i fondi pensione, per 24,7 trilioni. I fondi di riserve delle pensioni pubbliche arrivano ad appena 5,1 trilioni e al 1,8 trilioni arrivano da altri investitori.
Se restringiamo il focus sui fondi pensione, notiamo che l’indice valore asset/Pil, che dà l’idea del peso specifico di queste entità sul totale dell’economia, è passato dal 77,1% del Pil nel 2012 (dato medio riferito ai paesi Ocse) all’84,2 nel 2013. A significare perciò che queste entità crescono a rotta di collo.
Dovrebbe farci piacere dopotutto. In un’età in cui la previdenza pubblica mostra la corda, sapere che ci sono entità più o meno private che si occuperanno di garantire la nostra vecchiaia dovrebbe rasserenarci.
Però, vedete, mentre osservo il sorgere dell’alba di questi nuovi giganti, all’orizzonte intravedo anche alcune curiosità che trovo utile condividere con voi perché credo che ci aiutino meglio a capire che mondo si sta preparando. Perché accanto all’economia ufficiale dei fondi pensioni, ce n’è un’altra segreta, rappresentata dagli effetti che le strategie di investimento di questi soggetti finiscono con l’avere sui mercati internazionali.
I dati generali ci dicono che i rendimenti dei fondi pensione, nel 2013, sono stati positivi in media del 5,6% (dato riferito al’area Ocse) con il picco degli Usa (+11,7%) e la perdita dei fondi danesi (-4,7%), potendo godere degli effetti positivi dei vari allentamenti monetari.
La classe dominante degli asset è quella dei bond, che pesano il 52% del totale, ma in molti paesi, a cominciare dagli Usa, le azioni vengono subito dopo, con quota fra il 40 e il 50%.
Un altro dato merita di essere osservato, ossia la crescita impressionante del valore degli asset detenuti globalmente, che nel 2001 era di poco superiore a 10 miliardi e adesso è pressoché raddoppiata.
Ma è dall’analisi dell’aggregato che si evincono le informazioni più interessanti. I fondi pensione, infatti, con i loro 24,7 trilioni di asset gestiti rappresentano il 68% del totale degli asset pensionistici privati.
Negli Stati Uniti, dove queste entità sono fra le più ampie al mondo, i fondi pensioni hanno asset per l’83% del Pil, che perciò ogni anno devono circolare per il mondo cercando di far fruttare rendimenti sufficienti per i loro iscritti, molti dei quali, e questa è una circostanza poco apprezzata, hanno contratti a prestazione definita.
Questo non è un dettaglio di poco conto. I fondi si distinguono fra quelli che hanno una contribuzione definita, quindi l’iscritto sa quanto paga ogni mese, ma non sa fino a che non va in pensione quanto incasserà, e quelli a prestazione definita, nei quali l’iscritto conosce la momento della sottoscrizione quanto sarà la sua rendita pensionistica.
Un grafico illustra chiaramente quale sia lo stato dell’arte in proposito. In Italia, ad esempio, si è optato in larghissima parte per fondi a contribuzione definita. In altri paesi, come il Cile, la Repubblica Ceca, l’Estonia, la Francia, la Grecia, l’Ungheria, la Polonia, la repubblica Slovacca e la Slovenia i fondi sono tutti a contribuzione definita.
Altri paesi, al contrario, hanno fondi a prestazione definita. I particolare, Svizzera, Germania e Finlandia, sono interamente a prestazione definita. In larga parte anche quelli canadesi. E questo spiega perché la politica dei tassi bassi perseguita dalla Bce innervosisca questi paesi.
Negli Stati Uniti i fondi a prestazione definita sono maggioritari, con oltre il 55% delle posizioni che sanno già a quanto ammoneterà pensione. O per lo meno i fondi sanno quanto dovranno pagare. E il punto, se ci pensate, è proprio questo.
Sappiamo infatti che nel 2013 gli asset dei fondi pensione americani pesavano il 56,3% del totale, quindi parliamo di oltre 13 trilioni. A fronte di ciò abbiamo oltre il 55% di posizioni aperte a prestazione definita. E ciò obbliga i gestori di questi fondi a fare whatever it takes, per citare un noto brocardo, per garantire le rendite ai loro iscritti.
Ciò vuol dire, in pratica, che alcuni milioni di persone, che casualmente risiedono nell’economia più forte del mondo, finiscono col determinare, anche se indirettamente, gran parte degli andamenti dei mercati internazionali, vista la quantità di asset che i fondi americani sono in grado di mobilitare. E il fatto che gli Usa siano in testa ai rendimenti illustra meglio di ogni altro ragionamento questa evidenza.
Poi c’è un’altra circostanza che vale la pena sottolineare: gli investimenti esteri di questa entità. Nella classifica redatta da Ocse spiccano, per la loro assenza, proprio gli Stati Uniti. Mentre i fondi pensione italiani nel 2013 hanno investito il 57,1% dei loro asset oltre confine, quarto paese dopo Estonia, Lussemburgo, Repubblica Slovacca, gli Usa nella selezione Ocse, che vede ultima la Turchia con l’1% del totale di asset investito all’estero, non ci sono. Ne deduco che i 13 mila e passa miliardi che queste entità gestiscono trovano confortevole ospitalità in patria o che perlomeno l’Ocse non ha ritenuto di censirle perché poco significative o magari per carenza di informazioni.
E’ chiaro a tutti che se così fosse, se vale a dire i fondi Usa investissero tutto a casa loro, si spiegherebbe molto del boom borsistico di questi anni nonché dei rendimenti a due cifre dei fondi americani.
Comunque sia, un’evidenza mi appare chiara, al termine di questa disamina: i nuovi rentier made in Usa sono i veri (e unici) pensionati del futuro.
La scommessa (persa) per una pensione “normale”
Negli ultimi undici anni i rendimenti totali dei fondi pensione negoziali sono stati di nove punti sotto quello del Tfr. Per la precisione, 30,3% per i fondi, 39,5% per il Tfr. Il dato è contenuto nell’ultima relazione annuale della Covip, la commissione che vigila sui fondi pensione, dove si legge pure che “il rendimento conseguito nello stesso temporale dai fondi pensione aperti, caratterizzati in media da una maggiore esposizione azionaria, è stato del 3,1%”.
Stando così le cose si capisce perché la previdenza integrativa, della quale la creazione dei fondi pensione negoziali è stato il momento saliente, soffra ancora in Italia. Gli iscritti sono poco meno del 25% del totale dei lavoratori e le masse gestite si collocano intorno ai 94 miliardi, e se il trend delle iscrizioni è in crescita costante, cresce anche la percentuale di sospensione della contribuzione, che nel 2011 si è collocata intorno al 20% del totale.
La montagna, insomma, ha partorito il classico topolino, mancando due dei principali obiettivi per i quali è stata costruita e realizzata la riforma dei fondi pensione: assicurare un’integrazione significativa alla previdenza obbligatoria dei lavoratori e mettere linfa vitale nei mercati finanziari, nella presunzione che costoro siano più efficienti nell’allocazione del risparmio.
A conti fatti, finora ci hanno guadagnato solo i gestori, non certo le imprese, che usavano il Tfr per finanziarsi, o i lavoratori, che subiscono un dimagrimento certo (il Tfr) a fronte di un rendimento incerto (la rendita previdenziale integrativa). A ben vedere, ci ha guadagnato il Tesoro, che preleva ogni anno dall’Inps a costo zero la quota del Tfr versato da chi ha scelto di non aderire.
Se si guardano i rendimenti dal 2005 al 2011, nel periodo in cui la riforma dei fondi pensione si è incardinata e diffusa, il risultato cambia poco. I fondi negoziali hanno reso il 18,7% e i fondi aperti il 12,6, a fronte del 18,9 ottenuto dal Tfr. Se poi si approfondisce l’analisi, si scopre che i fondi negoziali gestiti con l’obbligazionario puro, la forma più sicura e quindi in quale modo assimilabile al Tfr, hanno spuntato un rendimento complessivo del 13,5%. E’ più che legittimo, perciò, porsi una domanda: ma se invece di versare tutto il proprio Tfr nei fondi pensione, un lavoratore se lo tiene e, una volta incassato, lo investe in un titolo di Stato, avrà una rendita maggiore o minore di quanto gli garantisce un fondo pensione?
Tentare una stima è alquanto avventuroso, anche a causa delle pluralità delle numerose situazioni previdenziali. Alcune simulazioni calcolano che l’incidenza della previdenza obbligatoria sul totale della prestazione pensionistica erogata si colloca fra il 10 e il 20% dell’ultima retribuzione, che si va a sommare quindi al circa 50% garantito dalla previdenza obbligatoria, che è più o meno quanto andrà a incassare di pensione un lavoratore interamente a regime contributivo con gli attuali tassi di sostituzione.
A rendere incerto il quadro è anche il regime dei fondi pensione, che sono a contribuzione definita e non a prestazione definita. Quindi si conosce l’entità del versamento, ma non della rendita finale, essendo quest’ultima notevolmente influenzata dall’andamento dei mercati finanziari. Ora, è pur vero, come rileva la Covip, che gli scarsi rendimenti ottenuti dai fondi pensione dal 2000 in poi sono influenzati “dalle numerose turbolenze provocate prima dalla bolla dei titoli internet e poi dalla crisi finanziaria scoppiata negli Stati Uniti fra il 2007 e il 2008”. Ma forse bisognerebbe iniziare a pensare che tali turbolenze non sono l’eccezione, nei mercati finanziari, ma la regola.
Uno studio pubblicato su Nber nell’aprile del 2008, che ha monitorato l’andamento delle crisi macroeconomiche nel mondo dal 1870 al 2008, ha individuato 87 episodi di crisi che hanno colpito gravemente i consumi e 148 crisi che hanno avuto impatti importanti sul Pil, arrivando a stimare la probabilità di una crisi macroeconomica al 3,6% l’anno. Considerando che la vita lavorativa oggi deve durare almeno 40 anni, chiunque può capire quanto siano alte le probabilità di incappare in uno scompenso previdenziale. Specie in un mondo fortemente globalizzato come il nostro.
Ce n’è abbastanza per dire che la scommessa per avere una pensione “normale”, capace cioé di garantire una vita post-lavorativa dignitosa, si rischia di perderla. Tutti.
