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Volevo una casetta in Canada
Sembrava immune dal contagio il gigante canadese, come se i grandi laghi e le foreste lo mettessero al riparo dagli scossoni della crisi globale. Poi sono arrivati i soliti guastafeste di Moody’s che hanno declassato sei grosse banche del Paese. Una smacco niente male per uno Stato che presenta una bilancio pubblico invidiabile (debito/Pil di poco superiore all’80%) e un livello generale di crescita prevista intorno al 2% quest’anno, in leggero calo dal 2,6% del 2011 (1,9% nel 2012) e del 2,7% del 2014.
Ma poiché non vi vive solo di bilanci pubblici, ecco che i signori del rating individuano in due variabili macro altrettanto importanti (se non di più) la causa della fragilità del Canada: il livello di indebitamento delle famiglie, giunto al record del 165% del reddito, e le quotazioni del mercato immobiliare “cresciute – dice l’agenzia – del 20% dal 2007”. Quindi mentre in tutto il mondo i prezzi del mattone scendevano, in Canada accadeva il contrario. Perché?
Che il mattone sia un problema in Canada, è fatto notorio. Nella sua recente rilevazione sullo stato globale del settore, l’Economist ha calcolato che il price to income canadese, quindi lo spread fra il livello dei redditi e le quotazioni immobiliari quoti 34 punti (in Italia è 12). Significa che i prezzi dovrebbero scendere del 34% per essere allineati al livello generale dei redditi. Questi ultimi, nota Moody’s, sono cresciuti meno dell’indebitamento. E ciò spiega perché le famiglie canadesi siano passate dal 137% di debiti sul reddito del 2007 al 165% del 2012.
Evidentemente i rincari immobiliari si sono scaricati sui debiti delle famiglie, probabilmente via mutuo. Ma l’aumento dell’indebitamento è anche una conseguenza diretta dell’aumento dei consumi interni, probabilment grazie ai crediti concessi alle famiglie, che hanno contribuito non poco al buon andamento del Pil, rapidamente in ripresa dopo il -2,8% del 2009. Infatti i consumi privati, in contrazione di 2,1 punti nel 2009, esplodono a +4,5 nel 2010 per arriva a 3 punti nel 2011.
Da qui la debolezza delle banche, esposte alle intemperanze del ciclo immobiliare e all’asfissia finanziaria delle famiglie che però, malgrado tutto, rimangono fra le più ricche del pianeta, appena sotto quelle americane con una ricchezza netta pari a 5,5 volte il reddito (in Italia tale rapporto quota 8). Tanto che si era parlato del Canada come di un’isola felice: un’economia sostenuta da un buon export, bassa inflazione (circa 1% con previsione di arrivare al 2 entro metà del 2014) buoni conti pubblici, prospettive positive grazie alle politiche energetiche e agli investimenti sulla tecnologia estrattiva. Qualcuno ricorderà che l’Iea ha previsto che entro il 2030 Usa e Canada diventeranno esportatori netti di petrolio grazie ai ritrovati tecnici (scisti bituminosi e quant’altro).
Per capire però se il miracolo canadese è davvero un miracolo, vale la pena leggere un capitolo dell’ultimo World economic Outlook del Fmi dedicato proprio alla battaglia vinta del Canada contro il quasi fallimento a partire dal 1995. Erano almeno dieci anni che il Canada tentava di risanare i propri conti pubblici, quasi in dissesto a partire dal 1980 a causa di alti deficit e politiche monetarie sballate.
Nell’85 il governo in carica si propose di abbassare il rapporto debito/pil al 65% con la solita ricetta di aumenti di tasse e tagli di spesa che portarono il bilancio pubblico in avanzo primario nel 1989. Ma il miglioramento del deficit non ebbe grandi impatti sul debito (un po’ come accade oggi da noi). In più nel 1990-91 arrivò una pesante recessione che si mangiò il risanamento fece schizzare al 102% il debito/Pil. Vale la pena sottolineare che una delle misure decise nell’85 fu quella di varare una supertassa per i redditi più alti e procedere ad ampie privatizzazioni. Tanto per dire che tutto il mondo è paese.
Nel ’95 il Canada mise in campo alcune riforme strutturali per risolvere gli squilibri di bilancio, fra le quali si segnalano lo spostamento di parte della fiscalità dallo stato centrale ai territori e una politica monetaria più rilassata, con tassi bassi e svalutazione. Il debito si ridusse di 35 punti sul Pil. La spesa per interessi calò dal 10% del Pil del ’95 al 7% nel 2000.
Ma la differenza la fece il contesto internazionale. I partner commerciali del Canada, Usa in testa, conobbero una notevole ripresa a partire dal ’91. Ne beneficiarono i conti con l’estero, complice anche un indebolimento del cambio: l’export aumentò di 3 punti sul Pil ogni anno fra il ’93 e il 2000. Malgrado la crescita del Pil rimanesse relativamente più bassa rispetto ad altri paesi avanzati, il risanamento si compì.
Contestualmente tuttavia il debito delle famiglie passò dal 114% del 1999 al 165% di oggi. In pratica il debito delle famiglie è aumentato del 44% in dodici anni, mentre il debito pubblico scendeva del 35%. Questo tanto per dire che ci sono molti modi per risanare i conti pubblici.
Il futuro è incerto. Le previsioni registrano un modesto aumento dei consumi interni per i prossimi anni, dovendo anche fare i conti con un settore immobiliare sopravvalutato. Quindi l’unica speranza per tenere in ordine i conti sono le esportazioni, in un momento peraltro in cui la torta del commercio internazionale deve confrontarsi con una guerra valutaria ormai dichiarata.
Insomma, una casetta in Canada è ancora un buon asset.
Ma non per molto.
AfFondo immobiliare
Perché in un momento in cui il mercato ristagna, i prezzi si prevedono in calo e gli investitori esteri fuggono, i fondi italiani hanno aumentato del 50% gli investimenti?
E’ accaduto fra il 2009 e il 2012, secondo un rapporto preparato da Bnp Paribas real estate, quando gli investimenti dei fondi italiani immobiliari nel settore passano dal 26 al 39%. Questo mentre il mercato si contrae e i prezzi si congelano.
Per rispondere alla domanda, serve innanzitutto spiegare cosa siano e cosa facciano i fondi immobiliari. Si tratta di organismi di rispamio collettivo (Oicr) amministrati da società di gestione di risparmio che in pratica rilevano beni immobiliari allo scopo di amministrarli (con l’affitto o la vendita). Per raccogliere le risorse necessarie al loro funzionamento, e quindi anche “ripagare” i beni immobiliari che finiscono nel loro portafoglio, i fondi emettono quote a investitori che lucrano sulle remunerazioni di tali quote e sulla loro liquidazione una volta che il fondo cessa la sua attività.
Il funzionamento è molto semplice. Mettiamo che io sia un’istituzione che disponga di un patrimonio immobiliare e non sappia o non voglia gestirlo direttamente. Posso conferire tale patrimonio a un fondo che, emettendo quote, mi fa avere una contropartita liquida immediata, di solito a sconto rispetto al prezzo di conferimento. Il fondo poi si incaricherà di gestire questo patrimonio rimborsando le quote ai sottoscrittori una volta venduti tutti i beni.
I fondi nascono in Italia nel ’94 ma hanno iniziato a farsi vedere solo alla fine degli anni ’90, quando venne la fregola di privatizzare il patrimonio immobiliare degli enti previdenziali e, più tardi, dello Stato. Pompati dal credito bancario di quegli anni, i primi fondi immobiliari italiani misero radici nei primi anni del 2000 e da lì in poi si sono sviluppati con costante gradualità. Un rapporto della Banca d’Italia del 2009 nota curiosamente che “nonostante la crisi finanziaria, nel 2008 sono divenuti operativi 56 nuovi fondi immobiliari, arrivando a 228 a fine anno”.
Per sapere cosa è successo dopo fine 2009, leggiamo un altro studio, stavolta di Scenari immobiliari, che fotografa lo stato dell’industria dei fondi a maggio 2012. “L’industria dei fondi italiani ha continuato la propria crescita anche nel corso del 2011”, scrive Scenari Immobiliari. A fine 2011 i fondi operativi erano 312 e il patrimonio immobiliare detenuto direttamente era passato dai 40,6 miliardi del 2009 (a fronte dei 34,7 mld del 2008) a 46,4 mld a fine 2011, con una prospettiva di arrivare a 47,8 nel corso del 2012.
Quindi la crisi immobiliare, contro ogni logica apparente, fa da propellente all’industria dei fondi.
Ma in realtà una logica c’è. Per trovarla basta scrutare la composizione azionaria di gran parte di questi fondi. Grandi sponsor, diretti o indiretti, di questi strumenti sono come si può immaginare le banche e alcune assicurazioni che fanno accordi con soggetti specializzati nel settore delreal estate. Le stesse banche e assicurazioni che hanno grandi patrimoni immobiliari e la necessità di metterli a reddito, se non di liquidarli.
Le banche e le assicurazioni sono grandi sottoscrittori di quote di fondi immobiliari, delle società di gestione, se non direttamente loro promotori. Quindi, in un momento in cui i prezzi calano e c’è una crisi del credito aumentare gli investimenti sui fondi può essere un metodo efficace per le banche e le assicurazioni per gestire lo “sgonfiamento” ordinato della bolla che si è venuta a creare negli ultimi dieci anni sui corsi immobiliari. Oltre che un espediente per trarre valore immediato dal proprio patrimonio rimasto incagliato nella crisi sperando che nel tempo di gestione del fondo (di solito almeno dieci anni) il mercato si riprenda.
Insomma, dovendo raschiare il barile del mattone, le banche trovano il Fondo (vedi post omonimo).
Mi sono convinto che tale scenario abbia un senso leggendo un trafiletto pubblicato sul Sole 24 Ore il 25 gennaio. Si raccontava di un imprenditore bisognoso di credito, a cui una banca aveva proposto la concessione di un fido per alcune centinaia di migliaia di euro in cambio della sottoscrizione di quote a un fondo immobiliare della banca stessa. Lo sport preferito delle banche, ossia prestare soldi a se stesse per il tramite di questo o quel soggetto, sia esso una persona fisica o giuridica, non è passato di moda. Anzi.
Siamo in pieno afFondo immobiliare.
Che fine farà il risparmio italiano?
A un certo punto dobbiamo scegliere. Decidere a chi dare i nostri soldi, pochi o tanti che siano. Di fronte a noi abbiamo due bocche gigantesche spalancate che attendono di essere saziate: lo Stato, affamato da un debito più che trentennale, e la finanza privata, stremata da anni di giochi di prestigio (il caso Mps è solo l’ultimo di una serie lunghissima) e in debito di capitalizzazione.
Questi due enormi Moloch stanno lì pronti a ingurgitare due generazioni di risparmio italiano. Lo Stato per il tramite della sua classe politica, che promette tutto e il suo contrario mentre tenta di vendere le sue obbligazioni pubbliche, e i privati grazie ai buoni uffici dei suoi piazzisti, tramite i quali tenta di vendere le sue obbligazioni corporate. E noi, ogni giorno, scegliamo, magari senza comprendere che in tempi di democrazia economica, la scelta a chi dare i nostri soldi è una scelta essenzialmente politica.
Sarebbe bello se compissimo l’evoluzione più naturale in una democrazia matura: votare, per il tramite dei nostri soldi, l’idea politica che più ci piace. E non parlo dei partiti, ma dei progetti. Se finanziassimo con i nostri soldi progetti pubblici per il tramite di obbligazioni di lungo periodo dedicate e strutturate in modo da garantire un rendimento pari al tasso Bce e uno sconto fiscale pari allo spread con il Btp ordinario. Chi sottoscrive tali obbligazione ha di sicuro un’adesione assai più convinta al progetto sotteso (una nuova ferrovia piuttosto che una riforma del mercato del lavoro) di quanto mai potrà riservare a un qualunque partito. Questo perché il voto in cabina elettorale non ha riflessi diretti sul nostro portafoglio (salvo le note distorsioni clientelari). Il voto “obbligazionario” ne ha, eccome.
Per capire come sia giunto a tale fantasia, bisogna guardare alcune cifre e alle cronache. A fine 2011 (dati Bankitalia) la ricchezza finanziaria delle famiglie italiane, ossia il nostro risparmio, era di circa 3.200 miliardi, in calo del 3,4% sul 2010. Se a questa cifra sottraiamo le passività, 900 miliardi (in aumento del 2,1% sul 2010), la ricchezza finanziaria netta a livello macro arriva a circa 2.300 miliardi. Questa è la torta.
Notate che osservando l’andamento della ricchezza dal 1995 a oggi, si vede con chiarezza che l’incremento della ricchezza derivante da attività reali è andato a scapito della ricchezza finanziaria, cresciuta quindi assai meno rispetto al mattone e, soprattutto, ai debiti.
La torta, quindi, vale 2.300 miliardi e sta diminuendo nel tempo, a causa dei debiti e dell’andamento erratico dei mercati finanziari che oggi danno e domani tolgono, quasi sempre con saldi negativi per tanti e grossi guadagni per pochi. Tant’è vero che in Italia la ricchezza è sempre più concentrata.
Di fronte a una torta di 2.300 miliardi nel 2011 abbiamo un mercato obbligazionario bancario che quota 873 miliardi e un mercato obbligazionario delle aziende corporate di 90 miliardi.Quindi la ricchezza al netto di questi prestiti già concessi arriva a 1.343 miliardi. L’idrovora privata succhia alle famiglie (in cambio di rendimenti più o meno rischiosi) 963 miliardi.
Il resto della torta, 1.343 miliardi, se lo contendono i depositi bancari, il risparmio gestito e assicurativo e lo Stato. A fine 2011, il 46% dei circa 1.600 euro di debito pubblico in circolazione (quota che non include il debito delle amministrazioni locali) era collocato all’estero, quindi 736 miliardi. Il debito pubblico italiano in mano ad italiani (famiglie, ma anche banche, assicurazioni, fondi eccetera) quotava 864 miliardi. Si calcola che di questa somma circa l’11% sia direttamente in mano alle famiglie. Quindi circa 95 miliardi.
Ricapitoliamo. Le famiglie italiane hanno investito 963 miliardi in obbligazioni private e 95 miliardi (meno di un decimo) in obbligazioni pubbliche. Il mercato obbligazionario pubblico e privato assorbe 1.058 miliardi. Quindi dal totale della ricchezza netta di 2.300 miliardi residuano 1.242 miliardi sparsi fra depositi, assicurazioni e quant’altro la finanza italiane ed estera offra sul mercato. Numeri che dimostrano una chiara inclinazione delle famiglie italiane a prestare soldi al privato piuttosto che al pubblico, in virtù dei più alti rendimenti. Ignorando peraltro come una rendimento più alto sia sempre associato a un rischio più elevato.
E qui entrano in gioco le cronache. L’elenco delle malversazione dei privati sulla pelle del risparmio italiano contende il primato solo alle malversazioni consumate ai danni dei soldi pubblici. Eppure gli italiani continuano, immagino per mancanza di alternative, a foraggiare l’idrovora privata.
Eppure un’alternativa è possibile. Se si accetta l’idea che lo scopo di un investimento non sia il massimo profitto, ma la massima utilità, un investitore potrebbe scegliere di guadagnare meno interessi attivi monetari in cambio di un interesse più elevato. Accettare un’obbligazione con un tasso più basso in cambio di uno sconto fiscale, ad esempio, che consentirebbe di avere più soldi in tasca per far ripartire i consumi e anche di realizzare progetti che altrimenti non sarebbero mai realizzati. Il tutto accoppiato con una revisione reale della spesa pubblica per placare l’idrovora del bilancio dello Stato. Si avvererebbe il miracolo preconizzato dal presidente Bce Draghi a Davos: “Vorrei vedere un taglio dei costi di governo, una calo delle tasse e una gestione degli investimenti per infrastrutture”.
Ma affinché tale miracolo si compia serve un balzo, che dobbiamo compiere tutti, innanzitutto culturale. Un’evoluzione mentale. Occorre uno scatto d’ingegno per mettere davvero a frutto la ricchezza delle nostre famiglie.
Siamo ancora in una posizione invidiabile (abbiamo debiti per il 70% del reddito e una buona ricchezza netta), ma non durerà per sempre. I vari fiscal compact, le turbolenze finanziarie, la crisi del lavoro e la svalutazione del mattone prosciugheranno molto presto la nostra ricchezza, malgrado tutti i nostri disperati tentativi di metterla al sicuro. Per inseguire un capital gain rischiamo di perdere il nostro futuro.
E invece è il momento di comprarcelo.
Le banche vendono casa, ma chi compra?
Ho vissuto una piacevole sensazione di déjà vu mentre scorrevo un articolo pubblicato sull’inserto Casa del Sole 24 ore intitolato “Le banche fanno cassa vendendo il mattone”, dove si racconta del tentativo degli istituti italiani di liberarsi di grosse quantità di beni immobiliari rimasti incagliati.
Infatti mi è tornato in mente un altro articolo, pubblicato sempre sul Sole 24 ore nel lontano 10 agosto 2002, titolato stavolta “Le banche rilanciano il ballo del mattone”. Al di là dei toni, frizzante e ottimista quello del 2002, dimesso e preoccupato quello del 2013, il succo è lo stesso: le banche italiane stanno cercando di liberarsi di quote cospicue di beni immobiliari, come se negli ultimi 11 anni non fosse cambiato nulla. Salvo la domanda: chi compra?
Nel 2002 la risposta era facile. Il mondo bancario aveva di che sorridere: tassi bassi e fiducia alle stelle favorirono una notevole quantità di spin off dei loro patrimoni immobiliari che generarono per gli istituti enormi plusvalenze e fecero schizzare alle stelle l’ottimismo (e i valori). L’euforia generò, letteralmente, una miriade di operatori sponsorizzati dalle stesse banche che si buttarono con voracità sul mercato lucrando riccamente altre grosse plusvalenze grazie a compravendite istantanee, mentre il carico debitorio sulle famiglie, sempre grazie al credito “gratis”, aumentava a due cifre.
Sappiamo com’è finita: nel 2008 la crisi americana si è abbattuta come uno tsunami su mattone italiano. Le banche hanno chiuso i rubinetti, i prezzi si sono congelati, la domanda è crollata, l’offerta è rimasta appesa. Molti istituti di credito si sono viste restituire le case che tanto allegramente avevano venduto a debito, perché i debitori non erano più in grado di pagare il mutuo (o il fido) e adesso il loro portafoglio immobiliare si è di nuovo gonfiato. Chiaro che vogliano liberarsene.
Ma siccome l’aria è cambiata, la buona volontà non basta più. Anche perché sul tappeto c’è un altro grande proprietario – lo Stato – che da anni promette di vendere il suo, di patrimonio immobiliare, malgrado il pregresso (ne parleremo un’altra volta) abbia mostrato che lo Stato, già pessimo proprietario, si è rivelato un venditore ancora peggiore.
Per di più i prezzi sono previsti in calo, il credito è stitico e la fiducia ancora al lumicino. Se lo Stato e le banche (per non parlare delle assicurazioni) mettessero davvero sul tappeto i loro patrimoni immobiliari rischierebbero di far crollare i prezzi, con relativo nocumento per i loro attivi patrimoniali.
Chiaro che per il momento le banche si accontentino di mettere on line le proprie offerte (lo fa anche il Demanio, peraltro) come un qualunque agente immobiliare. Si mira al privato italiano, anche piccolo, almeno per il residenziale, sognando il grande investitore istituzionale, magari estero.
Ma è proprio quest’ultimo che latita. Sempre sul Sole 24 leggiamo di uno studio di Bnp Paribas secondo il quale la quota di investimenti esteri sul mattone italiano è ai minimi storici. Nel 2012 le transazioni si sono bloccate a quota 1,7 miliardi di euro, il 60% in meno dei 4,3 miliardi del 2011, quando erano già in crisi profonda. Pensate che nel 2007, prima dello sboom, si era raggiunto il picco di 7,552 miliardi di euro di acquisti dall’estero.
Un’altro dato citato nell’articolo fa riflettere. Nel triennio 2009-2012 sono cresciuti gli investimenti dei fondi immobiliari italiani, dal 26 al 39%, mentre i fondi esteri, quelli tedeschi in testa, sono fuggiti via (dal 17 al 4%). Il mattone raschia il barile e trova il Fondo, abbiamo scritto qualche giorno fa (vedi post).
Quello che non sapevamo, perché non disponevamo dello studio Bnp Paribas, era che fossero fondi italiani. E solo loro. Persino le società immobiliari, le assicurazioni e i fondi pensione italiani hanno ridotto la loro esposizione, dal 9% del totale degli investimenti ad appena l’1%. Gli unici che ancora investono sul mattone italiano sono i privati e le società corporate. Da qui gli annunci immobiliari delle banche.
Quello che invece sapevamo, anche senza aver letto lo studi di Bnp Paribas (vedi post Un mattone s’aggira per l’Europa), era che il mercato tedesco è quello più attrattivo per chi vuole investire sul mattone. Lo conferma la fuga dei fondi tedeschi dall’Italia, che di sicuro trovano più conveniente investire a casa loro, visti i prezzi, e la crescita degli investiment in questo paese, arrivata nel 2012 a quota 44,7 miliardi, il 9% in più rispetto all’anno precedente. A Berlino la crescita annua è stata addirittura del 65%.
Insomma, la Germania non solo rastrella denaro per i suoi titoli a costo zero (per non dire negativo) ma si rivela anche il mercato più attrattivo per gli investimenti immobiliari, visto che i prezzi reali non crescono da dieci anni. Peggio di noi va solo Madrid.
Ma anche questo lo sapevamo: se si osserva la crescita dei prezzi immobiliari dal 1975 al 2012 si vede che la bolla italiana (indice 100 nel 1975, 1.750 nel 2008) è seconda solo a quella spagnola (indice 100 nel 1975, 4.000 nel 2008).
Quindi le banche italiane vendono casa, ma non sanno come fare. Il timore è che sperino in un miracolo.
La condizione ideale per combinare guai.
Mattone, la bolla non c’è ma si vede
Qualche giorno fa l’Istat ha certificato l’ennesimo calo delle quotazioni del mattone italiano nel 2012. Il dato aggregato parla di un calo dei prezzi del 3,2% che si accoppia aun calo delle compravendite del 23,6% sul residenziale (25% il commerciale). Il combinato disposto ha riacceso il timore che il mattone italiano balli sull’orlo di un burrone, anche perché le aspettative del settore delle nuove costruzioni, che ha un peso specifico rilevante nell’immobiliare italiano, continuano ad essere scoraggianti.
Lo stesso giorno che l’Istat certificava la deflazione in corso nei valori immobiliari, un’associazione di consumatori affermava che i prezzi sono ancora troppo alti, visto che per una famiglia di reddito medio è del tutto proibitivo, specie nelle grandi città, riuscire a comprare una casa: prezzi ancora troppo elevati, da una parte, e ritrosia delle banche a concedere credito dall’altra. Senonché la gran parte degli osservatori dice che in Italia, a differenza di quanto è accaduto in Spagna, Irlanda o negli stessi Usa, non esiste una bolla del mercato immobiliare.
Chi ha ragione? Anche qui, bisogna intendersi su cosa si intenda per bolla. La definizione che abbiamo estratto da Wikipedia dice che “la bolla immobiliare è caratterizzata da un rapido aumento dei prezzi immobiliari che si portano a livelli insostenibili in rapporto ai redditi medi o ad altri parametri”.
Guardiamo i dati. Ci viene in aiuto uno studio di Bankitalia del 2009 intitolato “L’andamento del mercato immobiliare italiano e i riflessi sul sistema finanziario”, che per quanto datato (gli ultimi dati fanno riferimento al 2008), illustra con grande chiarezza cosa sia successo sul mercato negli ultimi anni.
Intanto l’incidenza del mattone sul Pil italiano, pari al 19,5%, più di Germania e Gran Bretagna (circa 18%), meno che in Francia e Spagna (circa 25%) e Irlanda (28%). Poi il peso degli immobili nel portafogli delle famiglie italiane. A fine 2008 il mattone in mano alle famiglie quotata 4.700 miliardi, il 61% delle attività complessive, pari a circa quattro volte il reddito disponibile, contro il 2,5 della Francia e il 3,1 della Germania.
E veniamo ai prezzi. Fatti 100 i prezzi del 2005, si vede che nel 2000 tale indice quotava 70, per arrivare a 120 nel 2008. Quindi dal 2000 l’indice è cresciuto di 50 punti, un incremento pari in media al 72%. Se si guarda agli incrementi per macroaree, si nota che i prezzi sono pressoché raddoppiati fra il 2000 e il 2008 nel centro Italia. Più o meno quanto è successo a livello nazionale in Spagna. Nel confronto internazionale si vede che la crescita dei prezzi in Italia è stata poco superiore alla media Ue, ma se si va a vedere la crescita per macroaree, viene fuori che l’impennata dei prezzi i alcune zone è assimilabile a quanto accaduto in Francia, Gran Bretagna e Danimarca. Evidentemente nel caso italiano, per calcolare la media dell’aumento dei prezzi vale la regola del pollo di Trilussa. Come dire la bolla c’è, ma distribuita qui e là. Perciò non si vede.
Un riscontro a quest’affermazione viene dall’analisi dei dati finanziari. Abbiamo detto che nel 2008 la ricchezza immobiliare delle famiglie era stimata in 4.700 miliardi. A fine 2011 (ultima relazione Bankitalia su ricchezza famiglie) le attività reali delle famiglie venivano stimate in 5.978 miliardi, l’84% delle quali (5.021 mld) sono abitazioni, circa 200 mila euro a famiglia, 65 mld in più rispetto al 2010, pari a un incremento dell1,3%, assai meno del 5,6% medio annuo registrato nel quidicennio 1995-2010. In particolare, fatta 100 la ricchezza in abitazioni delle famiglie nel 1995, l’indice è cresciuto costantemente fino a quotare oltre 220 nel 2010 per poi sostanzialmente stabilizzarsi sullo stesso livello fra 2011 e 2012.
Quindi le quotazioni (dalle quali dipendono i valori del patrimonio) sono più che raddoppiate in quindici anni.
E i redditi? Non c’è bisogno dell’Istat per sapere che di certo non sono raddoppiati, anzi hanno subito una sostanziale riduzione reale dopo l’introduzione dell’euro nel 2002. Tuttavia se ci andiamo a vedere la serie storica Istat (disponibile dal 1999 in poi) vediamo che a inizio 1999 le famiglie totali avevano redditi lordi disponibili per 195 miliardi, che sono diventati 276 a fine 2011: un incremento di circa il 43%.
Se ne deduce che il livello del reddito non ha seguito l’andamento dei corsi immobiliari. Tanto è vero che la Banca d’Italia scrive che le famiglie hanno sostenuto il proprio livello di consumi attingendo alla ricchezza immobiliare, “in un contesto di debolezza del reddito disponibile”. Ciò spiega bene perché negli ultimi due anni siano crollate le compravendite, ma i prezzi siano ancora stabili. In un contesto di “debolezza dei redditi” le famiglie ci pensano due volte prima di “svendere” la loro riserva di valore.
Un ultimo dato. Nel rapporto del 2009 Bankitalia scrive che i finanziamenti al mercato immobiliare (famiglie e imprese) del sistema creditizio pesano 550 miliardi, un terzo degli impieghi totali a fronte del 20% del 2000: il 13% in più in otto anni. Le banche italiane, perciò, sono notevolmente esposte sul mattone.
In queste condizioni le bolle, anche quando ci sono, è meglio non vederle.
L’età della colpa
Non servono parole per spiegare a che punto siamo. Basta sbirciare il grafico che trovate in testa a questo blog. Misura l’andamento del debito rispetto al Pil negli ultimi cento anni negli Usa. La prima impennata della curva è quella la cui discesa provoco la crisi del ’29. La seconda, assai più ripida e inclinata, è quella che è iniziata negli anni ’80 e che ha mostrato decisi segni di inversione nel 2008, come se quattro anni fa sia davvero iniziato un serio percorso di disindebitamento dopo trent’anni e passa di allegra sbornia che hanno profondamente mutato gli equilibri del mondo.
Nessuno sa se è davvero così. Se, vale a dire, la tenzone drammatica fra chi vuole inflazionare il debito e chi vuole deflazionarlo avrà un vincitore o se saremo tutti egualmente sconfitti.
Questo blog vuole proporsi come luogo di raccolta di cronache e riflessioni su questo particolare tornante della storia, che solo con estrema superficialità si potrebbe pensare abbia ricadute esclusivamente economiche.
L’indebitamento collettivo, al contrario, è assai più che una semplice questione bancaria. Investe ambiti che sono innanzitutto sociali, e poi psicologici e persino religiosi. Quindi è una fatto eminentemente politico.
Di conseguenza ci riguarda tutti.
La crisi del debito è l’altra faccia della crisi del credito. Dall’età dell’innocenza del credito facile, elargito per decenni come surrogato della fiducia, siamo finiti nell’età della colpa. I debitori sono guardati con sospetto e diffidenza. Finiscono sotto processo. Vengono condannati. I popoli vengono letteralmente schiacciati dalla loro colpa. Prendersela con le banche è scambiare ancora una volta il dito con la direzione. Prendersela con lo strumento ignorando il fine.
Invece quello che serve è una robusta dose di consapevolezza. Capire dove siamo per immaginare dove andremo.
Buona fortuna.
