Etichettato: le metamorfosi dell’economia

Egonomia – Il Secolo economico: Introduzione e indice

Questo è un nuovo progetto che cerca partecipanti e soprattutto sostenitori. Si tratta di un lungo viaggio nella storia economica dell’ultimo secolo, motivato dalle ragioni che trovate in questa introduzione e sulle quali perciò non mi dilungo. E’ un progetto ambizioso che richiede la risorsa più preziosa di cui disponiamo: il tempo. E, per conseguenza, il suo succedaneo più conosciuto: il denaro. Si tratta di un libro che segue idealmente la traccia iniziata con Tedioevo e precisata con le Metamorfosi dell’economia, usciti entrambi a puntate in questo blog. Cerchiamo sostenitori, quindi anche editori disposti a investire su una strategia di medio termine. Chiunque voglia dare una mano è benvenuto. Può contattarmi qui sul blog e studieremo insieme il da farsi. Grazie.

Introduzione – Fuori dal labirinto

Dobbiamo riavvolgere il filo per uscire dal labirinto. Sbrogliare la ragnatela della storia, intricata e naturalmente fraintesa, che ci imprigiona in ragionamenti sterili e prospettive false: nebbie sul nostro cammino che finiscono col confonderci. Ci smarriamo nel garbuglio della cronaca, di per sé caotica, immemori delle radici che hanno fiorito la trama del presente. E così perdiamo noi stessi.
Riavvolgere il filo significa trasformarsi in cacciatori di tartufi. Usare l’olfatto invece della ragione. Cercare la suggestione invece della spiegazione. Tornare da dove tutto è cominciato – senza pretese storiografiche, che sarebbero insensate – e da lì tracciare un affresco sulla parete del presente. Trasformare la scrittura in pittogramma.
La traduzione di tale geroglifico è affidata all’anima, non al pregiudizio della mente, perché l’anima comprende senza sapere ed è capace di rigenerare il nostro tessuto interiore, guastato dalle cicatrici della storia.
Uscire dal labirinto vuol dire smascherare l’Egonomia, grave malattia dello spirito, ossia del principio ordinatore della nostra realtà. Tale malanno, degenerato in ossessione maligna, risulta dal proliferare del capitale fittizio, ormai fuori controllo, manifestazione materica e insieme astratta del desiderio di eternità che maschera la nostra paura della morte. Questo travestirsi illusorio trova fondamento politico nella forza di pochi e nella debolezza di molti: masse omologate e complici senza più fisionomia che non sia quella di una bocca spalancata; pronte ad ingoiare i frutti velenosi di un benessere economico purchéssia. L’uomo economico, concepito secoli fa, è diventato l’individuo comune di oggi che misura egonomicamente tutte le cose. Un calcolatore a-relazionale. Misuriamo il mondo e noi stessi col metro monetario. Ciò che vale genera una corrispettivo o non vale. Quindi non è. L’avere
è diventato l’essere e il non avere implica il non essere. La riduzione dell’essere
all’economico è il peccato compiuto in un passato lontano ed ereditato dal nostro tempo, ignaro persino di doverlo espiare e anzi compiaciuto della sua maestosità.
La bulimia di oggetti coi quali ci circondiamo testimonia della nostra ansia di esistenza che sublimiamo con desideri effimeri, sapientemente indotti, che durano il tempo di essere esauditi, possibilmente a debito, giacché il sistema richiede di non poter essere limitato dalla finitezza delle risorse. Se il capitale fittizio fosse finito, noi saremmo finiti. Ossia proprio ciò che l’economania vuole celare e l’egonomista dimenticare. Pure a costo di vivere un simulacro di vita.
Dobbiamo perciò affilare i sensi per ritrovare il filo, tornare all’ingresso del labirinto e
lasciarcelo alle spalle, incamminandoci lungo una nuova storia che sia caotica ma vitale, fidando nel potere magico e taumaturgico della parola, principio risanatore perché creatore di logos.

Questo cammino inizia qui.

Indice

Definizioni

Introduzione- Fuori dal labirinto

Parte I Illustrazione

Puzzle (1918-2018)

Parte II Via coi Venti

Prove generali (1919-1929)

Parte III I Trenta ingloriosi

Echi del presente (1930-1939)

Parte IV L’economia in guerra

Le nuove armi dell’economia (1940-1945)

Parte V I Trenta (in)gloriosi

Ouverture: Exit strategy (1946-1951)
Andante: Ripartenza (1952-1957)
Allegresse: Boom (1958-1967)
Grave: Bust (1968-1971)
Furioso: Redde rationem (1972-1979)

Parte VI Il ciclo(ne) degli Ottanta

Danni collaterali (1980-1989)
Nel cuore del Regno (1990-1993)
La quieta tempesta (1994-2007)
Spiaggiamento (2008-2018)

Conclusione: La fine del Secolo economico

Le metamorfosi dell’economia: Ringraziamenti

Ci siamo intrattenuti per trenta settimane immaginando di raccontare le metamorfosi dell’economia. E’ stato il primo esperimento, per me, di libro scritto e pubblicato a puntate senza che ogni settimana avessi idea di cosa sarebbe uscito la prossima. Una gran fatica. Ma anche una cosa molto bella da vivere insieme a voi. Sapere che ogni mercoledì avevamo un appuntamento, che io vi avevo dato e che quindi dovevo onorare, è stato un potente stimolo alla ricerca. Sono contento di aver rispettato l’impegno, a dimostrazione del mio rispetto per voi che leggete.

E’ stata anche una cosa molto ottocentesca, se ci pensate. A quel tempo era prassi comune pubblicare a puntate su giornali e riviste sterminati feuilleton che fecero la fortuna della letteratura di quel periodo. E in fondo recuperare, innovandoli, alcuni buoni pensieri dei vecchi tempi è stato lo spirito che ha animato tutto il lavoro di scrittura.

Il libro non ha grandi ambizioni. Non sogna di diventare grande. L’ho scritto pensando di volere trascorrere con voi queste lunghe settimane che ci hanno portato verso l’estate e la fine della quarta stagione del blog, discorrendo di ciò che più ci sta a cuore: ossia il nostro comune benessere. L’economia, come ho più volte detto su queste pagine, è solo un pretesto per ricordare l’elementare verità che appartiene alla saggezza popolare: l’unione fa la forza. E quindi la nostra forza di persone e poi di cittadini dipende dal tipo di comunità che possiamo pensare di costruire insieme. Ma per riuscirci dobbiamo condividere i nostri pensieri, dai quali si originano le nostre azioni. Una qualunque comunità non può esistere se non si condividono alcuni pensieri. Quelli che una volta si chiamavano valori.

Questo libro perciò, perciò, voleva solo essere un tentativo di condividere pensieri per vedere se sono capaci di creare uno spirito comune. Cercare compagni di excursus, o, quantomeno, lettori privi di pregiudizi. E dalle interazioni e le valutazioni che ho ricevuto nel frattempo si può dire che la fatica – ossia il mio tempo – sia stata ben spesa. Ci siamo intrattenuti piacevolmente, e spero anche creativamente. Abbiamo ragionato di cose delle quali in questi tempi di devastazione econometrica non si parla più quando si discorre di economia, ossia il valore del tempo – che è la nostra vita – della possibilità di farne l’autentica misura del valore, della possibilità di riconciliare ozio e negozio, di creare isole di libertà fra i Moloch delle istituzioni che, rigide e incapaci, ci stanno conducendo verso una sostanziale spersonalizzazione in cambio di un’illusione di ricchezza che alimenta un benessere malvivente. Ciò al fine di superare consuetudini ormai insostenibili e instaurare un nuovo rapporto col lavoro, ossia ciò che ci dà da vivere.

Il mio primo ringraziamento, quindi, è per tutti coloro che hanno contribuito ad animare il viaggio: chi ha commentato, chi ha condiviso i capitoli che gli sono piaciuti di più e chi è diventato un habitué dei rendez vous del mercoledì. Ringrazio particolarmente Leonardo Baggiani (@LBaggiani) che si è offerto di rileggere l’intero manoscritto per offrirmi suggerimenti e critiche, perché magari il libro, che non vuol diventar grande, possa trovare nel giardino della sua infanzia un editore incosciente abbastanza da pubblicarlo. Nel caso ve lo farò sapere, ma non ci contate troppo. Tutto ciò che viaggia fuori le righe difficilmente viene impaginato.

Il secondo ringraziamento è in realtà il riconoscimento dell’enorme debito che ho accumulato nei confronti dei tanti pensatori – alcuni sono citati nel libro, la gran parte vive nella filigrana della mia memoria – il cui lavoro ha consentito a me di fare il mio. Ogni libro, in fondo, non è che una raccolta di glosse al grande libro della storia, e questo non fa eccezione. Questo debito è destinato a non esser mai ripagato, ma è un debito sano. Un debito che genera libertà, non schiavitù.

Il terzo ringraziamento è per la mia famiglia, vittima dei miei sproloqui e delle mie assenze. Anche questo debito è destinato a non esser ripagato, ma è altrettanto sano: genera gioia, non dolore.

Infine, una notazione sul futuro. Le Metamorfosi dell’economia concludono in qualche modo quella che voleva essere una riflessione filosofica sull’economia. Adesso il prossimo lavoro, parecchio più ambizioso, avrà un taglio storico. Si tratterà di una ricognizione molto documentata sull’ultimo secolo della nostra economia. Vi aggiornerò su tempi e modalità di pubblicazione.

A tutti coloro che sceglieranno di far con me questo nuovo viaggio dedico il mio ultimo grazie.

A presto.

(30/fine)

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Le metamorfosi dell’economia: Lo Stato prenditore

Con lo Stato dobbiamo fare i conti, ci piaccia o no, esaurendo questa preferenza l’ampio arco di possibilità economiche che va dall’entità onnipresente, che nessuno meglio del Leviatano di Hobbes ha descritto, allo stato strettamente necessario teorizzato da Adam Smith e poi novellato dall’ampia vulgata liberale.

L’alternativa fra uno stato pesante e uno leggero seduce da secoli il dibattito politico e, nel tempo, ha germinato un bipolarismo economico che si può schematizzare nella coppia socialismo/liberismo, se comprendiamo nello spirito socialista anche la sua declinazione comunista/collettivista. Questo bipolarismo economico si è incarnato nell’altro che ha segnato la storia politica occidentale, ossia quello fra sinistra e destra, che così tanto lavoro ha dato a generazioni di politici, studiosi, giornalisti e figuranti da cabaret.

Poiché sarebbe velleitario prescindere dalla nostra tradizione, che come tale conforma il nostro giudizio – anche questo che ci piaccia o no – dobbiamo accettare che questa dicotomia segnerà ancora a lungo il nostro dibattere, e al tempo stesso provare a fare astrazione ponendoci una semplice domanda: quale sarebbe la versione più auspicabile di stato che sia economicamente coerente con la visione che abbiamo delineato finora? Preciso meglio: non sono interessato a immaginare come dovrebbe essere uno stato in teoria, e quindi alimentare il secolare e noioso dibattito fra l’assolutismo democratico e la sua versione relativista, piuttosto come potrebbe essere in relazione al mondo economico che stiamo provando a immaginare

Per farlo dobbiamo tenere ripartire dalla domanda di base: qual è lo scopo dell’economia? Personalmente tengo presente l’insegnamento di Sismondi e di alcuni altri fra i primi economisti: lo scopo dell’economia è il benessere della popolazione, pur nelle diversità delle sue articolazioni sociali. Un pensiero semplice per un compito assai difficile.

Se concordiamo su questa premessa, dobbiamo risponde alla seconda domanda: qual è il ruolo che uno stato deve interpretare per favorire il benessere della popolazione?

Per provare a rispondere, partiamo da ciò che dovrebbe mettere d’accordo tutti, ossia ciò di cui lo Stato dovrebbe occuparsi. Attingo da Adam Smith, costante riferimento di queste pagine per la semplice ragione che è stato un iniziatore sistematico al pensiero economico, e quindi un punto di partenza ideale dal quale la teoria ha iniziato a dipanarsi nei secoli.

Nella Ricchezza delle nazioni, al libro quinto, Smith tratta proprio del tema Le entrate del sovrano e della repubblica. I primi capitoli sono dedicati a ciò di cui il sovrano (o la repubblica) deve occuparsi. In primis il nostro amico scozzese mette la difesa esterna, quindi l’esercito, impiegando pure diverse pagine, peraltro assai gustose, per spiegare motivi e origine di tale necessità. Poi tocca alla magistratura, ossia alla difesa dell’ordine interno, a cominciare dai diritti di proprietà, ovviamente, che almeno da un secolo attiravano l’attenzione dei filosofi.

Prima di passare al punto successivo, facciamoci una domanda: cosa hanno in comune l’esercito, o la sua declinazione interna, ossia la polizia, e la magistratura? La risposta è ovvia: sono un’emanazione del principio della titolarità esclusiva dell’uso della forza che caratterizza l’essenza dello stato. Quest’ultimo è tale perché ha il diritto di usare la forza contro un nemico esterno o un delinquente interno, e ha anche il diritto di giudicarlo e condannarlo per il tramite della sua magistratura che, ricorda Smith, è nata da una costola del sovrano non appena, procedendo l’evoluzione sociale, quest’ultimo si accorse di non avere tempo né voglia di occuparsi delle beghe dei litiganti.

Ciò spiega perché tutti, anche i liberali più arrabbiati, concordano che l’uso della forza sia una di quella cose che non si possono privatizzare, e quindi deve rimanere appannaggio dello stato. In sostanza, esercito, polizia e magistratura sono tutte cose che, almeno da Smith in poi, sono considerate appannaggio statale. Lo Stato quindi le le organizza e le gestisce.

Una derivazione interessante del principio della forza della stato è quello di battere moneta. “Lo stato ha credito”, ricordava Ezra Pound nel suo libello L’Abc dell’economia. Ma tale credito gli deriva dalla sua capacità di imporre la tassazione, sempre grazie alla coercizione, derivata dall’uso della forza, che può infliggere ai suoi cittadini. E’ utile ricordare che tale occorrenza è alla base del credito di cui godono il debito e la moneta statale. Quest’ultima lo stato contemporaneo non la gestisce più direttamente, avendo trovato più conveniente per una serie di ragioni, che qui non rilevano, affidarla alla sua banca centrale. E tuttavia il principio della sovranità monetaria, che tanto appassiona i nostri contemporanei, è una semplice derivazione del potere costituente di uno stato: la sua forza e la sua capacità di applicarla, dalla quale dipende il suo credito. Uno stato debole, che può voler dire avere poca forza o non saperla applicare, implica poca credibilità e quindi debito più caro e moneta svalutata.

Il terzo campo di applicazione dell’attività statale, sempre secondo Smith, è quello di alcuni lavori pubblici, anche se con molti caveat e col presupposto che le opere dovrebbero in qualche modo ripagarsi da sole gravando sui soggetti che ne fruiscono e in una logica federale. E tuttavia, scrive Smith “terzo e ultimo dovere del sovrano è erigere e mantenere quelle istituzioni e quelle opere pubbliche che nonostante possano essere estremamente vantaggiose a una grande società sono tuttavia di tale natura che il loro profitto non potrebbe mai ripagare la spesa a un individuo o a un gruppo di individui e che pertanto non ci si può aspettare che possano erigerle o mantenerle”. Oltre alle opere pubbliche, in particolare, lo stato dovrebbe occuparsi di “facilitare il commercio della società e promuovere l’istruzione della popolazione”.

Perché proprio il commercio e l’istruzione? I lettori di Smith lo sanno già, ma mi perdoneranno un breve riepilogo a vantaggio degli altri. Il commercio è ciò che facilita lo scambio, lo scambio è ciò che esalta e motiva la divisione del lavoro e quindi la sua logica conseguenza, ossia che una nazione si specializzi in qualcosa e lo venda a un’altra, più brava a produrre qualcos’altro che in cambio gliela fornisce. La divisione del lavoro, inoltre, è la garanzia migliore per avere una produzione crescente, e di conseguenza un reddito in aumento. Ciò che oggi chiamiamo la crescita economica.

L’istruzione è ciò che favorisce l’accumulazione di quello che i contemporanei definiscono capitale umano. Forma lavoratori più produttivi, per sintetizzare. Quindi favorire il commercio e l’istruzione significa in sostanza fare crescere la ricchezza nazionale e quindi rafforzare la sicurezza sociale che deriva da un benessere diffuso.

Il motivo economico, d’altronde, è comune anche alle altre attività dello stato: ossia la difesa, interna ed esterna, e l’amministrazione della giustizia. Avere protezione dagli aggressori o dai malfattori significa poter produrre con maggiore tranquillità e sapere che un giudice sbatterà in galera qualcuno che provi a derubarmi.

Si può ulteriormente sintetizzare così: ciò che lo stato deve fare per favorire la ricchezza della nazione è garantire la sua sicurezza economica.

Immaginiamo adesso che lo stato tenga un bilancio con un dare e un avere. Per dare sicurezza economica lo stato deve avere le risorse necessarie. Ed ecco il senso del principio della tassazione. Lo stato deve poter prendere, facendo leva sul suo potere coercitivo, per poter dare.

Purtroppo per ragioni storiche, l’importanza del ruolo dello Stato prenditore ha finito con l’essere eclissata dall’altra: quella dello stato imprenditore, frutto del disastro degli anni ’30 e ancora persistente Moloch nel dibattito pubblico. Ciò non vuol dire che nel frattempo gli stati non abbiano preso dai loro cittadini: al contrario. La tassazione non è mai stata così elevata. Ma vuol dire solo che l’attenzione di tutti si è concentrata più sull’efficienza dell’erogazione statale, e sulle sue aree di intervento, piuttosto che sulla sua funzione principale senza la quale lo stato semplicemente non può funzionare: quella di prenditore appunto.

Prima che pensiate che credo che le tasse siano una cosa bellissima, come disse un defunto ex ministro, preciso che non sono le tasse ad essere una cosa bellissima, ma ciò che con le tasse si può realizzare. Lo stato prenditore è il pre-requisito affinché lo stato possa riuscire a garantire la sicurezza economica, e quindi il benessere, della sua popolazione.

Per diversi decenni si è pensato che sarebbe stato sufficiente fare evolvere lo stato prenditore in imprenditore per garantire tale sicurezza. E’ stato ripetuto che lo Stato dovesse in qualche modo completare il mercato, anche in maniera antagonistica se necessario, per rimediare alle sue imperfezioni. Ma la storia ci ha mostrato che è stata solo una facile scorciatoia e a volte le scorciatoie finiscono col portarci lontano da dove volevamo arrivare. Non credo che i teorici dell’interventismo statale nell’economia di mercato volessero condurci dove siamo adesso. Si è trattato di una scorciatoia, appunto. Percorrere la strada lunga è difficile. E’ molto più facile (e comodo), per lo stato, assumere un lavoratore che procurare a un cittadino potere d’acquisto e, di conseguenza, favorire il suo benessere economico.

Facciamo un esempio. Abbiamo visto che Smith assegna una funzione pubblica all’istruzione, e credo che pochi non sarebbero d’accordo. Nessuno stato degno di questo nome può trascurare l’educazione e la formazione della sua popolazione, e non certo solo per ragioni economiche. Ma questo vuol dire che lo stato debba per forza aprire delle scuole e assumere degli insegnanti? Non necessariamente. E’ solo un modo per accorciare il percorso per raggiungere l’obiettivo, ossia lo svolgimento da parte dello stato di questa sua funzione pubblica: garantire che tutti abbiano un’istruzione, fissando dei criteri e delle regole, reperire le risorse necessarie e favorire la nascita di strutture adatte allo scopo. E non c’è ragione che queste strutture siano di sua proprietà. In questo quadro, la funzione di prenditore è molto più importante di quella di imprenditore scolastico.

Ciò anche per un semplice principio di economia delle risorse: uno stato che concentri la sua attenzione sul lato della gestione dell’avere del suo bilancio potrà garantire molto meglio tale funzione di uno che si disperda in campi di attività che non richiedono un suo impegno diretto. Per tornare al nostro esempio, sarebbe forse più utile, anziché assumere insegnanti, assumere ispettori del fisco e studiosi di scienza della finanze.

Seguendo questo ragionamento, e tenendo presente il nostro obiettivo – ossia il benessere della popolazione e ricordando che ciò implica la sicurezza economica – risulta evidente che nel mondo che stiamo provando a immaginare lo stato dovrebbe limitare la sua funzione di gestore diretto ai campi che gli sono strettamente consoni, ossia la sicurezza interna ed esterna. Dove, vale a dire, esprime compiutamente il suo diritto esclusivo all’uso della forza. E poi dovrebbe occuparsi assai più di adesso di come reperire risorse: raggiungere l’eccellenza nella sua funzione di prenditore.  Dopodiché fissare un semplice obiettivo: restituire queste risorse alla società per beneficiarla.

Ed è qui che il gioco diventa interessante. E complicato.

(12/segue)

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Le metamorfosi dell’economia: Il valore delle idee

Può risultare curioso osservare, nell’epoca in cui in ogni dove si celebra l’importanza della creatività e dell’innovazione, che esista ancora così poca letteratura dedicata al tema dell’impatto della conoscenza sull’economia contemporanea.

L’Ocse, che è uno dei principali protagonisti di queste ricerche fra gli osservatori internazionali, ha solo da pochi anni attivato un gruppo multidisciplinare di studio che vede al lavoro esperti di diversi settori (Consumer Policy, Digital Economy, Science & Technology, Industry and Entrepreneurship, Tax Policy, and Trade) che hanno dato vita a un progetto denominato “New Sources of Growth: Knowledge-based Capital” che ha avuto un recente aggiornamento maturato mentre esplodeva la crisi e ha sollecitato gli esperti a porsi domande sostanziali.

Prima fra tutte: quali possono essere i nuovi driver della crescita?

Prendendo spunto da alcuni lavori precedenti svolti dalla Fed, gli studi Ocse hanno finito con l’identificare una nuova classe di beni capitali, che quindi aggiornano quelli tradizionali (impianti, terra, immobili, eccetera), che sono stati definiti come “knowledge-based capital” (KBC). Ad esempio il design di un prodotto, un software, la proprietà intellettuale che si esprime in licenze, brevetti e il copyright.

Questi nuovi beni capitali condividono una grande difficoltà: è difficile misurarne il valore. E ciò li rende assai poco potabili per le nostre prassi economiche, basate com’è noto sulla misurazione e sul calcolo, anche e soprattutto a fini impositivi.

Ciò nonostante si tratta di asset “strategici per mantenere e costruire la competitività”. Insomma: l’economia della conoscenza, che si basa sul valore delle idee, viene riconosciuta strategica, ma al contempo difficile da incardinare nel sistema corrente dei valori economici. Le idee, come la fiducia, non hanno prezzo. Eppure hanno un valore notevole. Una delle tante imperfezione del mercato.

In un libro recente, La nuova rivoluzione delle macchine, gli autori Erik Brynjlfsson e Andrew McAfee, fotografano bene questa situazione: “C’è un’enorme fetta dell’economia che non compare nei dati ufficiali e non è riportata nemmeno nelle dichiarazioni dei redditi e nei bilanci di quasi tutte le aziende (..) i dollari analogici stanno diventando centesimi digitali (..) ciò porta a economie assai diverse e a speciali problemi di misurazione (..) quando una persona telefona con Skype il gesto che compie potrà anche non spostare un centesimo di pil, ma non è affatto privo di valore (..) costando zero questi servizi sono praticamente invisibili nelle statistiche ufficiali (..)  il pil si trova a viaggiare in direzione opposta al nostro vero benessere (..) ogni anno viene immesso un maggiore volume di beni digitali che non hanno prezzo (..) le statistiche ufficiali si stanno facendo sfuggire una quota crescente del vero valore creato dalla nostra economia (..) la produzione nella seconda età delle macchine si basa meno sui macchinari e sulle strutture fisiche e più sulle quattro categorie di asset intangibili: proprietà intellettuale, capitale organizzativo, contenuti generati dagli utenti e capitale umano (..) serve un’innovazione anche nei nostri parametri economici (..) non tutto quello che conta può essere conteggiato, e non tutto quello che può essere conteggiato conta”.

Queste riflessioni non sono isolate. Qualche tempo fa alcuni noti economisti, Stiglitz, Sen e Fitoussi, presentarono un report proprio per analizzare l’evoluzione possibile degli indicatori del benessere sociale, capace cioé di comprendere nel computo della ricchezza valori esterni rispetto a quelli proposti dall’ortodossia economica. Ma è evidente che ci sono notevoli difficoltà. Che sono di natura culturale, prima ancora che tecnica.

Fra i KBC classificati da Ocse spiccano in particolare i diritti di proprietà intellettuali (IP), ormai rilevanti per tutti i settori della produzione, dal farmaceutico all’artistico. Pensate alla guerra fra i produttori di telefoni mobili: un singolo telefono può avere alle spalle fino a 3.000 licenze. E la rivoluzione di Internet, che ha terremotato l’ambito di applicazione delle leggi sul copyright, ha fatto il resto.

Perciò l’Ocse, che intanto è entrata nella fase due del suo progetto, ha deciso di elaborare dei tool e delle analisi per facilitare il riconoscimento e la classificazione dell’IP, visto che “adesso più che mai i policy makers devono sfruttare driver come la creatività e le idee contenute nelle proprietà intellettuale per stimolare la crescita economica e favorire il benessere sociale”.

Insomma, l’idea di ricchezza sta conoscendo la sua ennesima e sofferta trasformazione che non dovrebbe lasciare indifferente nessuno. Cambiare la definizione di ricchezza, infatti, significa mutare il paradigma economico, ossia il mondo che siamo abituati a conoscere e cambia anche il significato di distribuzione e disuguaglianza. Vuol dire elaborare politiche che servano a stimolare i KBC e soprattutto ci serve a ricordare ciò che sta alla base della ricchezza. Non la terra, l’oro, né la produzione. Ma la persona.

(3/segue)

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