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Ombre cinesi sul futuro dei (tras)porti europei
Il primo autentico banco di prova della futura (e molto eventuale) collaborazione fra Europa e Cina, prima ancora che dalla gestione del commercio internazionale, che risente della “stagionalità” della relazione Usa-Ue, sarà quella degli investimenti infrastrutturali cinesi in Ue. Come abbiamo osservato altrove, la qualità e la quantità del commercio che interviene fra le due regioni è tale che, per potere dar seguito alle dichiarazioni di facciata, occorre un notevole sforzo infrastrutturale per potenziare gli scambi. Ciò significa che l’Ue deve esser disposta a farsi “incorniciare” nella visione della Belt and road initiative cinese e consentire quindi investimenti strategici esteri sul suo territorio, a cominciare da infrastrutture sensibili come quelli portuali.
Il tema è oggetto di un approfondimento pubblicato da Brugel, che svolge una ricognizione molto efficace sullo stato degli investimenti portuali in Ue, che abbiamo già osservato di sfuggita ma che qui viene dettagliata. Si comincia col ricordare che l’Ue è impegnata nella definizione di una cornice legislativa per regolamentare l’afflusso di investimenti diretti sul proprio territorio, che, secondo le parole del presidente Juncker devono essere condotti ricordando che “L’Europa deve sempre difendere i suo interessi strategici”. E le infrastrutture lo sono sicuramente. Il dibattito è ancora aperto, ma nel frattempo sono accaduti molti fatti nel nostro continente che è meglio conoscere almeno per la grandi linee.
Cominciamo da alcuni numeri. L’economia europea dipende sostanzialmente dalla sua infrastruttura portuale. Il 74% dei beni che circolano sul territorio Ue passano dai porti, secondo quanto riporta Eurostat, che quota in circa 1.700 miliardi (dato anno 2016) il valore delle merci che ricevono ogni anno. Peraltro i porti occupano circa 1,5 milioni di persone. Se osserviamo il dato scorporato per le singole economie abbiamo una visione più chiara dell’importanza strategica dei porti per la nostra economia.
Questo grafico misura la percentuale di export extra Ue che passa per mare, quello sotto la percentuale di import.
Ovviamente i porti non tutti uguali e la posizione geografica riveste un’importanza decisiva. Ma non è l’unica variabile del gioco.
La mappa elaborata da Bruegel ci consente di apprezzare l’importanza relativi dei principali porti europei, con la chiara prevalenza di quelli nord europei che sono i terminali dei grandi corridoi transnazionali. E’ così da parecchio tempo, ma adesso sono in gioco alcune forze che in qualche modo potrebbero scombinare questo gioco consolidato.
Il caso più interessante da osservare è quello del porto del Pireo finito sotto l’influenza cinese dopo che Pechino ne ha fatto uno dei punti di snodo della Belt and Road Initiative che, non a caso, prevede massicci investimenti nelle strutture portuali.
La Cina ha già investito in diversi porti in Italia, Olanda e Spagna, acquistando quote di proprietà, ma l’investimento del Pireo è di sicuro quello più rilevante, sia per l’importo investito che per il valore strategico. La compagnia cinese China Ocean Shipping Company (COSCO) ha firmato un accordo nel 2008 con l’autorità portuale del Pireo per operare in due dei tre terminal. Con accordi successivi la COSCO è diventata di fatto l’azionista di maggioranza dell’autorità portuale che opera anche nel terzo terminal. Ma il fatto rilevante è che, secondo quanto viene riportato, dal momento dell’acquisizione il porto ha conosciuto una crescita senza precedenti dovuta al notevole upgrade tecnologico e infrastrutturale reso possibile dal capitale cinese. In sei anni, scrive Bruegel riportando la Reuters, il traffico portuale è cresciuto del 300% e il porto del Pireo è divenuto uno dei più affollati dell’Europa.
L’aumento del traffico attorno al Pireo dimostra che le rotte commerciali non sono scritte sulla pietra. Lo stiamo vendendo con lo sfruttamento commerciale di quelle artiche. E infatti lo sviluppo del Pireo è la conseguenza visibile di un punto di vista, quello cinese, che considera strategiche le regioni sud orientali dell’Europa per la sua penetrazione commerciale nel continente. Insieme all’investimento sul Pireo, infatti, la Cina progetta di costruire un network ferroviario (Land-Sea express route) che colleghi il porto greco con i Balcani occidentali e il nord Europa, che si sta già lentamente realizzando e che è stato al centro dei recenti colloqui con i paesi interessati nell’ambito dell’incontro di due settimana fa fra il primo ministro cinese Li e i suoi omologhi dei paesi dell’Europa centro-orientale (Central and Easter Europeaa, CEE).
Questo progetto di collegare meglio di quanto sia adesso il Pireo con l’Europa seguendo l’asse sud-orientale potrebbe segnare una piccola rivoluzione per le rotte commerciali europee. “Comparato con le rotte esistenti di navigazioni, che passano dallo Stretto di Gibilterra, la Land-Sea Express route può diminuire i tempi di trasporto fra Cina e Ue”. E’ talmente concreta questa possibilità che alcune grandi compagnie come l’HP, la Hunday e la Sony hanno già iniziato a far scalo a Pireo come porto di prima destinazione per le spedizioni nei paesi europei della CEE e nel Nord Africa. “La decisione della Hewlett Packard di spostare le operazioni dal porto olandese di Rotterdam a quello del Pireo dimostra che quest’ultimo può rappresentare un’alternativa più economica ai porti nord europei.
Di nuovo il problema si sposta nel campo di gioco dell’Ue. L’Unione rimane divisa circa il giudizio da dare alla BRI cinese e ai progetti di sviluppo a capitale cinese dentro il suo territorio. Ci sono interessi consolidati – il caso del porto di Rotterdam è solo uno dei tanti – che chiedono di essere difesi e aziende europee che temono l’ingombrante presenza cinese per le conseguenze che può avere, ad esempio, sull’industria della cantieristica navale. Ma ci sono paesi, a cominciare ovviamente dalla Grecia, che hanno salutato con entusiasmo l’arrivo dei cinesi. Ai greci si sono aggiunti i paesi della CEE, confermando il pattern che la Cina segue sempre quando si tratta di individuare le linee di penetrazione delle sue politiche internazionali: far leva su stati finanziariamente deboli e offrire loro opportunità. Circostanza che certo genera diverse diffidenze all’interno dell’Ue.
La fine di questa storia è ancora tutta da scrivere, ovviamente, e sarebbe quantomeno avventuroso inerpicarsi in previsioni. L’Ue è alle prese con scelte difficili, con il principale alleato, ossia gli Usa, che pare voler separare il proprio destino da quello europeo, e una potenza emergente che spinge per allacciare nuovi legami o rinverdirne di vecchi, con tutta la regione Euroasiatica. In tal senso sui trasporti europei, a cominciare dai porti, si staglia sempre più ingombrante l’ombra cinese. Comunque vada a finire, il mondo non sarà più lo stesso di prima.
Il governo dei giudici che regola l’economia europea da sessant’anni
L’economia, ridotta a esser tecnica, ormai si fonda sul diritto. Il capitale, come ha scritto qualcuno, sovrappone il giuridico all’economico. E così facendo lo struttura in un regime che si espone al dispotismo dei giudici. Tanto più in un organismo Ogm com’è l’attuale costruzione europea.
Sono le varie norme – i trattati nel caso europeo – a dare sostanza alle elucubrazioni quasi mai disinteressate degli economisti. Non si dà, né può darsi, atto economico nelle società di oggi, se a monte non c’è una costruzione giuridica che lo legittimi.
Questa evidenza si tende sempre a trascurarla, sedotti come siamo dalle astrazioni matematiche della tecnica che ci illudono di padroneggiare la realtà del fatto economico ignorandone il sostrato giuridico, quindi politico, quindi culturale, del quale il fatto economico è poco più di una risultante di natura combinatoria.
I più avveduti sanno che è sempre stato così. Almeno da quando le società hanno iniziato a strutturare in atti scritti, prima notarili, quindi giudiziari, i fatti economici.
All’epoca in cui gli accordi di scambio si concludevano con la mitica stretta di mano, ne è succeduta un’altra, basata sul cavillo, che ha dato gran lavoro prima al legislatore, che in ciò ha estrinsecato la sua volontà di dominio sull’economia, ma soprattutto ai giudici e agli avvocati, che di tale volontà sono gli ermeneuti accreditati per pubblico consenso o concorso. Questo nel continente europeo.
Nei paesi di common law, i giudici hanno addirittura sostanziato l’atto economico. Non è certo un caso che il diritto commerciale inizi la sua epopea nel XIII secolo, all’epoca del boom mercantile delle società europee, segnatamente in Italia, e si sviluppi nel XVIII nel diritto commerciale inglese, che originerà de facto le tecniche del capitalismo.
Alcuni esempi aiuteranno a capire.
Siamo in Inghilterra, nel 1666. Un cittadino si rifiuta di pagare una cambiale con la scusa che, non essendo lui un mercante ed essendo la cambiale uno strumento squisitamente mercantile, non è obbligato a farlo. Ed ecco allora che un giudice, chiamato a decidere della causa, nel condannare il debitore statuì che “la legge dei mercanti è legge del Paese, e la prassi è sufficientemente buona da essere applicata ad ogni uomo, che si tratti o meno di mercante”.
Nel 1704, dopo grande dibattere nelle aule di tribunale e fuori, il Parlamento inglese approva una legge che equipara le promesse di pagamento, antesignane delle note di banco (poi divenute banconote) e le lettere di cambio alla circolazione locale. La legge spiana la strada alla circolazione delle banconote.
Ma sarà un’altra sentenza del 1758 emessa da Lord Mansfield, sorta di ministro di giustizia dell’epoca, a fare la storia. Il caso fu provocato dal furto di una banconota della Banca d’Inghilterra. La Banca avvisata dal proprietario del furto, si rifiutò di pagare il corrispondente in oro scritto sulla nota al portatore, che intanto ne era venuto in possesso in buona fede essendo all’oscuro del fatto criminale. Ne scaturì una causa. Il Lord scrisse parole che cambiarono la storia dell’economia. Fissò il senso e il significato delle note di banco, creando di fatto le attuali banconote: “Le banconote – disse – non sono merci, né obbligazioni o titoli di credito; sono piuttosto moneta, circolante, ed è necessario che la circolazione di tale forma di moneta sia ben definita e protetta dall’ordinamento”. L’assimilazione della banconota a moneta segnò l’avvio della circolazione cartacea che lentamente condusse alla creazione di un’altra moneta, quella scritturale, ossia dei depositi bancari. Da lì partì la grande marcia del credito bancario. Non fu certo un caso, di conseguenza, che l’Inghilterra si avviasse a diventare il centro finanziario del mondo moderno.
Se veniamo ai casi nostri e al presente, vale la pena andare alla radice della costruzione europea. Vi scopriremo che l’espressione “governo dei giudici”, che l’incultura del nostro tempo assimila ai penosi dibattiti giornalistici fra politici e magistratura, risale invece agli anni d’oro della costruzione europea, gli anni ’50 e ’60 del secolo scorso. Con la differenza, rispetto ad oggi, che all’epoca si declinava in inglese.
Il 18 aprile 1951 Francia, Germania, Italia, Belgio, Lussemburgo e Paesi Bassi siglarono a Parigi il trattato che statuiva la nascita della Ceca, comunità europea del carbone e dell’acciaio. Ci volle un anno perché i vari parlamenti arrivassero alle ratifiche, ma il 23 luglio del ’52 il trattato entrò formalmente in vigore. Come scelta provvisoria, si fissò la sede nel Granducato del Lussemburgo.
Il trattato statuì anche la nascita delle quattro entità sovranazionali che avrebbero dovuto attuarlo, quindi l’Assemblea, l’Alta Autorità, il Consiglio speciale dei ministri e, dulcis in fundo, la Corte di Giustizia. L’Alta autorità era l’organo esecutivo della Ceca, il Consiglio dei ministri una sorta di collegamento fra la Ceca e i singoli governi nazionali, l’Assemblea, ancora priva di poteri legislativi, aveva solo poteri di controllo e di censura. Alla Corte di Giustizia toccò il compito più rilevante, da un punto di vista sostanziale, ossia controllare la legittimità degli atti decisi dall’Alta autorità, assicurando anche il rispetto, da parte degli stati, del nascente diritto comunitario.
La nascita della Ceca doveva condurre a una profonda integrazione politica che doveva iniziare con la costruzione della CED, comunità europea di difesa, fallita nel 1953 per l’opposizione del parlamento francese. Iniziò allora la via economica all’Europa, ossia edificare l”Europa a partire dall’economia. La Ceca, in questo senso, è il nostro peccato originale.
Ad essa infatti succederà, nel 1957, il Trattato di Roma che istituirà la CEE e la CEEA. Fu il Trattato di Roma a statuire gli organi, in sostanza derivati dalla CeCa, che conosciamo oggi: quindi il Consiglio dei ministri, la Commissione, il Parlamento e sempre la Corte di Giustizia.
Quest’ultima, nel silenzio che ben si addice a un organo giurisdizionale, si caricò un compito di capitale importanza per la costruzione europea: la creazione della giurisprudenza comune. Un’arma formidabile per sindacare, intanto lato economico, sulla coerenza dei comportamenti degli stati membri con la legislazione comunitaria.
In tal senso la Corte di Giustizia europea, in quanto organo della Ceca, fu costruttrice occulta dell’ordine europeo. Molti costituzionalisti dell’epoca (come quelli odierni) si allarmarono. Il belga Paul di Vischer scrisse nel 1951 di essere fortemente preoccupato per la possibile diminuizione di sovranità che il Belgio avrebbe potuto patire dall’adesione alla CeCa e sollecitava adattamenti costituzionali, visto che la neonata comunità poteva godere di poteri legislativi, regolamentari e giurisdizionali diretti sui cittadini.
Fu un’epoca d’oro per i giuristi europei e di conseguenza per la Corte di giustizia. Furono i giuristi europei, tedeschi e francesi in testa, a dare corpo e anima alla costruzione europea laddove la politica si era dimostrata impotente. Quindi allargare sempre più i confini delle competenze delle tre comunità europee fino a inglobare materie sempre più vaste e articolate.
La inevitabile vaghezza dei trattati, infatti, lasciò ampio spazio all’interpretazione e le varie cause che si decisero in seno alla Corte crearono uno straordinario arsenale giurisprudenziale che ha finito col diventare norma comune.
Fu nel corso degli anni ’50 e dei primi anni ’60 che la Corte costruì l’ossatura del diritto comunitario, svolgendo un’analitica ed erudita disamina degli ordinamenti nazionali per assimilarli e amalgamarli in un comune diritto europeo, avendo nel Trattato la loro legittimazione e nella successiva produzione normativa la sua evoluzione.
La Corte di Giustizia venne inaugurata in pompa magna il 12 dicembre 1952. Vale la pena ricordare che fra i primi giudici della Corte i magistrati veri e propri erano solo due su sette. C’era un celebre economista, il francese Jacques Rueff, che più tardi firmerà la riforma monetaria dei nuovi franchi, e poi l’olandese Adrianus Van Kleffen, che aveva legato il suo nome alla creazione del Benelux, nel 1948.
Ai suoi giudici e agli avvocati generali spettò il compito immane di creare la giurisprudenza europea, ossia le norme consuetudinaria di un’Europa senza stato. I primi avvocati generali, figure topiche di questa Corte in quanto organi terzi, puramente tecnici, addirittura rispetto ai magistrati stessi, chiamati a interpretare le norme nell’esclusivo interesse del diritto, furono il francese Maurice Lagrange e il tedesco Karl Roemer. Fu in quel tempo che si iniziò a parlare di “Governement of the judges”, anche se l’espressione apparirà solo più tardi in un saggio del 1976 di un ex giudice della Corte stessa.
Nel 1958, col Trattato di Roma, le funzioni ordinarie della Corte si estesero anche alla funzione interpretativa basata sui rinvio dei giudici nazionali dei paesi membri. E fu proprio un’interpretazione dell’articolo 177 di tale Trattato a far decidere alla Corte un principio che avrebbe definitivamente incardinato tale “governo dei giudici”.
In particolare fu affermato il principio che il diritto comunitario aveva effetto diretto non soltanto sugli stati membri, come faceva credere la logica delle varie comunità, ma anche sui singoli cittadini di tali stati. La Corte divenne una specie di corte suprema, in pratica, anche se ancora limitata alle questioni economiche regolate dai trattati.
Il lavoro degli avvocati generali di paziente analisi e tessitura dei diritti nazionale nella nuova tela del diritto comunitario fu lungo e analitico. Si parlò all’epoca della rinascita dello ius commune latino i cui principi fondamentali regolarono la vita nello spazio del Sacro Romano impero per tutto il Medioevo, fino a quando gli stati nazionali non iniziarono a farsi i loro codici. Da questo punto di vista, ha scritto qualcuno, la Corte di giustizia dei primi anni non lavorò diversamente dalle grandi giurisdizioni europee tardo-medievali. In quegli anni, insomma, l’Europa riscoprì la sua radice culturale imperiale, talché il diritto comunitario in qualche modo ne è il diretto erede.
Il “fondo comune” europeo generò l’unità giuridica dell’Europa, antecedente sia a quella politica e ancor di più a quella monetaria. Il passato imperiale sarebbe diventato un futuro sovranazionale.
Il diritto comunitario doveva diventare, proprio in quanto un diritto in formazione, simile al legislatore, come ebbe a dire un presidente di sezione alla fine degli anni ’60. E proprio in quegli anni, nel 1967, Maurice Lagrange pubblicava un saggio intitolato “La Corte di giustizia come fattore di integrazione europea” su una rivista di diritto americana.
Grazie ai giudici della Corte “costituzionale” europea, “descritti da alcune fonti – scrisse l’ex avvocato generale Giuseppe Federico Mancini – come gli eroi non celebrati dell’integrazione europea” si compì uno straordinario processo di omologazione giuridica, precondizione dell’omologazione economica, che, proprio in virtù della sua natura costituente, fece sospettare che prima o poi questo diritto avrebbe finito col confliggere con quello delle corti costituzionali dei singoli paesi. Timore che abbiamo visto verificarsi in tempi recenti.
Tanto è vero che già nel 1969, sempre Lagrange si sperimentò in un’analisi comparativa per vedere se e in quale maniera il diritto comunitario potesse cozzare con quello delle diverse Corti costituzionali. Già da allora la Corte tedesca e quella italiana avevano espresso forti resistenze, anche se poi quella italiana, incoraggiata dalla dottrina finì con lo sfumare la sua opposizione.
Ma lo sforzo di Lagrange ormai apparteneva solo alla pubblicistica. Le fondamenta, assai robuste, del diritto comunitario erano già state gettate. Tanto è vero che nel 1963, la Corte affermò che il giovane diritto comunitario era “un ordinamento giuridico di nuovo genere nel campo del diritto internazionale, a favore del quale gli stati membri hanno rinunciato, se pure in settori limitati, ai loro poteri sovrani ed al quale sono soggetti non soltanti gli stati membri ma pure i loro cittadini”.
Il tema della cessione della sovranità, quindi, partì dal diritto e si articolò nel diritto, prima di diventare una questione economica. Il diritto comunitario, per stessa affermazione della Corte che lo gestiva, era superiore a quello degli stati.
L’Europa OGM non aveva più motivo di nascondersi.
La Corte si accomodò nel suo bel palazzo lussemburghese sull’altipiano del Kirchberg e da lì cominciò a “legiferare”.
Non ha mai smesso.
La Ue trasloca da Bruxelles a Mosca
Distratti come siamo dagli affarucci di casa nostra, prestiamo poca attenzione a quello che succede fuori dai nostri confini.
Presi come siamo dalle beghe dei Palazzi non badiamo a uno dei traslochi più rilevanti per la geopolitica prossima ventura: quello della Cee da Bruxelles a Mosca.
Già. Il vecchio acronimo della Comunità economica europea, ha finito col diventare quello della Comunità economia euroasiatica. E non da oggi: da oltre dieci anni.
E siccome a est sono più veloci di noi a fare le cose, vuoi perché hanno una gestione più disinvolta delle procedure democratiche, vuoi perché hanno imparato molto dai nostri errori, finirà che da qui a un paio d’anni ci ruberanno anche un’altro acronimo: quello dell’Ue.
Ai primi del 2015, infatti, secondo le intenzioni russe, dovrebbe nascere l’Unione euroasiatica, che nel sogno egemonico russo dovrebbe rappresentare il vero motore di un’integrazione economica che vada da Vladivostok a Lisbona.
Un’altra Ue, nel caso non bastasse quella che già c’è.
Scherzi a parte, la questione è seria e merita un riepilogo.
Il 10 ottobre del 2000 Bielorussia, Kazakhstan, Kirghizstan, Russia e Tagikistan firmano il trattato che istituisce la Comunità economica euroasiatica. Oggi la Cee dell’est include anche l’Uzbekistan e vede come “membri osservatori” Armenia, Ucraina e Moldova. Il trattato prevedeva la promozione “dell’integrazione regionale” e la “creazione e il rafforzamento dell’Unione doganale e dello Spazio economico unico tra i suoi membri”.
C’è voluto un decennio, ma finalmente nel 2010 l’Unione doganale è diventata una realtà.
Nel luglio 2011 i paesi core della Cee, ossia Russia, Bielorussia e Kazakhastan, misero in piedi la struttura chiamata a favorire i commerci della regione stabilendo una tariffa doganale unificata e un unico territorio doganale. E’ stata creata un’entità sovranazionale (la Commissione dell’Unione doganale) alla quale i governi-partecipanti hanno ceduto parte dei propri poteri in materia di tariffe doganali, di ordinamento non tariffario e tecnico, di politica commerciale con i paesi terzi e di amministrazione doganale.
A gennaio 2012, poi, gli stessi tre paesi hanno dato vita allo Spazio Economico unico. Queste entità sono i pilastri che dovrebbero condurre, da qui al 2015, alla fondazione dell’Unione euroasiatica che, come ebbe a scrivere Putin in un articolo del 2011, non è un clone della vecchia Unione sovietica, ma “un’unione sovranazionale” (come quella di Bruxelles) che vuole diventare il ponte di collegamento fra Ue (quella di Bruxelles) e Asia.
La futura Unione euroasiatica replica per grandi linee l’Unione europea.
Ha una sua commissione euroasiatica, ossia l’organo regolativo dell’unione dognale e dello spazio economico e un consiglio interstatale euroasiatico, che riunisce i capi di stato e di governo e adotta le delibere per consenso. Ovviamente il peso specifico della Russia le garantisce un’influenza determinante sulle scelte del consiglio. Quindi è stata creata anche una Corte di giustizia comunitaria, chiamata a risolvere le dispute fra gli stati membri. Come quella nostrana del Lussemburgo.
Insomma l’Unione euroasiatica è la gemella diversa dell’Unione europea.
Per dare un’idea di come stia procedendo il processo di integrazione, è utile andarsi a leggere gli atti di un convegno, che si è svolto un anno fa alla Camera dei Deputati dal titolo “L’Unione Eurasiatica – Sfida od opportunità per l’Europa?” organizzata dall IsAG, Istituto di alti studi in geopolitica e scienza ausiliarie, al quale hanno partecipato alcuni diplomatici dei paesi dell’Unione.
Il primo dato che salta all’occhio è quello fornito da Evgenij A. Šestakov, ambasciatore della Repubblica di Bielorussia, che parla apertamento di successo. “Il volume degli scambi commerciali tra la Bielorussia e la Russia nel 2011 si è attestato sui 38,6 miliardi di dollari USA, con un aumento del 37,7% rispetto al 2010. Il volume degli scambi con il Kazakistan nel 2011 è cresciuto di 768,2 milioni di dollari USA. Le nostre esportazioni sono state di 631,2 milioni di dollari e sono cresciute, rispetto al 2010, del 35,8%”.
D’altronde è notorio che favorire gli scambi fa aumentare il commercio. Tanto che adesso sono partiti i colloqui con tutti i paesi dell’Asean e persino con Egitto, Vietnam e Mongolia.
Ancora più esplicito Aleksandr Zezjulin, che ha parlato in rappresentanza dell’Ambasciata della Federazione Russa. “È evidente – dice – che la creazione di tale mercato comune che conta 170 milioni di consumatori non può che rappresentare una opportunità da non perdere per i nostri partner vicini, tra cui in primo luogo i Paesi europei”. E sottolinea di aspettarsi “dall’Unione Europea un atteggiamento altrettanto aperto e costruttivo”.
Ma non solo dall’Ue. Andrian K. Yelemessov, ambasciatore della Repubblica di Kazakistan, ha spiegato che “una delle condizioni fondamentali per lo sviluppo della capacità di innovazione dell’Unione Eurasiatica è quella di aumentare attivamente gli investimenti e la cooperazione tecnologica con gli Stati Uniti, l’Unione Europea, la Cina e con la Cooperazione Economica Asia-Pacifica”.
Se tutto questo vi sembra astratto, vi suggerisco di dare un’occhiata a un planisfero. La nascente Unione euroasiatica è più che vicina geograficamente all’Unione europea. Il primo punto di contatto è in Finlandia, storicamente molto legata alla Russia, che aderisce insieme all’Unione europea e all’euro. Poi ci sono le tre repubbliche baltiche, orami saldamente nell’orbita di Bruxelles (la Lettonia aderirà all’euro l’anno prossimo, l’Estonia già dal 2011, ).
Immediatamente sotto le tre repubbliche, nella cerniere di collegamento fra le due Ue, troviamo l’Ucraina, che, al momento sembra indecisa fra l’Ue di Bruxelles e quella di Mosca. Gli ultimi sviluppi fanno ipotizzare che Kiev finirà col preferire quest’ultima, blandita costantemente da Mosca con promesse di aiuti e qualche pressione politica.
La più recente è arrivata un mese fa da dall’ambasciatore russo presso l’Unione europea Vladimir Chizhov in un’intervista a EurActiv.com. Il diplomatico ha spiegato che “nel caso di un accordo di libero scambio con l’Ue (di Bruxelles, ndr), l’economia dell’Ucraina soffrirebbe, poichè i suoi prodotti non rispettano gli standard europei”. Oltre al fatto che “qualora Kiev dovesse firmare un accordo di associazione con l’Unione europea nel corso del vertice di Vilnius del 28 e 29 novembre prossimi – è opinione di Chizhov – il prossimo parlamento ucraino potrebbe non ratificarlo”.
Ma in gioco c’è molto di più, ovviamente. Basti ricordare che attraverso l’Ucraina passa il gasso russo verso i paesi europei.
Senza avventurarci troppo nella geopolitica dovrebbe essere chiaro a tutti che l’integrazione regionale dell’ex Unione sovietica, nella forma di un’unione sovranazionale di stampo europeo è uno dei momenti salienti del graduale processo di avvicinamento dell’intero blocco.
Lo spazio economico comune “da Lisbona a Vladivostok” auspicato da Putin, si comporrebbe di due regioni (ossia le due UE) trovando il proprio fondamento nei profondi rapporti commerciali che già esistono fra loro.
L’Unione euroasiatica potrebbe trovare nell’Unione europea, e segnatamente nell’eurozona, uno strumento monetario, ossia l’euro, che, in un contesto di intensificazione dei rapporti bilaterali, consentirebbe ai paesi orientali di avere una valuta di riserva davvero alternativa al dollaro, capace vale a dire di difendere il valore dei loro investimenti.
Anche per una semplice circostanza. Le due Unioni europea/asiatica hanno in comune qualcosa che le avvicina, se non per affinità culturale per mero interesse, alla Cina, alla quale infatti si rivolgono le affettuose attenzioni degli ambasciatori dell’Unione euroasiatica: i crediti che hanno con l’estero.
In un quadro di integrazione crescente, insomma, il dispotismo euro-asiatico troverebbe il terreno ideale su cui svilupparsi, con l’Ue “occidentale” che finisce col diventare una maschera dell’Ue “orientale”. Ossia la controparte presentabile dei vari processi internazionali.
Le prove generali sono già in corso.
Solo che nessuno le guarda.
L’Europa Ogm (organismo giuridicamente modificato)
Che cos’è l’Europa?
E’ una comunità di stati sovrani, viene da dire.
Facile ed elementare.
Poi però uno si deve sforzare di approfondire, visto che guardando il planisfero l’Europa proprio non si vede. Si vedono i singoli stati, ognuno col suo bel colore per distinguersi dall’altro, ma dell’Europa non c’è traccia nella cartine geografiche, a differenza, ad esempio, dell’America, che appare monocromatica e gigantesca.
Per l’Europa, insomma, vale più o meno quello che disse (ma gli storici sono indecisi) Metternich dell’Italia pre-risorgimentale: è un’espressione geografica.
Un’espressione. Quindi un modo di dire.
Però l’Europa esiste eccome: ne sentiamo parlare tutti i giorni.
Addirittura ha una moneta unica. Non tutta, solo un pezzo. Però, ci dicono, l’Europa è ben più grande dell’eurozona e tende a espandersi.
Manco fosse un’epidemia.
E allora: cos’è l’Europa?
Per provare a rispondere dobbiamo inerpicarci lungo una storia lunga sessant’anni, partendo però dalla fine.
L’occasione ce la fornisce una quaderno giuridico pubblicato pochi giorni fa dalla Banca d’Italia, intitolato “Dalla vigilanza nazionale armonizzata alla Banking Union“.
Un testo molto utile perché ripercorre le tappe salienti del processo di integrazione bancaria, ovvero la punta di diamante del percorso di unificazione europeo che dovrebbe condurre, nell’arco di un decennio, alla completa unificazione politica dell’Ue.
Questo in teoria.
in pratica, scrivono i giuristi di Bankitalia, “la crisi ha fatto emergere tutte le criticità insite nel processo di unificazione europea evidenziando, per quanto attiene in particolare al campo dell’integrazione bancaria e finanziaria, l’odierna inadeguatezza del modello della vigilanza armonizzata, introdotto, insieme al principio dell’home country control, dalle direttive europee, che avevano iniziato a disciplinare il settore bancario a partire dalla fine degli anni ’70”.
Che fosse necessario superare tale impostazione si è capito “mano a mano che la libertà di movimento dei capitali e l’adozione della moneta unica hanno accelerato l’integrazione dei mercati finanziari europei” che ha provocato “la nascita di imprese bancarie sovranazionali le cui dimensioni travalicavano le possibilità di controllo delle singole autorità nazionali. In tale contesto la crisi ha operato da catalizzatore evidenziando la necessità di promuovere un modello europeo di vigilanza pienamente integrata”.
Che peraltro l’integrazione finanziarie europea fosse fragile era chiaro sin dai tempi di Maastricht, visto che il gruppo dei governatori centrali, ai tempi delle riunioni propedeutiche alla stipula del trattato, aveva chiesto che fosse affidata alla Bce il compito di vigilare sulle banche europee. “Ma all’epoca – notano – le resistenze degli stati nazionali non consentirono di superare il modello della vigilanza ripartita su scala nazionale”.
Ancora una volta nella dialettica fra gli stati nazionali e il governo sovranazionale, i primi hanno prevalso sul secondo che, molto pazientemente, ha atteso che arrivasse il momento giusto per affermarsi.
Vent’anni dopo, la vigilanza accentrata, è diventata una legge comunitaria. Grazie alla crisi.
Le crisi, peraltro, si sono dimostrate un ottimo strumento di governo dell’Europa.
Non a caso Yves Mersch, di recente, ha citato una celebre dichiarazione di Jean Monnet, secondo il quale “L’Europa sarà forgiata dalle crisi e sarà la somma delle soluzioni adottate per le crisi”.
Il riferimento a Monnet, uno dei padri dell’Europa, ci riporta all’inizio della nostra storia. Quando tutto cominciò.
Facciamo un salto nel passato, dove sono stati piantati i semi del nostro presente.
Arriviamo ai primi anni ’50, quando pochi visionari diedero vita al sogno europeo dopo intensi dibattiti iniziati nel dopoguerra che diedero origine ad alcuni accordi intergovernativi e poi, più tardi, al primo ente sovranazionale europeo: le CECA, antensignana della CEE.
La nascita della CECA, comunità europea del carbone e dell’acciaio, prende spunto proprio dalle intuizioni di Monnet e viene sponsorizzata da un altro francese, l’allora ministero degli esteri Robert Schuman, che il 9 maggio 1950 pronunciò una celebre dichiarazione dove annunciava il progetto di un’Europa a costruzione graduale a pragmatica.
Tale costruzione sarebbe cominciata mettendo in comune risorse economiche, ma con un fine più ambizioso: “Mettendo in comune le produzioni di base e istituendo una nuova Alta Autorità,le cui decisioni saranno vincolanti per la Francia e la Germania e i paesi che vi aderiranno, si costituirà il primo nucleo concreto di una federazione europea indispensabile al mantenimento della pace”. L’intento è chiaro: creare un’Europa politica, utilizzando lo strumento del cosiddetto “federalismo funzionale”: ciò che faccio definisce ciò che sono. “Conosciamo il nostro più temibile avversario: l’egoismo nazionale che divide i popoli”, disse all’epoca il capo della delegazione tedesca Walter Hallstein.
La CECA fu istituita nell’aprile del ’51 e la sua nascita segnò un’autentica evoluzione nel cammino europeo. Non tanto per le questioni economiche ad essa sottintese. Ma per quelle giuridiche.
Furono i giuristi, e non gli economisti, che oggi come allora erano solo in secondo piano (malgrado le apparenze) a compiere l’impresa.
L’Ue, come la conosciamo oggi è innanzitutto una loro creatura.
Furono i giuristi, ad esempio, a inventare la definizione di “organismo sovranazionale” da applicare alla CECA per caratterizzare il suo essere una sorta di terza via fra il diritto degli stati e quello internazionale.
E furono sempre i giuristi a mettere le fondamenta del diritto comunitario, che a molti di loro parve una felice (e aggiornata) riedizione dello ius commune medievale, ossia di quel corpo di norme e commentari che, per il suo rifarsi ai vecchi codicii romani, si pensava fosse applicabile a tutto il territorio del Sacro Romano Impero e che finì nel dimenticatoio una volta che gli stati nazionali iniziarono a voler fare da soli.
Ieri come oggi è stata la dialettica fra le entità sovranazionali e statuali a fare la storia.
La CECA si componeva di Francia, Germania, Italia, Lussemburgo, Belgio e Paesi Bassi. Il Trattato fissò i suoi organi amministrativi (con la Germania che spingeva per avere un peso specifico più rilevante degli altri) decise la sua sede (il Lussemburgo) e persino gli stipendi e le pensioni del suo personale (anche solo dopo quattro anni di servizio). Si discusse anche a lungo del regime lingustico, che prima fu il francese, poi gradualmente sostituito dall’inglese.
Ma fu chiaro da subito che gli esperti legali avevano in mente sin dall’inizio la costruzione di uno stato europeo federale, tanto è vero che proposero di dare alla CECA un regime speciale che comprendesse anche l’extraterritorialità in modo da farne una sorta di distretto federale.
Per la cronaca, Jean Monnet divenne il primo presidente dell’Alta autorità della CECA, che si insedierà nel Lussemburgo il 10 agosto 1952, ossia dell’organo esecutivo della Comunità. Poi c’era l’Assemblea comune, composta da delegati dei parlamenti nazionali, priva di poteri salvo il diritto idi censura, e infine la Corte di Giustizia, l’antesignana dell’attuale Corte di giustizia europea.
L’Ue, in nuce, era già tutta lì.
Fu in quei primi anni ’50 che il sogno europeo parve diventare una realtà.
E in effetti si arrivò a un passo dal successo.
Sull’onda del successo della CECA furono tratteggiati e messi in cantiere la Comunità europea di difesa (CED) e la Comunità politica europea (CPE). Lo schema era lo stesso: delega allo strumento sovranazionale di poteri settoriali, con progressiva spoliazione degli stati nazionali.
La CED fu addirittura oggetto di un Trattato, firmato dai sei stati della CECA il 27 maggio 1952. Il Trattato prevedeva la messa in comune di risorse militari, una esercito europeo, e giocoforza portava con sé l’elaborazione di strumenti politici che avessero potuto disporre di tali eserciti.
I politici di allora, insomma, puntavano su roba grossa: altro che moneta.
Senonché, furono proprio i francesi, che pure avevano contribuito in maniera determinante a dare origine alla CECA, a far fallire la CED e con essa la CEP, che finora è l’unico compiuto tentativo di costruzione politica dell’Europa e nella quale avrebbero dovuto fondersi la CECA e la CED.
L’Assemblea nazionale francese, il 30 agosto 1954, bocciò il trattao che istituiva la CED. Pochi giorni prima era morto il nostro Alcide De Gasperi, uno dei grandi fautori dell’unificazione europea nel campo della difesa. Un anno dopo, nel 1955, Jean Monnet si dimise da presidente dell’Alta autorità della CECA.
Il sogno europeo si scontrò con la realtà.
Fu allora che si comprese che la via dell’Europa unita non poteva passare dalle assemblee nazionali. Nessuno Stato si sarebbe mai privato delle sue competenze se non “costretto”.
Servono le crisi, appunto, come diceva Monnet.
La palla, di conseguenza, passò dai politici che si occupavano di grandi ideali impraticabili ai tecnici amanti dei cavilli, giuristi in testa, usando il cavallo di Troia dell’economia, che si rivelò essere, come già il caso della CECA aveva dimostrato, il miglior collante per obbligare gli stati a fondersi insieme. Cosa meglio della pagnotta mette d’accordo tutti?
Sicché si arrivò alla Risoluzione di Messina, nel 1955, che mise le basi per la costruzione della CEE. L’Europa riusciva ad edificarsi solo partendo dall’economia. Che vuol dire che, non potendo parlar d’altro, di parla di ciò di cui non parla nessuno (a parte gli addetti ai lavori). L’economia, appunto.
E infatti, senza troppi problemi nel 1956 viene firmato il Trattato di Roma che data la nascita della CEE. Un mercato comune europeo pieno di merci e uomini in omvimento transfrontaliero.
Ma il fine ultimo era, come al solito, più ambizioso. Si trattava nientemeno che della “completa integrazione degli Stati europei”, come ebbe a dire nel 1960 Karl Roemer, avvocato generale tedesco della Corte di Giustizia. “I Trattati – spiegò – non sono che la parziale realizzazione di questo grande programma generale”.
Due anni dopo, nel 1962, un altro fervente europeista tedesco, Walter Hellstein, che presiedette in quegli anni la commissione CEE (antesignana di quella Ue), disse che “l’integrazione economica europea è, nella sua essenza, un fenomeno politico. La CEE costituisce un’unione politica nel campo economico e sociale”.
Col passare del tempo le comunità europee, a partire dalla CECA fino alla CEE e poi all’UE, grazie all’intensa opera delle Corte di Giustizia europea, che si occupò di commentare, e rileggere le norme nazionali alla luce dei Trattati, divennero così comunità di diritto capaci, proprio perché sovranazionali di imporsi sugli Stati. Una sorta di riedizione del Sacro romano impero, senza sacro né romano, ma profano e sovranazionale.
La nascita del diritto comunitario fu lo strumento principe, e lo è tuttora, della lenta conquista dell’Unione politica europea che procede, oggi come ieri, tramite argomenti noiosi come l’Unione Bancaria. avendo come fine, ormai dichiarato, l’Unione politica.
Ce ne sarebbe tanto ancora da raccontare (lo faremo, prima o poi) ma per il momento è più utile tornare alla mia domanda iniziale.
Cos’è l’Europa?
Se leggiamo lo studio di Bankitalia di cui ho parlato, viene fuori che l’Europa, almeno relativamente alle questioni finanziarie (ma in fondo vale per tutto il resto), è un corpo di norme giuridiche che nel tempo sono diventate sempre più appannaggio di sconosciuti legulei le cui coordinate vengono fissate in vertici intergovernativi e scritti a Bruxelles e a Strasburgo.
L’Europa, quindi, è un organismo giuridico disincarnato.
Un OGM.
Organismo giuridicamente modificato.
Ps
Con questo post ho provato ad allargare il campo dell’analisi dai temi prettamente economici a quelli storico-giuridici, che come spero di aver reso chiaro, ad essi sono sottintesi. Non essendo giurista, come d’altronde non sono economista, mi perdonerete semplificazioni ed errori. Lo scopo, come sempre, non è dare lezioni o rivelare segreti. Lo scopo è ragionare insieme sul nostro presente, per provare a capire il futuro che ci aspetta. Da questo punto di vista sarebbe miserevole ridurre tutto all’economia.
Buona lettura e grazie per l’attenzione.