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Viaggio in Cina: Le rotte dove si muovono i miliardi di Pechino

Conviene a questo punto riepilogare dove ci abbia condotto finora il nostro viaggio in Cina, guidato dalla storia perché solo ispessita dalla memoria l’attualità rivela una fisionomia comprensibile. La lunga marcia di Mao, attraverso l’uso spregiudicato della ragion di stato e la compiacente collaborazione dell’Occidente, ha trasformato la Cina da gigante malato e povero, in un gigante convalescente e ricco. Ciò ha dotato il paese della forza necessaria per tornare a guardare al mondo come uno dei protagonisti della Storia, come d’altronde è sempre stato anche se lo abbiamo dimenticato.

E’ alquanto raro avere la possibilità di assistere alla nascita di una vocazione imperiale e questo spiega perché la Cina sia un appuntamento fisso di questo blog. Da questo punto di vista il progetto della BRI, presentato nel 2013 dal presidente cinese Xi, ha segnato un altro momento storico. Da quel giorno è iniziata un’altra lunga marcia: quella della costruzione delle nuove vie imperiali, che ricordano quelle che percorrevano i mercanti euroasiatici ai tempi dei mongoli, lungo le quali la Cina vuole non solo mettere in sicurezza le rotte commerciali attraverso cui si rifornisce e rifornisce il mondo, ma crearne di nuove. Che significa creare nodi di collegamento su aree vaste dalle quali far promanare la propria corrente egemonica e che possano in qualche modo compensare l’egemonia statunitense sulle rotte marittime, dove tuttora naviga il 90% delle merci che compongono il commercio internazionale. Tutto ciò non (ancora) per sostituire la propria egemonia a quella statunitense, ma per coesistervi a livello globale. Giusto quindi provare a rispondere alla domanda: a che punto è la Cina? Qual è il suo grado di influenza nelle infrastrutture globali?

Alcune risposte ce le fornisce un rapporto pubblicato di recente, che mette insieme molte cifre. I numeri sono l’alfabeto del discorso politico e quindi siamo obbligati a frequentarli. Ed è utile conoscerli anche perché aiutano a dimensionare il fenomeno cinese non solo nella sua qualità, ma anche nella quantità. Altrove abbiamo osservato la filosofia dell’investimento estero cinese, dopo aver esaminato il sistema bancario che lo sostiene e le fonti di approvvigionamento del capitale che alimenta questo sistema finanziario. Adesso proviamo a osservarne gli esiti.

Un rapporto pubblicato dall’Emerging Markets Forum quantifica in circa 600 miliardi di dollari i prestiti ai paesi coinvolti nel progetto della Bri dal 2013. Un dato che vale come unità di grandezza più che come dettaglio analitico, considerando quanto sia difficile analizzare la contabilità che promana da Pechino. Serve anche per confrontarlo con i 490 miliardi spesi dai gruppi multilaterali (ad esempio World Bank,  Asian Development Bank ADB, the African Development Bank, AfDB, and the Inter-American Development Bank, IDB) per finanziare lo sviluppo delle infrastrutture nei paesi emergenti.

Le principali agenzia cinesi coinvolte nella Bri, che abbiamo già osservato, ossia l’Export-Import Bank of China (China Exim Bank) e la China Development Bank (CDB) si calcola abbiano finanziato oltre la metà del notevole impegno cinese (334 miliardi) nelle infrastrutture globali. Si stima inoltre che progetti per un valore di 249 miliardi siano in fase di esecuzione, 105 dei quali a cura delle agenzie di investimenti cinesi. In gran parte si tratta di ferrovie (31,7%). Buona parte di questi investimenti sono in Africa (66,6 miliardi) e nell’Europa dell’Est (31,4 miliardi) col che si indovina la trama geografica che sottotitola lo sforza cinese e insieme il terminale di questo sforzo: l’Europa occidentale, che potremmo definire l’Europa peninsulare.

Interessante osservare anche il notevole contributo cinese ai progetti energetici russi, in particolare quelli che riguardano il gas liquefatto, che si spingono fino al profondo Nord dell’Eurasia. “I progetti di generazione di energia sono un obbiettivo chiave per la Cina per espandere la sua influenza, con China Exim Bank e CDB che hanno combinato progetti di generazione di energia per un valore totale di 86,1 miliardi di dollari”, scrivono i ricercatori.

Andando oltre la Bri ed i suoi dichiarati obiettivi, gli studiosi valutano in oltre un trilione di dollari l’impegno finanziario dei vari operatori cinesi all’estero, con una parte rilevante di questa attività – si stima 426 miliardi – concentrata nella massa asiatica. Di questi quasi 300 miliardi sono impegnati in progetti in corso di esecuzione in India, Pakistan e Bangladesh, che si candidano a diventare i mercati chiave della Cina. Mentre un’altra quota rilevante – 227 miliardi stimati – coinvolge i paesi MENA (Algeria, Bahrain, Gibuti, Egitto, Iran, Iraq, Israele, Giordania, Kuwait, Libano, Libia, Malta, Marocco, Oman, Qatar, Arabia Saudita, Siria, Tunisia, Emirati Arabi Uniti, Palestina e Yemen, Etiopia e Sudan). I paesi dell’Africa sub Sahariana vedono coinvolte risorse per 240 miliardi.

Europa e America Latina muovono meno risorse, rispettivamente 71,1 e 72,7 miliardi. Ma non c’è da stupirsi. L’Europa è già ben dotata di infrastrutture alle quali è sufficiente connettersi, creando magari le maglie di nuovi collegamenti funzionali ai disegni di Pechino. Ne abbiamo osservato alcuni. Quanto all’America Latina, la presenza del capitale cinese in quell’area ha una logica di mero posizionamento strategico, in un continente pervaso dalla vecchia dottrina Monroe “allargata”. Ciò non ha impedito alla Cina di invitare l’America Latina a partecipare alla BRI.

Osservando anche l’entità dei flussi finanziari scopriamo un’altra cosa: si intensificano. Nel tempo sono passati dai 65 miliardi l’anno del 2014 ai 118 del 2018. “Supponendo che tutti i progetti procedano come previsto – spiegano gli autori del rapporto – e che la spesa sia distribuita uniformemente durante la fase di esecuzione dei progetti, si stima che la spesa salirà a 133,4 miliardi di dollari nel 2019 prima di raggiungere i 162,9 miliardi nel 2020”.

Si prevede inoltre che come nel 2018 è stato il sud est asiatico il grande protagonista delle attenzioni cinesi, quest’anno sarà l’Africa sub sahariana, con una spesa prevista di oltre 31 miliardi solo nel 2019, seguiti dai 29,7 miliardi impiegati per Medio Oriente e Nord Africa e i 25 miliardi per il Sud Est asiatico.

Nell’Africa Sub Sahariana il capitale cinese è coinvolto nel 41% delle infrastrutture regionali, se guardiamo al valore degli investimenti, con punte del 74% quando si parla di aeroporti e del 63% relativamente a marina e porti. I contractor cinesi hanno rilevanti interessi in strade e ferrovie in Australia, per il tramite del John Holland Group, controllata al 100% dalla China Communication Construction Company (CCCC). Ed è qui, nell’estremo lembo della globalizzazione statunitense che inizia la sfida della nascente globalizzazione (russo) cinese.

(4/segue)

Puntata precedente: Le nuove strade dell’Impero

A Gibuti, crocevia degli scambi globali, fra i due litiganti gode la Cina

Se in fin dei conti fosse solo una questione di interessi economici potremmo prestar fede al ministro delle finanze di Gibuti, Moussa Dawaleh, che di recente ha spiegato con parole assai chiare la ragione per la quale il piccolo stato incistato sopra il Corno D’Africa, al centro di rotte commerciali strategiche innanzitutto per il traffico di risorse energetiche, ha visto espandersi massicciamente la presenza di capitale cinese nei suoi investimenti infrastrutturali, ambiziosi quanto rilevanti. Osservare quello che sta succedendo laggiù ci consente di completare la breve ricognizione che abbiamo fatto in questi giorni discorrendo di alcuni snodi strategici della complessa partita che si sta giocando nel quadrante euroasiatico col pretesto di alcuni investimenti portuali, segnatamente a Gwadar, in Pakistan, e a Chabahar, in Iran.

Gibuti, quindi. “Non non diamo esclusive a nessuno – ha detto il ministro africano -. Non si tratta di opporre la Cina all’Occidente. Se riuscirò a ottenere dall’Occidente le stesse condizioni che sto ottenendo da Eximbank (istituzione cinese, ndr), sarò più che felice. Se posso ottenere di meglio di quello che la Cina ci offre, sarò ancora più felice. Non devo solo trattare con un partner. Ma per adesso è la Cina quella che rischia. Forse alcuni amici non sono felici di sentirlo, ma questa è la realtà”. Questione puramente economica, quindi. La Cina presta a Gibuti i denari di cui abbisogna per nutrire la sua fame di infrastrutture, più che comprensibile per un’economia che secondo alcune stime ricava il 70% della sua produzione dal trasporto di merci e quindi dalla logistica, e tanto basta. Se l’Ue, l’America, o i rissosi paesi che ruotano attorno al Corno D’Africa vorranno o sapranno fare di meglio, tanto meglio per Gibuti. Fine della storia.

Ma che non sia così semplice – che non si tratti solo di traffico di denaro ma di influenza politica – lo si capisce anche solo osservando il ritaglio di mondo dove gravita Gibuti che ha la ventura di affacciarsi sullo stretto di Bab el Mandeb, assai noto agli osservatori di cose energetiche per la semplice ragione che ci passano le petroliere (e non solo) destinate a passare il canale di Suez.

Ai quelli meno addentro basterà sapere che ogni giorno quasi cinque milioni di barili passano da qui, circa il 5% del petrolio trasportato per mare (dati 2016) proprio di fronte allo Yemen dove da anni deflagra un conflitto sanguinoso e dimenticato. Circa 1,5 milioni di barili, prodotti in gran parte in Arabia Saudita, Kuwait, Emirati Arabi e Oman, vengono trasportati da Ain Sukhna sul Mar Rosso a Sidi Kerir sul Mediterraneo nel nord dell’Egitto attraverso l’oleodotto Sumed. La maggior parte delle importazioni europee di petrolio greggio dal Medio Oriente arriva attraverso questo oleodotto. Oltre ad essere una via di transito fondamentale per il petrolio, lo stretto di Bab-el-Mandeb, che sbocca sul Golfo di Aden, è anche fondamentale per le raffinerie del Mar Rosso dell’Arabia Saudita, che sono in gran parte rifornite di greggio prodotto nella regione orientale del Golfo Persico. Raffinerie che adesso, come abbiamo visto, i Sauditi vogliono installare anche a Gwadar,

Tutto questo basta a spiegare perché le vicende di Gibuti stiano molto a cuore al mondo mediorientale. Non solo all’Arabia Saudita e non solo per questioni di petrolio. Nel febbraio scorso è scaduta la concessione che Gibuti aveva rilasciato nel 2006 alla DP World, una compagnia pubblica di Dubai posseduta dallo stato, che lavora come operatore portuale e che in tutto questo tempo ha gestito il container terminal di Gibuti di Doraleh (Doraleh container terminal, DCT), che si trova proprio vicino allo stretto di Bab al Mandeb. Notizia che sarebbe rimasta confinata nella nicchia degli specialisti se non fosse che, poco dopo l’interruzione unilaterale della partnership, il posto della compagnia degli Emirati Arabi Uniti è stato preso da una compagnia cinese, la China Merchants Port Holdings (CMPH), la stessa compagnia che gestisce un porto che lo Sri Lanka ha ceduto alla Cina come pagamento di debiti rimasti insoluti.

La scelta della compagnia cinese come operatore della DCT si spiega anche con la circostanza che la CMPH ha pagato 185 milioni di dollari e possiede il 23,5% della Port de Djibouti SA (PDSA), la compagnia che gestisce il porto di Gibuti che è a sua volta la maggiore azionista della DCT. I cinesi, peraltro, sono notevolmente impegnati economicamente in altre iniziative che coinvolgono Gibuti, fra i quali lo sviluppo infrastrutturale di una zona di libero scambio, il nuovo porto multiservizi e persino una ferrovia che collega Gibuti con l’Etiopia, in particolare con Addis Abeba, costata centinaia di milioni che nessun altro finanziatore voleva spendere per dotare l’area di un collegamento considerato strategico per quanto dispendioso. La Cina ha investito anche per finanziare un acquedotto. Complessivamente per i vari progetti che ha in corso di sviluppo a Gibuti si calcola che la Cina abbia investito tramite le sue varie entità quasi due miliardi di dollari che si aggiungono ai già corposi investimenti che la Cina ha fatto in Africa negli ultimi anni.

Il fatto rilevante è che l’ascesa cinese a Gibuti si inserisce in uno scenario assai complesso dove si confrontano antiche rivalità che coinvolgono i paesi arabi dell’area. Basta ricordare il duro confronto che oppone dal 2017 quattro stati che insistono nell’area – Egitto, Arabia Saudita, Emirati Arabi e Bahrein – con il Qatar, accusato di terrorismo, che si è aggravata dopo che quest’ultimo si è avvicinato all’Iran, storico avversario dei Sauditi. La tensione è salita fino al punto che di recente il Qatar ha annunciato la sua uscita dall’Opec dopo una permanenza di decenni motivando la decisione con la scelta di concentrare i propri sforzi produttivi sul gas. Con la conseguenza che Qatar e Arabia Saudita si trovano a esser avversari e a dover condividere una porzione di territorio – la via marittima che collega il Mar Rosso ai mercati europei e al Nord America diventata sempre più instabile. Se all’equazione si aggiunge la Turchia, che è una buona amica del Qatar, che investe massicciamente in Somalia e gioca un ruolo di importanza crescente nell’equilibrio della regione (si pensi alla crisi siriana), ecco che lo scenario diventa improvvisamente favorevole all’arrivo di un terzo che si inserisca a vantaggio proprio fra i litiganti. La Cina appunto.

Il piccolo Gibuti e la grande Cina sembra il titolo di una storia destinata a finire male per gli africani, che molti osservatori temono possano finire nella trappola del debito. Ossia la tagliola finanziaria nascosta dietro la Belt and Road initiative di Pechino che i detrattori dei cinesi usano come argomento costante nelle loro analisi. Prestare ai paesi bisognosi e poi obbligarli a cedere qualcosa. Accuse che Pechino ha sempre respinto con sdegno. Ma lo scenario di Gibuti è molto composito, come si vede, e anche i paesi occidentali fanno la loro parte. La posizione geografica del piccolo stato africano spiega perché al suo interno ospiti basi militari americane, francesi, saudite, giapponesi e, ovviamente cinesi. C’è persino l’unica base militare italiana all’estero. Tutti questi mondi convivono nello spazio ristretto e instabile di uno staterello costiero che insiste lungo una grande arteria della globalizzazione. Questo piccolo miracolo – finché dura – mostra che il piccolo Gibuti forse ha il talento di avere tanti amici, come diceva il suo ministro del dell’economia e di riuscire persino a convincerli a finanziare le sue manie di grandezza. Ma dovrebbe ricordare il proverbio che insegna a temere gli amici assai più dei nemici. E dovrebbe farlo in fretta.

Fabbriche, porti e yuan: l’amichevole conquista cinese dell’Africa

Il secolo cinese trova nell’Africa il laboratorio ideale per sperimentare insieme la sua visione globale e le sue tentazioni egemoniche, replicando con ciò i comportamenti che il ricco Occidente esercita laggiù da secoli. L’Africa, con la sua immensità ricca di risorse e uomini, rimane terra di conquista pure se nella forma assai più presentabile del soft power del quale i cinesi ormai sono diventati esperti manovratori. E’ noto da anni lo sforzo economico e finanziario che la Cina ha dedicato all’Africa, e finalmente, dopo quasi un decennio di politiche di investimenti esteri, il quadro comincia a diventare chiaro. La Cina molto silenziosamente ma con grande efficacia, sta conducendo una campagna “amichevole” di conquista dell’Africa.

L’ultima notizia, che aggiunge un dettaglio importante alla nostra rappresentazione, è arrivata a fine maggio dalla capitale dello Zimbawe, dove i rappresentanti delle banche centrali e del governo di 14 paesi africani si sono riuniti per discutere della possibilità di utilizzare lo yuan nelle riserve ufficiali. Il forum, ospitato nel seno del MENFI (Macroeconomic and Financial Management Institute of Eastern and Southern Africa) aveva come tema l’evoluzione dei trend nella gestione della riserve sovrane ed era di particolare interesse nel momento in cui molte nazione africane, che detengono riserve per lo più denominate in dollari, si trovano a dover gestire al tempo stesso debiti crescenti denominati in yuan, cumulati grazie alla “generosità” degli investitori cinesi. Per questi paesi avrebbe perfettamente senso iniziare a usare valuta cinese nelle riserve per ripagare direttamente i prestiti di Pechino, anche considerando la circostanza che la valuta cinese denomina molti scambi commerciali fra Africa e Cina.

Se a ciò si aggiunge che lo yuan è stato inserito ormai da anni all’interno del basket degli diritti speciali di prelievo (SDR), ossia l’unità di conto gestita dal Fmi, l’idea dei banchieri centrali africani è perfettamente coerente nei confronti di un mondo che sta cambiando tanto profondamente quanto velocemente e che ormai parla sempre più la lingua dei mandarini. Per la cronaca, il MENFI è un istituto al quale partecipano 14 paesi africani, e in particolare Angola, Botswana, Burundi, Kenya, Lesotho, Malawi, Mozambico, Namibia, Rwanda, Swaziland, Tanzania, Uganda, Zambia e Zimbabwe. Tutti paesi che, chi più chi meno, hanno stretto legami profondissimi con la Cina grazie a una politica molto pervasiva di prestiti portati avanti dai cinesi.

Il caso dell’Angola è forse il più rappresentativo. Qualche tempo fa un giornale angolano titolò sul fatto che ogni abitante del paese avesse un debito di 745 dollari con la Cina. L’Angola ha una lunga consuetudine con i prestiti cinesi, che dura da oltre trent’anni. Si calcola che da allora nel paese siano arrivati ameno 60 miliardi di dollari. L’Angola peraltro è il secondo produttore di petrolio in Africa, un grande esportatore di greggio verso la Cina e potrebbe persino essere uno dei primi paesi a vendere il proprio prodotto direttamente in yuan, approfittando del lancio, il 26 marzo scorso, del primo future in valuta cinese. Ciò specie considerando che sempre l’Angola ha firmato, nell’agosto 2015, un accordo con la Cina per consentire l’uso reciproco delle due valute nei loro scambi commerciali.

Più di recente, a marzo scorso la Nigeria ha firmato un accordo per scambiare valuta con la Cina per un ammontare da 2,4 miliardi di dollari, replicando quanto aveva fatto nel 2016 il Sudafrica, che aveva lanciato una piattaforma di scambio iniziale tra yuan e rand, per facilitare gli scambi tra le due valute. In precedenza, il Ghana, la Nigeria, le Mauritius e lo Zimbabwe avevano accettato lo yuan per i pagamenti e le riserve, e la banca centrale nigeriana avrebbe già più del 10% delle sue riserve estere in valuta cinese.

Anche il Kenya annovera la Cina fra i suoi grandi creditori esteri. Alcune fonti stimano che che circa il 55% del suo debito estero estero sia nei confronti di Pechino. E in situazioni analoga si trovano anche altri grandi paesi africani come l’Uganda, il Mozambico e la Tanzania. Tutti questi paesi hanno trovato nella capienza finanziaria cinese una fonte straordinaria che certo non è rimasta senza contropartita. In alcuni casi in cambio dei prestiti sono state fatte concessioni, ad esempio concessioni minerarie in Congo per lo sfruttamento di rame e cobalto. Altre volte i cinesi hanno assunto la proprietà delle infrastrutture che hanno contributo a costruire, ossia porti e ferrovie. Altre volte i cinesi hanno ottenuto di poter delocalizzare in Africa le loro fabbriche replicando laggiù quello che l’Occidente ha fatto in Cina. Tutto ciò ha consentito a Pechino non solo di poter fare leva su un’economia debole ma ricca di risorse, ma anche di costruire avamposti commerciali lungo un continente altamente strategico per le rotte marittime che la Cina deve percorrere per portare le sue merci in Occidente.

Per avere un’idea dell’ordine di grandezza economico con il quale è stata portata avanti la politica cinese, perfettamente coerente con la logica del colonialismo 2.0 che caratterizza il nostro tempo, è molto istruttivo leggere una ricerca pubblicata dal  Russian International Affairs Council (RIAC) secondo la quale il totale delle risorse investite dai cinesi in Africa aveva raggiunto la cifra di 220 miliardi di dollari alla fine del 2014, fra investimenti diretti e di portafoglio.

Nel 2017, sempre secondo la nostra ricerca, la Cina era diventata il massimo prestatore ai paesi africani con un ammontare di prestiti che sfiorava i 100 miliardi, e di conseguenza un grande partner per mezzo continente, dal Marocco, al Chad fino al Camerun. Gli investimenti cinesi hanno trasformato l’Africa in una grande fabbrica cinese che secondo alcuni osservatori, nel 2017, ha prodotto per la “madrepatria” 11 mila camion, 300 mila condizionatori, 540 mila frigoriferi, 390 mila televisioni e 1,6 milioni di tonnellate di cemento. E questi risultati sono il frutto degli appena 3,2 miliardi di investimenti del China-Africa Development Fund. Al tempo stesso la Cina negli ultimi dieci anni ha contribuito alla costruzione di oltre 100 zone industriali in Africa, il 40% delle quali sono divenute operative, alla costruzione di 5.756 km di ferrovie, 4.335 km di autostrade, nove porti (fra i quali spicca quello di Gibuti), 14 aeroporti, 34 centrali elettriche e circa 1.000 piccole centrale idroelettriche. E questo ci consente anche di capire perché l’Africa sia entrata pienamente nella visione della Belt and road initiave cinese sin dall’inizio.

E’ sicuramente vero, come scrivono i media cinesi, che “la cooperazione fra Cina e Africa è fra due fratelli”. Vero almeno quanto il fatto che esiste Babbo Natale.