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La Bis propone il Sistema monetario 2.0
Abbiamo bisogno di pensare ai grandi sistemi, visto che quelli piccoli stanno franando davanti ai nostri occhi. Dobbiamo alzare il capo dalle rovine della cronaca, cercare il filo del tempo fra le pagine della storia e da lì tentare di agganciarlo al treno del futuro, che passa davanti ai nostri occhi spesso troppo velocemente per essere intercettato.
Perciò bisogna leggere quello che scrive la Bis di Basilea in uno dei capitoli del suo ultimo rapporto annuale per la semplice ragione che discute di sistema monetario internazionale, ossia una cosa che ancora sostanzialmente deve essere reinventato dall’epoca del crollo del gold standard, nel 1914. Perché all’epoca una moneta internazionale c’era – l’oro – che aveva in una valuta nazionale di largo consumo che denominava ogni cosa – la sterlina – la sua controfigura. Mentre oggi abbiamo solo la controfigura – il dollaro – ma non abbiamo la moneta internazionale.
Poiché è difficile immaginare che emerga una nuova moneta capace di essere davvero internazionale perché non nazionale – l’oro era oro, non era emessa da uno stato – a meno di rivolgimenti geopolitici per adesso solo auspicabili, dobbiamo spostare il focus dell’attenzione non tanto sull’identità di questa moneta, quanto sulla sua morfologia. Ed è quello che fa la Bis, che punta su un concetto – la moneta è un affare della banca centrale, qualunque essa sia – e una tecnologia: la valuta digitale emessa dalla banca centrale. Questo è il punto focale.
Che la moneta di domani sarà in larga parte smaterializzata è di fatto una non notizia. E’ già così. L’uso di banconote fisiche, seppure ancora molto diffuso, declina costantemente. Ma soprattutto il contante fisico viene usato solo per piccoli pagamenti al dettaglio – escludendo dal computo l’economia illegale, ovviamente – mentre nei circuiti internazionali ormai il denaro è solo una scrittura su un libro mastro. Prevale di gran lunga il denaro bancario, insomma, che è una moneta creata dal settore privato, ma sostenuta dalla fiducia che prodotta dalla banca centrale. Per dirla più semplicemente: i depositi sono in euro, ma l’euro lo gestisce la Bce, con tutto quello che duecento anni di evoluzione del central banking significano.
Ribadire che la moneta di domani sarà smaterializzata, tuttavia, non è un semplice vezzo da banchieri. Bisogna ricordarlo nel momento in cui certi fenomeni legati al fintech – si pensi alle criptovalute – premono sull’acceleratore dell’innovazione proponendosi addirittura come validi succedanei della moneta bancaria “garantita” dalla banca centrale. Le varie stablecoin, ad esempio, che cercano di aggrapparsi a uno standard per risultare affidabili, salvo poi evaporare – è successo di recente con TerraUsd, non a caso ricordata dalla Bis – non appena gira il vento della fiducia.

Una innovazione importante, quella delle criptovalute, non tanto per gli esiti che andrà a interpretare nel grande gioco della moneta del futuro – al momento nessuno che sia privo di interessi in questo mercato può sul serio credere che una qualunque di queste monete sia davvero concorrenziale con una moneta di banca centrale, specie se di riserva – quanto per il fatto che ha costretto le banche centrali a svegliarsi. A nessun incumbent piace avere il fiato sul collo, e figuratevi quanto piace a chi ha vissuto per secoli in posizione di monopolio.
La nostra Biancaneve Centrale, perciò, si è messa a capo chino e ha cominciato a studiare. E il paper che avete sotto gli occhi ne è il risultato. Il sistema monetario 2.0 immaginato dalla Bis è disegnato per dare spazio ampio al settore privato, esattamente come adesso, stimolare l’innovazione tecnologica, favorire l’inclusione finanziaria e, dulcis in fundo, una sana circolazione monetaria internazionale. Con la Banca centrale a recitare insieme il ruolo di asse portante e tetto – canopy, il termine usato – di questo ampio ecosistema di soggetti. Come adesso, ma in maniera ancora più strutturale.

Il futuro, insomma, per come lo vede e lo propone la Bis, non sarà tanto diverso dal presente. Sarà solo digitale. E scusate se è poco.
Corrispondenza d’amorosi sensi monetari fra Cina e Russia
Se una globalizzazione si compone, fra le altre cose, di rotte commerciali e merci, è fuor di dubbio che la moneta, in quanto denominatore comune degli scambi, sia un’altra componente fondamentale. Nulla di strano perciò che anche su questo fronte avvengano sommovimenti che si annunciano sfidanti per l’egemone statunitense e il suo dollaro, alle prese non soltanto con le valute tradizionali, ma anche con quelle assai più perfide – perché nessuno può davvero dire di cosa saranno capaci – che provengono dai computer e vengono emesse da soggetti non statali, ma con fatturati superiori a quello di molti stati. Alle valuta digitali abbiamo dedicato lunghi approfondimenti, quindi non serve tornarci qui.
Conviene invece occuparci di quel che si agita nel vecchio e rassicurante – ma davvero poi? – mondo delle valute analogiche, quella emessi dalle banche centrali per conto dei loro governi. E in particolare di due di questi paesi che sembrano sempre più esprimere una certa comunanza di intenti, chissà poi quando autentica: la Russia e la Cina.
Lo spunto ce lo offre l’auspicio rivolto qualche giorno fa dal presidente russo Putin nel corso del forum “Russia calling” che Russia e Cina aumentino il livello di scambio reciproco denominato nelle loro valute nazionali. Aggiungendo che i due paesi sono impegnati per trovare punti di contatto fra la BRI cinese e L’Unione economica eurasiatica di Putin, avendo già creato comitati congiunti di esperti per individuare le modalità di questa collaborazione.
Da questo punto di vista la relazione fra Cina e Russia non può certamente evitare la questione monetaria. La Russia, sottoposta da tempo a sanzioni, è alle prese con un lungo e complesso processo di de-dollarizzazione che l’ha condotta non solo a diminuire sostanzialmente le riserve in dollari, ma anche a sperimentare i primi approcci di pagamento in valuta diversa dal dollaro – stavolta in euro – per le sue forniture energetiche. Una prassi, quest’ultima, che potrebbe riservare notevoli sorprese in futuro.
La Cina, dal canto suo, oltre ad aver lanciato ormai da tempo un future sul petrolio denominato in yuan, che vive allegramente nella borsa di Shanghai, è anch’essa impegnata in un ambizioso piano di internazionalizzazione della propria moneta, che trova nei mezzi finanziari messi a disposizione per i progetti della BRI i suoi strumenti ideali di diffusione. Non solo. Anche l’idea di emettere uno yuan digitale, direttamente dalla banca centrale, potrebbe giovare allo scopo. Giova anche ricordare che ormai da anni la valuta cinese è stata inserita nel basket del Fmi che serve a comporre i diritti speciali di prelievo, ossia l’unità di conto del Fondo.
Oltre a questi movimenti, tracciati per grandi linee, che i singoli paesi hanno messo in campo, ci sono anche quelli che sono stati svolti vicendevolmente. O meglio che alcuni paesi emergenti dicono di voler realizzare. Scambi in valuta russa o cinese fra i due paesi ci sono già, come d’altronde avvengono scambi in valute diverse dal dollaro fra Russia e Iran. Ma adesso la collaborazione potrebbe ampliarsi coinvolgendo anche gli altri BRICS. Le cronache raccontano di possibili collaborazioni fra i paesi emergenti per la creazione di un sistema di pagamenti alternativo allo SWIFT, un vecchio pallino russo, magari condito con un po’ di criptovalute per dare appeal alla cosa.
Anche qui, non importa al momento che tutto questo accada sul serio. Quel che conta è osservare questi fenomeni con la consapevolezza che la corrispondenza di amorosi sensi russo-cinese non risparmi neanche il caposaldo monetario della nostra attuale globalizzazione, ossia il dollaro. La storia ci dirà se questi tentativi avranno esito e quali. Intanto ci dice che questo processo, squisitamente ri-globalizzante – è già iniziato. Non è l’unico. E questa è un’altra notizia.
L’epopea di bitcoin rischia di finire nel cimitero delle monete
Chi ha avuto la pazienza di leggere il lungo approfondimento su bitcoin pubblicato in questo blog non si stupirà granché scorrendo l’ottimo approfondimento che la Bis ha dedicato alle criptovalute nel suo ultimo rapporto annuale. Una ventina di pagine dove si spiega con grande chiarezza perché le valute come bitcoin non si possono considerare monete. Se anche lo fossero, perché qualcuno si ostina a usarle, il posto più naturale al quale sembrano destinate è quello del cimitero delle monete che già vari musei, come il British museum, amano esporre per ricordarci quanto sia facile creare una moneta e quanto sia facilissimo che muoia subito dopo.
Ovviamente la Bis non dice che sarà questa la fine di bitcoin e delle altre criptovalute che nascono come funghi in un mondo intossicato dal denaro facile e dalle mitologie anti sistema. Però una cosa si può affermarla con una ragionevole certezza: finché l’assetto istituzionale internazionale nella gestione della moneta si articolerà nella trinità stato-banca centrale-banche commerciali, con le banche centrali grandi protagonisti del gioco, gli spazi per le monete virtuali semplicemente non esistono. Esistono al massimo piccole nicchie di utilizzatori che, a loro rischio e pericolo, gestiscono un asset difficile da capire e ancora più difficile da spiegare. Col che mostrandosi il limite intrinseco di questa tecnologia. Una cosa che ha bisogno di essere spiegata non può essere una moneta, come dovrebbe insegnarci l’esperienza di ogni giorno. Se chiedete a chiunque cosa sia la moneta, ognuno vi risponderà mettendo semplicemente mano al portafogli. Il resto è roba da specialisti.
Detto diversamente, l’affermazione delle criptovalute implica la profonda trasformazione del modello di società al quale siamo abituati da secoli e che ci ha messo secoli a conformarsi. Il che è sicuramente possibile, ma non certamente probabile, almeno nel periodo che ci è concesso osservare. Vale la pena spendere comunque qualche parola in più perché l’analisi della Bis fornisce chiarimenti utili che giovano molto a dissipare alcuni luoghi comuni e molte fantasie che inducono a pensare la moneta come qualcosa di cui possiamo disporre liberamente e a nostro piacimento, quando invece si tratta di strumento tanto potente quanto fragile. E ancora una volta il cimitero delle monete è un ottimo promemoria. La storia, anche recente, è popolata di episodi in cui il pensiero magico dei cattivi gestori della moneta ha determinato autentiche tragedie. E per intendersi sui fondamentali, è meglio partire dalla definizione che dà la Bis della moneta, ossia una “convenzione sociale indispensabile sostenuta da un’istituzione statale che rende conto del suo operato e gode della fiducia dei cittadini”. Già questa definizione contiene tutti gli ingredienti della ricetta per una buona moneta. Ossia la convenzione sociale e l’istituzione statale che siglano quell’alleanza “pubblico-privato tra la banca centrale e le banche private, con la banca centrale al centro del sistema” che regola l’offerta di moneta “in quasi tutte le economie moderne”, come nota la Bis. Parliamo di un equilibrio che si è consolidato nel corso dei secoli e che i cantori delle valute virtuali, bravi in informatica ma scarsi in storia, pensano di rivoluzionare a suon di gigabyte. Probabilmente anche ignorandone sostanzialmente il funzionamento. L’esser banca è di per sé uno stigma che non necessita di altre sottolineatura per i profeti antisistema.
Ai più curiosi farà piacere sapere invece che “grazie al coinvolgimento attivo delle banche centrali, i diversi sistemi di pagamento oggi utilizzati sono sicuri, presentano un buon rapporto costi-efficacia, permettono scalabilità e godono della fiducia rispetto al fatto che un pagamento, una volta effettuato, è definitivo”. In sostanza le criptovalute si propongono come alternativa a questo modello, non soltanto per la valuta in sé, ma soprattutto per l’infrastruttura. “Gli utenti non devono avere fiducia solo nella moneta in sé, ma anche nel fatto che un pagamento verrà effettuato prontamente e senza intoppi”, spiega la Bis. Per questo la sfida di Bitcoin si gioca, più che sull’asset, sulla blockchain, ossia il libro mastro distribuito (DLT) dove vengono cifrate tutte le transazioni effettuate peer-to-peer e che devono autenticate dai minatori per generare la ricompensa denominata in nuovi bitcoin. “Con un ledger distribuito, lo scambio peer-to-peer di moneta digitale è fattibile: ogni utente può verificare direttamente nella sua copia del ledger se un trasferimento è stato effettuato e che non vi siano stati tentativi di doppia spesa”.
La mitologia di bitcoin, che vede nella liberazione dal “potere bancario” la panacea di ogni male economico, poggia su alcuni presupposti che è opportuno sottolineare perché spesso gli utilizzatori, attratti dai movimenti speculativi, non ne hanno consapevolezza. In particolare questa tecnologia funziona se “la larga maggioranza della potenza computazionale è controllata da miner onesti, gli utenti verificano la storia di tutte le transazioni e l’offerta di valuta sia predeterminata da un protocollo”. Giudicate voi quanto tali presupposti siano coerenti con la realtà. Intanto è utile sapere alcune cose. L’utopia di bitcoin non vive nell’immaginazione di chi l’ha pensata ma genera già enormi ricadute sociali, intanto per i costi che esprime. “Al momento della stesura del capitolo – scrive la Bis -, l’energia elettrica totale utilizzata per l’estrazione (mining) di bitcoin era equivalente a quella di economie di medie dimensioni come la Svizzera, e anche altre criptovalute usano ingenti quantità di energia elettrica. Per dirla nel modo più semplice possibile, la ricerca di una fiducia decentralizzata è diventata rapidamente un disastro ambientale”.
E poi ci sono le questioni tecniche sulle quali non serve dilungarsi. Basti sapere che se bitcoin dovesse processare la quantità di transazioni al momento gestite dai sistemi di pagamento tradizionali, “i relativi volumi di comunicazione, con milioni di utenti che si scambiano file dell’ordine di grandezza di un terabyte, potrebbero provocare un black out di internet”.
Rimane da chiedersi cosa rimarrà di questa rivoluzione vagamente effimera al termine della sua epopea. Dando per scontato che così com’è stato pensato il sistema di pagamento decentralizzato non potrà mai sostituirsi ai mezzi di pagamenti tradizionali basati su monete bancarie, qualcosa di questa tecnologia potrebbe scampare al destino che al momento sembra prevalere nelle previsioni degli esperti. Le monete virtuali nascono e muoiono a centinaia – bitcoin è solo quella più nota – e al momento se ne contano migliaia. Questo in qualche modo vuol dire che sono molto più effimere di quel che sembrano e che servono gli interessi di pochi che lucrano su questa attività. Al contrario molto più concreto potrà essere l’utilizzo del DLT, che, scrive la Bis “può essere efficace in contesti di nicchia, dove i benefici di un accesso decentralizzato superano i costi operativi più elevati del mantenimento di molteplici copie del ledger”. In sostanza, più che le criptovalute, che non funzionano come moneta, sono i sistemi di criptopagamenti che possono risultare utili. Come esempio viene fatto quello delle rimesse degli immigrati, che pesano annualmente 540 miliardi di dollari l’anno e generano notevoli costi di transazione. Ma anche qui, altre soluzioni sono possibili. Le banche centrali sono ben consapevoli che dovranno in qualche modo fare i conti con questa spinta all’innovazione e anche il dibattito sull’opportunità di emettere una digital currency di banca centrale ne è la conferma. Rimane il fatto che, nella storia monetaria, vince chi ha più fiato. E le valute virtuali hanno già il fiatone.
Bitcoin for dummies: L’abbraccio totalitario della Blockchain
Dopo i vari libri che ci hanno istruito sulla “Bitcoin revolution”, non poteva mancare un testo sulla “Blockchain revolution”, di cui trovo traccia su un notiziario, a dimostrazione del fatto che questa tecnologia, al di là di quali saranno i suoi esiti sociali, sta già dando lavoro a migliaia di persone, e quindi è entrata prepotentemente nella nostra realtà.
Ciò ne fa un fenomeno meritevole di essere seguito e approfondito, e per questa ragione questa serie di articoli è destinata a proseguire anche in futuro, anche se sotto una diversa forma che esuli dal suo scopo iniziale, ossia illustrare a quelli meno addentro il senso e il significato di Bitcoin/bitcoin, affrescandone a volo d’uccello le complesse articolazioni che sono tecniche, politiche, economiche, finanziarie ma, soprattutto sociali.
Proprio quest’ultimo libro sulla Blockchain revolution ne è una plastica rappresentazione. L’auspicio degli autori è che la “catena di blocco” “vada ben oltre la finanza”, arrivando a configurare una tipologia di relazionarsi totalmente diverso rispetto al passato, basato sulla logica della disintermediazione.
In fondo, anche questo molto logico: se la blockchain non è altro che un database validato in chiaro da una rete di computer divisi in nodi, cosa impedisce che ciò che vale per lo scambio di una criptovaluta non possa valere anche per scambiarsi altri beni o altri servizi?
In sostanza le spire della Blockchain possono arrivare ad avvolgere ogni cosa e si sono già evolute piattaforme – che in alcuni casi coinvolgono i governi – dove si usa la Blockchain per attivare quelli che sono stati chiamati Smart contracts. L’idea di fondo è quella che abbiamo già espresso: due adulti consenzienti, sotto l’egida dell’occhio automatico e moralmente neutro della rete, possono scambiarsi ogni cosa senza bisogno di un terzo che certifichi in qualche modo la regolarità della transazione. Per questo gli autori auspicano che questa tecnologia esca dal recinto della finanza e si espanda, come un’infezione benigna, praticamente dappertutto.
Come ogni totalitarismo, anche quello della Blockchain promette libertà, democrazia e progresso. Come ogni totalitarismo il tutto viene condito con le migliori intenzioni, a cominciare da quella della trasparenza assoluta.
Ogni epoca produce il suo totalitarismo, evidentemente.
La nostra, che vive e prospera grazie alla tecnologia, non fa eccezione.
(15/fine)


