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Per salvare il mattone basta controllare il costo degli affitti

Dicono tutti che servono idee nuove a costo zero per far ripartire la crescita. E molti di costoro puntano l’indice sul mercato immobiliare, visto il suo peso specifico sul Pil e i rischi che comporta per la nostra stabilità finanziaria.

Senonché di idee nuove non si vede neanche l’ombra nel nostro dibattito politico che si è impantanato sull’Imu, come se davvero una mancia di qualche centinaio di euro elargita (con l’elastico) alle famiglie possa risolvere i nostri problemi.

Invece le idee ci sono, a cercarle.

Prima di illustrarle però vale la pena vedere da dove partiamo.

Di recente Bankitalia ha rilasciato il suo ultimo sondaggio congiunturale sul mercato delle abitazioni in Italia relativo al terzo trimestre 2013, dal quale si evince che, pur proseguendo, si sono attenuati i segnali di debolezza del mercato. Il sondaggio, che fa la sintesi di una rilevazione condotta presso gli agenti immobiliari, nota che sono diminuiti i giudizi che prevedono un ulteriore calo dei prezzi (dal 76,8% al 68,2%) mentre è aumentata la percentuale di coloro che prevedono prezzi stabili nel prossimo futuro (il 31% dal 23,1%).

Ma a parte questo lieve ottimismo, l’indagine rileva che la quota di agenti che ha venduto almeno un’abitazione si è ridotta al 59,8% dal 63,6 di luglio, anche se è migliorata rispetto al 55,7% del terzo trimestre 2012. Invariato lo sconto sull’acquisto, che quota il 15,7%, mentre aumenta il tempo della trattativa.

Interessante il dato sulle locazioni. Il numero delle agenzie che ha affittato almeno un immobile è aumentato dall’80% all’81,2%, e il 57,2% degli agenti ha registrato una calo dei canoni rispetto al trimestre precedente anche se una quota maggiore di prima (il 40,3% rispetto al 37,9%) vede canoni stabili per il futuro immediato.

Cosa ci dice questo sondaggio? In pratica che gli agenti sono leggermente più ottimisti, ma prevedono prezzi stabili o in calo contenuto, sia sul versante delle compravendite che degli affitti, che si prevede aumentino di numero. 

Segno che la domanda è ancora debole, malgrado ciò contrasti con l’evidenza di una larga domanda insoddisfatta (basta pensare alle grandi città) che non riesce a trovare il modo di avere una casa perché per queste famiglie gli affitti sono ancora troppo alti e le case costano ancora troppo. E a fronte di ciò ci sono quote rilevanti di case nuove invendute o disabitate.

Un spreco, che è anche un disastro sociale.

Stando così le cose, un’idea a costo zero per le casse dello Stato potrebbe essere semplicemente quella di imporre un prezzo controllato sugli affitti,  il cui trend, secondo quanto stima Bankitalia, è in crescita.

Una sorta di nuovo equo canone, per le fasce più deboli ma non solo. 

In tal modo, paradossalmente, si finirebbe col favorire il mercato delle compravendite, fermando il calo dei prezzi, che ha un impatto rilevante sulla stabilità finanziaria di banche e famiglie, e sbloccando ingenti quantità di ricchezze finanziarie congelate nei conti correnti o chissà dove invece di essere impiegate nell’economia reale.

Penserete che si tratti di un’idea peregrina e forse è così.

Ma vi confesso che non ci avrei mai pensato se non mi fossi imbattuto in uno studio del Nber che racconta del prodigioso effetto che ebbe sul mercato immobiliare americano la decisione di mettere sotto controllo statale il costo degli affitti fra il 1940 e il 1945.

Lo studio si intitola “The home front: rent control and the rapid wartime increase in home ownership”, e ne consiglio vivamente la lettura a tutti i teorici del libero mercato.

Vi do il dato più eclatante. Nei cinque anni considerati il numero dei proprietari di casa aumentò del 10%, circa la metà dell’intero incremento registrato in tutto il XX secolo. Persino più dell’incremento registrato nel periodo del boom, ossia dal 1945 al 1960.

Non servono i mutui subprime e la finanza creativa per far galoppare il mattone. Basta rendere conveniente l’acquisto, avere capacità di risparmio (quindi redditi adeguati) e un circuito bancario ragionevole che eroga credito.

Mentre oggi sta diventando conveniente (ma solo perché le famiglie non possono permettersi di comprare) la locazione. E dovrebbe essere chiaro a tutti che una famiglia in locazione è finanziariamente ed economicamente più fragile di una proprietaria. Il che ha un effetto diretto sulle sue possibilità di consumo, e quindi sul Pil nazionale.

La trovata intelligente, e forse casuale, fu che ad affitti sotto controllo si accoppiarono prezzi di vendita di mercato, quindi liberi. Con la conseguenza che al danno sofferto dai proprietari/locatari corrispose un guadagno dei proprietari/venditori allorquando gli inquilini comprarono, a prezzi di mercato, la casa che prima avevano preso in affitto a prezzo amministrato. La classica situazione win/win, ossia a somma positiva.

Un gioco cooperativo, quindi., non competitivo, che mostra meglio di ogni teoria che la salvezza dell’economia non arriverà (o almeno non solo) dal livello dei tassi, ma dalla capacità dell’economia reale di ripartire sulla base di uno scambio di beni.

La storia vale la pena raccontarla perché è molto istruttiva.

La guerra provocò una grande espansione della produzione nell’industria militare già dal 1940. Tale sviluppo funzionò da calamita nei confronti delle popolazioni rurali, attirate verso i centri urbani dalla promessa di un buon impiego. 

Si calcola che fra il 1940 e il 1945 la popolazione civile sia aumentata di più del doppio in alcune città.

L’aumento di domanda di locazioni che ne conseguì, provocò una brusca salita del costo degli affitti che attirò l’attenzione del governo federale (evidentemente erano poco liberali, all’epoca), preoccupato che l’aumento del costo degli affitti facesse diminuire i salari reali e, di conseguenza, l’attrattività dell’abitare in città. Il che avrebbe avuto un effetto deprimente sulla produzione industriale bellica.

Sicché, due anni dopo, nel 1942, l’OPA (office of price administration) fissò alcuni prezzi amministrati, fra i quali anche quelli degli affitti nelle aree di interesse della Difesa. Che ben presto divenne tutta l’America. I prezzi furono fissati al livello precedente all’incremento della attività industriali, quindi a prima del 1940. 

Alla faccia del mercato.

La tagliola dei prezzi amministrati, che doveva terminare con la fine della guerra, fece sentire i suoi effetti fino alla fine degli anni ’40. In tutto questo periodo il mercato immobiliare americano, afflitto peraltro da una mancanza di offerta di nuove costruzioni provocata dall’economia di guerra, mutò profondamente.

L’OPA, infatti, non aveva alcuna autorità sui prezzi di vendita degli immobili, che aumentarono notevolmente durante la guerra. Ciò costituì un notevole incentivo per i proprietari a disfarsi di immobili che rendevano poco ritirandoli dal mercato degli affitti e rendendoli disponibili per la vendita a coloro che erano già inquilini.

L’OPA provò a frenare questa deriva imponendo restrizione agli sfratti di coloro che non volevano comprare. Ma l’intesa fra proprietari e inquilini fece sfumare le intenzioni del governo. I primi iniziarono ad accettare piccoli anticipi, accoppiato a regolari pagamenti che andavano a coprire il prezzo della vendita, in cambio dell’acquisto delle case.

L’OPA ancora una volta provò ad opporsi, arrivando a fissare in almeno un terzo del totale della compravendita l’anticipo minimo per cedere una proprietà (poi portata a un quinto). Ciò malgrado la trasformazione di inquilini in proprietari era ormai un processo irrefrenabile.

Molti osservatori, fra i quali Friedman, nel dopoguerra ne dedussero che il controllo degli affitti genera un alto tasso di proprietari per diverse ragioni.

I dati raccolti nello studio confermano questa teoria. “Non solo l’incremento di proprietari è rimarchevole per la sua entità – scrive l’autore – ma anche per il fatto che sia avvenuto in un breve lasso di tempo”.

La crescita del numero di proprietari fra il 1947 e il 1950, infatti, fu relativamente molto modesta rispetto a quella registrata nella prima metà del decennio”.

Dai dati, inoltre, si deduce che il grosso di questo incremento avvenne proprio a causa degli accordi “affitto e compro”, talmente ventaggiosi per inquilini e proprietari che neanche la buona volontà del governo riuscì a impedirli.

Il mercato, quello reale, trova sempre la strada, a differenza di quello del capitale, che alla fine senza il supporto dello stato (leggi: banche centrali o bail out) non si regge in piedi.

Infatti mentre il numero degli inquilini-proprietari cresceva di ben 4,8 milioni fra il 1940 e il 1945, quello degli inquilini semplici a fitto amministrato calava di oltre due milioni nel periodo considerato. Questo mentre i prezzi nominali delle case in 35 città crescevano, sempre nel periodo, in media del 56%.

Tutto questo in un contesto di redditi crescenti per le famiglie e credito bancario stabile, visto che i prestiti al settore immobiliare si spostarono dal settore delle imprese di costruzioni, praticamente congelato dalla guerra, a quello delle famiglie che compravano casa.

“Mentre gli altri periodi di aumento del numero dei proprietari hanno sempre coinciso con un aumento del numero delle costruzioni – nota l’autore – il numero estremamente limitato di nuove costruzioni durante la guerra ha determinato una creazione di nuovi proprietari sulla base delle case esistenti”.

Non è una differenza da poco. 

In pratica, un ceto limitassimo di persone, ossia i pochi proprietari che possedevano grandi quantità di immobili, sono stati “invitati” a venderli.  Si fece pressione su un pugno di rentier, per dirla con Keynes, e così facendo si mise in moto un meccanismo di economia reale che ha cambiato il mercato immobiliare a vantaggio di tutti, rentier compresi, che hanno spuntato prezzi di vendita assai vantaggiosi.

L’economia funziona quando c’è scambio di beni o servizi, dovremmo ricordarcelo. Non quando tutti vogliono vivere di rendita, immobiliare o finanziaria che sia.

Secondo le stime dell’autore tale politica di affitti controllati spiega almeno il 65% di incremento di proprietari nella prima metà degli annni ’40. E soprattutto, conclude, “la rapida creazione di un grande nuovo gruppo di proprietari di casa ha esercitato una notevole influenza nelle decisioni politiche del dopoguerra”.

E’ la nascita ufficiale del ceto medio.

Lo stesso che si sta sgretolando adesso.

Se torniamo a noi e al nostro tempo, l’insegnamento di questa storia è più che eloquente.

Una politica lungumirante dovrebbe scoraggiare la rendita, in questo caso immobiliare, imponendo prezzi controllati sugli affitti ed elaborando opportuni strumenti, fiscali o creditizi, per favorire contestualmente l’acquisto delle case prese in locazione. In questo modo si arriverebbe a scoraggiare anche la rendita finanziaria, che è altrettanto perniciosa per l’economia reale.

La lezione è chiara, insomma.

Ma nessuno la ascolta.

Dopo le banche, anche le assicurazioni entrano nell’ombra

All’ombra della regolazione non fiorisce solo lo shadow banking.

Meno noto alle cronache, ma non per questo meno fiorente, è lo spostamento di una montagna di debiti delle compagnie di assicurazione verso soggetti che sfuggono alle maglie della regolazione finanziaria. Gli studiosi chiamano questo fenomeno shadow reinsurer.

Il fenomeno è finito sotto la lente di alcuni economisti del Nber, che qualche giorno fa hanno rilasciato un paper intitolato “Shadow insurance” che da una misura chiara della posta in gioco negli Stati Uniti e solleva notevoli interrogativi circa la capacità dei regolatori di far fronte alla straordinaria fantasia elusiva della finanza globale.

Un primo dato serve a dare l’idea della dimenzione del fenomeno.

Le passività cedute dagli assicuratori sulla vita al sistema-ombra dei riassicuratori è cresciuto dagli 11 miliardi di dollari nel 2002 ai 363 miliardi nel 2012: in pratica si è moltiplicato per 33. Le compagni assicurative che usano tali pratiche pesano il 50% del mercato e cedono 28 centesimi per ogni dollaro incassato alle assicurazioni ombra, a fronte dei 2 centesimi nel 2002.

Perché le assicurazioni abbiano preso questa deriva è facile capirlo. Secondo gli autori, infatti, “in assenza di assicuratori-ombra i costi marginali aumenterebbero dell’1,8%”.

La ricerca dell’efficienza nei costi, così come quella dei ricavi, genera il rischio sistemico.

Lo shadow reinsurer si compone di entità speciali, per lo più veicoli finanziari, allocati in alcuni stati americani o in paradisi fiscali che sono soggetti a una regolazione meno stringente o a normative fiscali più favorevoli. E vista la quantità di risorse in gioco, è pure agevole capire perché tale pratica abbia finito col diventare di moda.

Nel 2012, infatti, le passività delle assicurazioni americane, quindi gli obblighi accumulati nei confronti dei loro sottoscrittori, avevano raggiunto la somma di 4.069 miliardi di dollari. Un ammontare di tutto rispetto, se confrontato con un’altra montagna di passività, ossia quella accumulata nei depositi di rispamio, che, sempre nel 2012, valeva 6.979 miliardi.

Fino  a pochi anni fa le passività delle compagnie assicurative non suscitavano l’attenzione degli osservatori, visto che venivano considerate più prevedibili e quindi stabili rispetto alle passività bancarie.

Ma i grandi cambiamenti nella regolazione hanno cambiato questo scenario.

Le compagnie di assicurazione, per garantirsi una gestione più efficiente (leggi meno costosa) delle propri passività hanno iniziato a spostare masse di debiti sul circuito ombra dei riassicuratori.

Così arriviamo ai 363 miliardi di passività censiti dagli autori che hanno trovato casa in questo circuito ombra.

Per capire quanto sia rilevante questo spostamento di passività, basti considerare che nel 2004, quindi in pieno boom della finanza e prima del collasso, il mercato delle asset-backed commercial paper emesse dal circuito bancario ombra delle banche americane quotava 650 miliardi.

Ad aggravare i rischi contribuisce anche la circostanza che la pratica di dislocare passività nel circuito ombra sia appannaggio delle più grandi compagnia assicurative americane, che pesano circa il 50% del mercato.

“Abbiamo riscontrato – scrivono gli autori – che lo shadow insurance aggiunge un tremendo ammontare di rischi finanziari per le compagnie coinvolte che non viene considerato nel rating attuale di cui dispongono”.

Nelle loro stime, se le agenzie di rating tenessero conto di tale pratica, i coefficienti patrimoniale delle compagnie assicurative sarebbero abbattuti del 49% (risk-based capital) con un impatto sul rating di tre notches (per le compagnie medie). Quindi un rating A diventerebbe B+.

L’aggiustamento proposto dagli autori causerebbe perdite per l’industria di oltre 15 miliardi di dollari che “attraverso le garanzie di stato finirebbero in carico ai taxpayers e alle altre compagnie che non usano il circuito ombra”.

Come sempre accade, sono sempre i buoni a pagare il conto dei cattivi.

Peraltro, sottolineano, “mentre lo shadow insurance ha chiaramente questi costi, i benefici sono difficili da quantificare”.

Capite bene perché i regolatori americani si siano allarmati. Anche perché, sottolineano gli autori, la stima di 363 miliardi di valori di passività finite nell’ombra, “potrebbe essere solo la punta di un iceberg” qualora la pratica dello shadow reinsurer sia diffusa anche nel resto del mondo.

Peraltro, ricordano, la crisi ha mostrato che “anche un piccolo shock può essere amplificato dall’interconnessione che esiste nel mercato finanziario” e uno shock nei mercati assicurativi può avere ripercussioni sull’economia reale “attraverso il mercato dei corporate bond”.

Di recente le autorità hanno chiesto una moratoria di tali pratiche. Un appello pressoché ignorato anche in considerazione del fatto che “il settore assicurativo è regolato a livello nazionale” negli Usa e questo “rende il coordinamento nazionale difficoltoso”.

Anche gli americani, insomma, hanno i loro trilemmi.

Prima o poi dovremmo farci i conti pure noi.

Le banche non sono cattive: le disegnano così

Mi stupisce ogni volta vedere quanto astio suscitino le banche fra i cittadini. Dal 2007 in poi, quando è risultato chiaro a tutti il ruolo giocato dagli intermediari finanziari (categoria che comprende le banche, ma che non si esaurisce con le banche) nello scoppio della grande crisi, l’odio per la banche è cresciuto proporzionalmente alla sofferenza dei popoli.

I cittadini hanno scoperto che i banchieri (ma sarebbe più giusto dire gli operatori finanziari) hanno avvelenato l’economia con prodotti tossici, guadagnandoci pure bonus miliardari (in dollari) a fronte di disastri immani. Hanno saputo che questi soggetti sono usi se non direttamente alle truffe quantomeno alle furbizie. E che, non paghi di aver provocato la peggiore crisi dell’ultimo secolo, adesso lesinano pure all’economia il credito necessario per tornare a respirare.

Si può essere più cattive di così?

Ora però la cattiveria ha sempre bisogno di soggetti su cui esercitarsi. E l’effetto della cattiveria è tanto più devastante, quanto più questi soggetti – le vittime – hanno a che fare col cattivo. Spesso, ad esempio, mi è capitato di osservare che gli stessi che odiano le banche hanno comprato a rate (quindi grazie al credito) l’ultimo modello alla moda di smartphone (che magari non gli serviva davvero).

Inoltre la presunta cattiveria ha a che fare con le modalità con le quali vengono concepite le banche, con la mission che si affida loro. E quale è questa mission? Semplice: fare più soldi possibile, come ogni bravo soggetto capitalistico. Le banche dovrebbero fare eccezione?

Le banche inoltre, proprio per come sono state concepite, hanno una peculiarità che le rende non solo cattive, ma pericolose: concorrono in maniera rilevante a produrre la liquidità per il tramite del credito. Devono far girare i soldi. E quanto più ne fanno girare, tanto più guadagnano. E per guadagnare sempre di più devono aumentare il rischio.

Tutto questo per dire che prima di odiare le banche, che magari se lo meritano pure ma sono solo uno strumento, dovremmo riflettere più a fondo sul “sistema”, come si diceva una volta, e su noi stessi.

Già: noi stessi. Siamo noi, sono i nostri desideri, a dare potere al sistema finanziario, che ci guadagna sopra. Se fossimo coerenti non dovremmo indignarci né per i profitti che ci lucra né lamentarci delle conseguenze.

Di questo magari parlerò un’altra volta. Per adesso è più interessante approfondire proprio la peculiarità dell’impresa bancaria, ossia la produzione di liquidità.

Cominciamo dall’inizio. Cos’è la liquidità?

E’ un sacco di cose, dipende dal soggetto a cui si riferisce. Per una banca centrale, ad esempio, gestire liquidità significa fornire mezzi di pagamento al sistema finanziario. Quindi gestire la base monetaria. Quando invece sentiamo dire che un investimento ha una buona liquidità, vuol dire che possiamo convertirlo in  moneta in fretta e con perdite minimali. E infatti in termini ragionieristici la liquidità corrisponde alla cassa del bilancio d’esercizio.

Facciamola semplice: la liquidità corrisponde, grossolanamente, al denaro, che infatti è considerato l’attività liquida perfetta.

Per le banche (anche quelle ombra) si parla di liquidità di finanziamento. Quindi la capacità di una banca di far fronte alle proprie passività. Che significa liquidare o stanziare le proprie posizioni nel momento in cui risulta essere necessario, così come definito dal Comitato di Basilea, che supervisiona la disciplina bancaria, nel 2008. In sostanza una banca ha tanta più liquidità quanto più facilmente può restituire i soldi che ha preso in prestito.

E qui sorge la questione.

I debiti di una banca corrispondono al passivo del bilancio bancario. Quindi innanzitutto i depositi, le obbligazioni, i prestiti ottenuti dalla banca centrale, eccetera. Tali debiti sono le risorse che consentono alle banche di prestare ciò che hanno “comprato” dai propri creditori. I debiti delle banche, in pratica, vendono “venduti” a coloro che diventeranno i debitori. I debiti della banca diventano crediti per la banca stessa.

Senonché la trasformazione dei debiti in crediti avviene secondo un principio in virtù del quale le banche moltiplicano per un fattore X il proprio debito iniziale, trasformandolo in un ammontare di credito di gran superiore. Tale principio, per i depositi, si chiama ad esempio riserva frazionaria. Moltiplicando il credito creano di fatto moneta, ossia liquidità.

Ai debiti (liabilities), iscritti nel lato passivo del bilancio, corrispondono perciò i crediti (asset) iscritti nell’attivo. Le banche fanno i profitti lucrando sugli spread fra quanto devono pagare ai loro creditori e quanto devono incassano dai loro debitori.

Stando così le cose, il livello di profitto è direttamente proporzionale alla capacità della banca di aumentare il credito, quindi di prestare. Le risorse sulla base delle quali le banche prestano provengono, come ho già detto, dai prestiti che a loro volta le banche spuntano sul mercato, e dai mezzi propri, ossia dal capitale dell’impresa bancaria. Queste devono essere moltiplicate per il nostro fattore X per sapere a quanti crediti corrispondono questi debiti. E questa è una scelta squisitamente gestionale.

Qui entra in gioco un altro concetto che avrete sentito mille volte: la leva finanziaria, o leverage.

Come tutte le cose che sembrano difficili, il concetto di leverage è invece molto banale. Algebricamente si tratta di una frazione che vede al numeratore il totale dell’attivo bancario, quindi i crediti concessi, e al denominatore il passivo, quindi il capitale proprio più i debiti contratti. Più è alto il rapporto, più vuol dire che i debiti hanno generato crediti.

Ma poiché abbiamo visto che il livello di profitto di una banca è direttamente proporzionale alla capacità di aumentare i suoi crediti, ecco che viene fuori la controindicazione: una banca diventa profittevole quanto più aumenta il suo livello di leverage. Ma più aumenta il livello di profitto possibile, tanto devono aumentare i rischi che si devono correre per ottenerlo. Sicché le banche si trovano di fronte al dilemma fra guadagnare poco (bassi rischi) o creare disastri sistemici (altri rischi).

Vedete, non sono cattive: le disegnano così.

Per comprendere quanto questo dilemma sia concreto, vale la pena riportare qui le conclusioni di un paper recente del Nber che, senti senti, si intitola “Why high leverage is optimal for banks”, ossia “Perché un alto livello di leverage è ottimale per le banche”.

Gli autori, Harry DeAngelo e René M. Stulz, esordiscono ricordando proprio come la liquidità sia “un ruolo centrale delle banche” e che proprio tale attività rivesta un “importante valore sociale” (il famoso acquisto dello smartophone a credito?). Inoltre, dicono, se si applicasse il principio di una bassa leva alle banche, finirebbero fuori mercato, visto che “fissare limiti nel livello di leverage impedirebbe loro di competere con il sistema delle banche ombra, che non è regolamentato”. Come ciliegina sulla torta, dopo aver notato che il livello di leverage è aumentato costantemente negli ultimi 150 anni, i due economisti rilevano che “non necessariamente un alto livello di leverage causa rischi sistemici”.

Quest’ultima è un po’ dura da buttare giù, malgrado numeri e formulette. Non tanto da me, che sono un dilettante, ma sempre dal solito comitato di Basilea, che non deve aver letto il paper del Nber.

Proprio in queste ore, infatti, il Comitato di Basilea ha rilasciato una proposta mirata proprio a regolamentare il livello internazionale del leverage bancario, rendendo persino obbligatorio da parte delle banche la pubblicazione, dal 2015 in poi, dei loro leverage ratio, uno dei segreti meglio custoditi degli istituti bancari. E proprio all’introduzione il Comitato scrive che “una caratteristica di fondo della crisi finanziaria è stata l’accumulo di eccessivo leverage nel sistema bancario”.

Chi la spunterà? I “liberalizzatori”, che vogliono le banche libere di prestare a rotta di collo, o i “regolatori”, che prediligono la prudenza.

La risposta, come diceva un celebra comico, è dentro di voi.

Ma è sbagliata.

L’eurodisastro ci riporta alla vigilia della Grande Guerra

Sarà perché fra poco ricorre il centenario, e certe scadenza, si sa, sono suggestive. Sarà perché in fondo il lavoro degli storici è quello di tracciare prospettive basandosi sui confronti col passato. Però quando ieri sera mi sono letto un paper di Michael D.Bordo e Harold James che traccia un inquietante parallelismo fra la crisi dell’eurozona di oggi e quella che precedette la prima guerra mondiale il pensiero di essere sull’orlo di una catastrofe imminente ha iniziato a spaventarmi. Sarà perché gli storici fanno anche questo di mestiere. 

Il paper, messo on line dal Nber, si intitola “The European Crisis in the Context of the History of Previous Financial Crises”, e già dall’abstract rileva come ci siano “sorpredenti somiglianze fra il gold standard precedente il 1914 e l’Unione monetaria europea”. “Entrambi sono basati su tassi di cambio fissi e sull’ortodossia monetarie e fiscale”. Ma, cosa ancora più sorprendente, “entrambi hanno garantito un facile accesso dei capitali provenienti dai paesi core ai paesi periferici economicamente sottosviluppati”. Come oggi, anche prima del 1914 c’erano i Pigs (o Gipsi). Ed erano più o meno gli stessi. Ieri, come oggi, tali paesi sono stati beneficiati dal credito dei paesi ricchi e oggi, come ieri, ne sono stati spogliati con grave nocumento per le loro economie.

Ma c’è una profonda differenza fra il regime del gold standard e quello dell’euro. Il primo, in caso di grandi crisi, come ad esempio una guerra o un dissesto finanziario, poteva accordare delle eccezioni alla regola della convertibilità, accordando anche temporanee svalutazioni monetarie ai paesi in crisi. L’Euro “non ha questa valvola di sfogo”, come la chiamano gli autori.

Quindi, mentre in entrambi i regimi “i flussi di capitale hanno alimentato il boom dei prezzi delle attività attraverso il sistema bancario, provocando grandi crisi nei paesi periferici”, a questi ultimi non è stata data la possibilità di svalutare, come avrebbero fatto all’epoca del gold standard.

Conseguenza: “La Grecia e gli altri paesi periferici hanno sofferto danni economici più grandi di quelli sofferti dall’Argentina nel 1890”.  Per la cronaca, quella crisi lì è una di quelle che gli annali segnalano con più ricorrenza, dopo quella del ’29, perché provocò il fallimento della Banca Baring di Londra.

Le analogie non finiscono qui. Un grafico mostra l’indebitamento pubblico raggiunto dai paesi europei fra il 1910 e il 1914, provocato dalla corsa agli armamenti: è lo stesso raggiunto oggi dagli stati per tappare il grande buco del debito privato dal 2008 in poi, ben oltre il 90% medio del Pil.

Un altro grafico mostra con chiarezza lo stretto collegamento fra l’ampio movimento di capitali e le crisi bancarie. Nel 1914 l’indice aveva raggiunto lo stesso picco di correlazione registrato ai giorni nostri. Questo per quelli che dicono che la libera circolazione dei capitali fa bene all’economia.

L’ennesima analogia riguarda il basso costo del capitale, garantito dall’adesione al gold standard, che permise ai paesi periferici di abbeverarsi alla “generosità” dei paesi ricchi. Proprio come è accaduto ai paesi del Sud Europa dopo l’adesione all’euro, quando gli spread crollarono. Ciò ha finito, ieri come oggi, per favorire un indebitamento coatto il cui costo, oggi come ieri, gli Stati sono chiamati a pagare. “Quando i paesi credibilmente adottavano il gold standard, sperimentavano picchi di afflussi di capitale quasi sempre mediati attraverso il sistema finanziario”. Stop improvvisi di tali afflussi spesso hanno condotto a collassi bancari”. Questo agli inizi del XX secolo. E del XXI.

Un’altra analogia riscontratat è quella del costo pagato dagli stati per entrare nel gold standard, del tutto simile a quello pagato dagli stati europei per entrare nell’euro. Ivan Vyshnegradsky, ministro delle finanze russo fra il 1887 e il 1892, che voleva a tutti i costi far entrare il suo paese nel gold standard, spiegava la necessità di accettare la pesante deflazione fiscale e monetaria alla quale stava esponendo la Russia con una massima: “Dobbiamo esportare, anche a costo di morire”.

Una massima (“dobbiamo essere competitivi”) che sentiamo ripetere spesso e volentieri, ai giorni nostri, e che rivela un’altra analogia fra i due periodi: il mercantilismo. Ieri come oggi, favorire il commercio era il fine ultimo dei due sistemi monetari.

Ancor più interessante è leggere al ricostruzione fatta dai due autori della nascita dell’area monetaria europea che “ha funzionato prima di entrare in vigore e poi non più”.

La prima motivazione che spinse le nazioni europee più ricche a ricercare un’integrazione monetaria fu “nella depoliticizzazione dei processi di aggiustamento”. Togliere ai parlamenti nazionali la possibilità di decidere cosa fare dei propri debiti, insomma, affidando il tutto a un’entità sovraordinata era la migliore garanzia per i propri crediti.

Ovvio che a fare da capofila di questa integrazione fosse la Germania, dal secondo dopoguerra Grande Creditore dei paesi europei. Meno ovvio che a questo gioco partecipasse anche la Francia. I due paesi infatti, già dal secondo dopoguerra, avevano interessi divergenti.

La Francia, infatti, “aveva la prospettiva di dover subire un periodo di austerità e deflazione per correggere i propri conti”, dopo la seconda guerra mondiale. Proprio come adesso. “E questa necessità era poco attrattiva per i politici francesi, visto che avrebbe contratto la crescita e provocato impopolarità”. I francesi avrebbero preferito fare politiche espansive, ma tale alternativa “era impopolare in Germania, dove il pubblico temeva l’inflazione e si registrava la ferma opposizione della Bundesbank”. Anche questa, sembra storia di oggi, non di sessant’anni fa.

Non ci siamo mossi di un passo. Abbiamo solo ingannato il tempo.

Per risolvere questi dilemmi, Francia e Germania, puntarono sull’unione monetaria. La prima per “scaricare” su un’autorità sovranazionale gli eventuali costi del proprio aggiustamento. La seconda per lo stesso motivo, ma contrario. L’Unione monetaria divenne una camera di compensazione delle tensioni nazionali.

Germania e Francia si accordarono sulla necessità di non rispondere alle proprie opinioni pubbliche: è questo l’unico asse franco-tedesco. Gli altri paesi, bovinamente, seguirono.

Ma poiché il diavolo si annida nei dettagli, ecco che gli effetti dei movimenti nei capitali, ormai liberalizzati, mostrarono che era molto difficile che gli squilibri dell’area (gli stessi di oggi) si potessero correggere. E questo “era chiaro già alla fine del 1980 e dei primi anni ’90”.

Ciò convinse gli indecisi che “l’unione monetaria fosse l’unico modo per evitare che il rischio di crisi periodiche, con costanti riallineamenti monetari che avrebbero provocato effetti sulle pratiche di commercio, finissero col minacciare la sopravvivenza del mercato interno europeo”.

Insomma, i policy maker europei pensarono che affidandosi all’euro avrebbero tolto dal tappeto la variabile impazzita dell’eurozona, ossia il cambio nazionale. Le svalutazioni minacciavano l’integrità del mercato unico, dissero. Ma di fatto penalizzavano i paesi a valuta forte, che poi erano gli stessi che premevano per l’unificazione monetaria.

La cosa irritante è che tutti sapevano che non avrebbe funzionato. Il barone Alexandre Lamfalussy, general manager della Bis, cooptato nel Delors Committee che mise le basi dell’Unione monetaria, scrisse un memorandum dove affermava che “dubito che paesi con propensioni al deficit così diversi possano convergere in un’Unione monetaria come avviene in un sistema federale. Né credo che sarebbe saggio affidarsi principalmente al libero funzionamento del
mercato finanziario per appianare le differenze di comportamento fiscale tra Stati”. E concludeva che “c’è il rischio che in assenza di uno stretto coordinamento, le grandi differenze fiscali fra i paesi rimarranno”.

Serve più Europa, quindi, come ci ripetono anche oggi. O per dirla con le parole del barone: “Un maggior coordinamento a livello comunitario della politica fiscale sarebbe il naturale complemento della politica monetaria comune”.

Tale consapevolezza, di star creando qualcosa di pericolosamente instabile, era chiaro a tutti i livelli. Nel suo rapporto finale, l’allora governatore della Banca di Francia Jacques de Larosière scrisse che “è improbabile che l’Unione economica e monetaria sia durevole senza un sufficiente grado di convergenza delle politiche di bilancio degli stati”. Salvo poi, quando si trattò di chiudere i trattati e definire le regole per costruire e finanziare i bilanci pubblici, arguire provocatoriamente “chi può giudicare l’applicabilità di tali regole? Non c’è la polizia”. Era sempre un cittadino francese, prima che europeo.

Sicché, concludono i nostri autori, “una politica fiscale comune non emerse mai in Europa”.

Si arrivò al trattato di Maastricht, e, dieci anni dopo all’unione monetaria, in queste condizioni. Con l’aggravante che nel 2003 Francia e Germania, sempre loro, violarono i patti perché avevano problemi fiscali.

L’asse franco tedesco si palesa solo quando hanno guai comuni, evidentemente.

Nel frattempo che l’Europa cuoceva nel suo brodo, la liberalizzazione dei flussi di capitale faceva il suo corso. E quando l’Uem finalmente fu varata, la seduzione degli spread bassi completò il disastro.

Fino al 1990 la gran parte dei debiti pubblici nei paesi europei era in mano ai residenti. Il debito estero non arrivava a un quinto del totale. Con l’euro cambiò tutto. Nel 2008, tre quarti del debito portoghese era in mano all’estero, oltre la metà di quello greco e spagnolo pure, e i due quinti di quello italiano pure. E una grande parte di questo debito era in mano alle banche. Il richiamo in patria dei capitali gentilmente prestati iniziò a dar lavoro alla troika, con  buona pace delle popolazioni, chiamata a garantire che i soldi tornassero da dove erano venuti.

Si ripete lo schema che abbiamo visto all’opera negli anni che precedette la Grande Guerra. I paesi deboli fanno boom, si gonfiano di debiti, e poi entrano in agonia.

Speriamo che le analogie si fermino qua.

Caccia grossa alle riserve cinesi

Ci siamo già occupati del fenomeno del boom di riserve accumulate dai paesi emergenti in concomitanza con l’esplosione degli asset finanziari nei paesi cosiddetti ricchi. Quello che non sapevamo, ma che abbiamo scoperto leggendo un interessante paper diffuso pochi giorni fa dal Nber, è che gli accademici stanno già ragionando su come tale stock di riserve possa influenzare il futuro del sistema monetario.

Il titolo stesso dello studio è assai eloquente: Il futuro della liquidità internazionale e il ruolo della Cina. Prima di addentrarci nel dettagli, vale la pena anticipare una conclusione. Lo status di potenza creditrice raggiunto dalla Cina nell’ultimo decennio ha condotto il Paese a diventare un serio candidato al ruolo di pietra angolare del sistema finanziario globale. O, per dirla in altro modo, i debiti dell’Occidente rischiano di consegnare all’Oriente copia delle chiavi del futuro. Questo suggerisce la teoria economica. In pratica la partita sarà assai più politica, come dimostra l’annuncio dell’avvio dei dialoghi per creare uno spazio economico-commerciale fra Usa e Ue fatto prima da Obama e poi da Barroso proprio poche ore fa.

Il paper riepiloga un simposio tenutosi a Pechino fra il 30 ottobre e il primo novembre 2011, quindi alcuni dati sono un po’ obsoleti. Ma il succo non cambia. Secondo l’autore dello studio, Alan M.Taylor, il mondo rischia una terza crisi monetaria, sul modello di quanto accadde nel 1930, quando la sterlinà abbandonò il gold standard, e nel 1971, quando gli Usa sganciarono il dollaro dall’oro. Ciò anche perché la notevole integrazione finanziaria raggiunta, che purtroppo si è scoperta essere associata con una grande turbolenza, sta facendo crescere in maniera esponenziale la domanda di riserve. Ed è proprio questa domanda che rischia di far collassare l’equilibrio monetario attuale basato sul dollaro.

Il punto di partenza è il cosiddetto paradosso di Triffin, dal nome dell’economista che l’ha formulato nel 1960. Ossia la circostanza che se la moneta di uno Stato viene usata come valuta di riserva mondiale, lo Stato in questione dovrà fornire agli altri stati moneta sufficiente per soddisfare la loro domanda di valuta di riserva, causando quindi un deficit della bilancia dei pagamenti, in particolare sul conto corrente. Se la domanda di riserva cresce esponenzialmente, in pratica, rischia di saltare il banco. Può accadere che gli altri stati non abbiano più voglia di sostenere gli squilibri della bilancia dei pagamenti dello stato-moneta con la conseguenza di una crisi valutaria prima e sistemico-monetaria poi. E’ già successo, e potrà succedere, nota Taylor. 

La prima questione è misurare la domanda di riserve. Dal 1990 al 2010 (tempo monitorato dalla ricerca) il rapporto Riserve/Pil nei paesi avanzati si è attestato intorno al 4%. Nei paesi emergenti tale rapporto è schizzato al 20%: il quintuplo. In valori assoluti, lo stock di riserve globali è passato dai 200 miliardi di dollari a circa 12.000: si è moltiplicato per 60. Da dove è arrivato tutto questo denaro? E soprattutto, dove è finito?

Cominciamo dalla seconda domanda. La lettura dei grafici pubblicati nello studio mostra con chiarezza che fino a metà 2005 lo stock di riserve dei paesi emergenti era più basso di quello dei paesi sviluppati. Poi avviene il sorpasso. Da quel momento la curva schizza in alto e continua a crescere, salvo una breve flessione fra il 2008 e il 2009.

Quindi sono i paesi emergenti a mettere fieno in cascina per i più svariati motivi, ma sostanzialmente per una buona ragione: anni e anni di crisi hanno insegnato agli emergenti che è meglio non fidarsi. Avere riserve da spendere aiuta eccome in caso di crisi valutaria o di aumento dell’import, cosa che di solito accade quando un paese si sviluppa ai tassi dei Bric. A tale conclusione è giunto di recente anche il Fmi (ne abbiamo parlato nel post Il capitalismo finisce in riserva).

Sapere da dove vengono questi soldi è ancora più facile. Dal 1990 in poi, quindi dopo la caduta del muro di Berlino, il livello di attività e passività in valuta in relazione al Pil dei paesi sviluppati è cresciuto a ritmi straordinari. Tale rapporto quotava poco più di 1,5 nel 1990 e ormai ha superato quota 5. Quindi i soldi arrivano da qui, dai Grandi Consumatori.

Il grafico successivo racconta un’altra storia interessante. La domanda di riserve detenute dai quattro Bric si impenna verticalmente fra il 2009 e inizio 2011. La paura della Grande Crisi la fa quasi raddoppiare. In pratica i Bric si riempiono di dollari proprio mentre l’America ne stampa a più non posso per allentare la morsa del credit crunch. Ciò che provoca la crisi (lo squilibrio della bilancia dei pagamenti americana)  allo stesso tempo la nutre. Di nuovo il paradosso di Triffin. Tale asimmetria, alla lunga, potrebbe generale un “dollari panic” disastroso, per l’America, ma anche per i Bric che vederebbero evaporare il valore di quanto hanno a riserva.

Come se ne esce? Lo studio vede un paio di scenari. Uno, chiamiamolo autarchico, in cui gli squilibri esteri si risolvono nel modo più traumatico. Un controllo più fitto sui movimenti di capitale, e quindi sulla finanza per come si intende oggi, capace sostanzialmente di far crollare il rischio di turbolenze, farebbe diminuire la fame di riserve, ma al costo di “esternalità negative” capaci di riportare l’orologio del commercio internazionale indietro agli anni ’30. Questo dice lo studioso.

O sennò bisogna fare in modo che la Cina entri nel grande gioco, infilando la sua moneta (rectius le sue riserve) nel grande calderone. Serve una riforma del sistema monetario internazionale nella quale, sostanzialemente, la Cina ceda riserve in cambio di posizione, con il Fmi nel ruolo di grande ciambellano. Perché è partita la caccia proprio alle riserve cinesi? Facile rispondere anche a questo. Nel 2000 le riserve cinesi erano poche centinaia di miliardi di dollari, ora sfiorano i 4.000 miliardi, quando la Russia, che è la seconda per riserve, non arriva a 500.

La morale della storia è che per mantenere lo status quo e insieme sciogliere il  paradosso di Triffin gli americani dovranno diventare un po’ cinesi e i cinesi dovranno diventare più americani.

Casualmente l’Europa si trova proprio in mezzo.

La scommessa (persa) per una pensione “normale”

Negli ultimi undici anni i rendimenti totali dei fondi pensione negoziali sono stati di nove punti sotto quello del Tfr. Per la precisione, 30,3% per i fondi, 39,5% per il Tfr. Il dato è contenuto nell’ultima relazione annuale della Covip, la commissione che vigila sui fondi pensione, dove si legge pure che “il rendimento conseguito nello stesso temporale dai fondi pensione aperti, caratterizzati in media da una maggiore esposizione azionaria, è stato del 3,1%”.

Stando così le cose si capisce perché la previdenza integrativa, della quale la creazione dei fondi pensione negoziali è stato il momento saliente, soffra ancora in Italia. Gli iscritti sono poco meno del 25% del totale dei lavoratori e le masse gestite si collocano intorno ai 94 miliardi, e se il trend delle iscrizioni è in crescita costante, cresce anche la percentuale di sospensione della contribuzione, che nel 2011 si è collocata intorno al 20% del totale.

La montagna, insomma, ha partorito il classico topolino, mancando due dei principali obiettivi per i quali è stata costruita e realizzata la riforma dei fondi pensione: assicurare un’integrazione significativa alla previdenza obbligatoria dei lavoratori e mettere linfa vitale nei mercati finanziari, nella presunzione che costoro siano più efficienti nell’allocazione del risparmio.

A conti fatti, finora ci hanno guadagnato solo i gestori, non certo le imprese, che usavano il Tfr per finanziarsi, o i lavoratori, che subiscono un dimagrimento certo (il Tfr) a fronte di un rendimento incerto (la rendita previdenziale integrativa). A ben vedere, ci ha guadagnato il Tesoro, che preleva ogni anno dall’Inps a costo zero la quota del Tfr versato da chi ha scelto di non aderire.

Se si guardano i rendimenti dal 2005 al 2011, nel periodo in cui la riforma dei fondi pensione si è incardinata  e diffusa, il risultato cambia poco. I fondi negoziali hanno reso il 18,7% e i fondi aperti il 12,6, a fronte del 18,9 ottenuto dal Tfr. Se poi si approfondisce l’analisi, si scopre che i fondi negoziali gestiti con l’obbligazionario puro, la forma più sicura e quindi in quale modo assimilabile al Tfr, hanno spuntato un rendimento complessivo del 13,5%. E’ più che legittimo, perciò, porsi una domanda: ma se invece di versare tutto il proprio Tfr nei fondi pensione, un lavoratore se lo tiene e, una volta incassato, lo investe in un titolo di Stato, avrà una rendita maggiore o minore di quanto gli garantisce un fondo pensione?

Tentare una stima è alquanto avventuroso, anche a causa delle pluralità delle numerose situazioni previdenziali. Alcune simulazioni calcolano che l’incidenza della previdenza obbligatoria sul totale della prestazione pensionistica erogata si colloca fra il 10 e il 20% dell’ultima retribuzione, che si va a sommare quindi al circa 50% garantito dalla previdenza obbligatoria, che è più o meno quanto andrà a incassare di pensione un lavoratore interamente a regime contributivo con gli attuali tassi di sostituzione.

A rendere incerto il quadro è anche il regime dei fondi pensione, che sono a contribuzione definita e non a prestazione definita. Quindi si conosce l’entità del versamento, ma non della rendita finale, essendo quest’ultima notevolmente influenzata dall’andamento dei mercati finanziari. Ora, è pur vero, come rileva la Covip, che gli scarsi rendimenti ottenuti dai fondi pensione dal 2000 in poi sono influenzati “dalle numerose turbolenze provocate prima dalla bolla dei titoli internet e poi dalla crisi finanziaria scoppiata negli Stati Uniti fra il 2007 e il 2008”. Ma forse bisognerebbe iniziare a pensare che tali turbolenze non sono l’eccezione, nei mercati finanziari, ma la regola.

Uno studio pubblicato su Nber nell’aprile del 2008, che ha monitorato l’andamento delle crisi macroeconomiche nel mondo dal 1870 al 2008, ha individuato 87 episodi di crisi che hanno colpito gravemente i consumi e 148 crisi che hanno avuto impatti importanti sul Pil, arrivando a stimare la probabilità di una crisi macroeconomica al 3,6% l’anno. Considerando che la vita lavorativa oggi deve durare almeno 40 anni, chiunque può capire quanto siano alte le probabilità di incappare in uno scompenso previdenziale. Specie in un mondo fortemente globalizzato come il nostro.

Ce n’è abbastanza per dire che la scommessa per avere una pensione “normale”, capace cioé di garantire una vita post-lavorativa dignitosa, si rischia di perderla. Tutti.