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Cartolina: Naufragare dolcemente nel mare della liquidità


Dice la Bis che il credito in dollari ai prenditori non americani è cresciuto ancora del 5 per cento su base annua, a settembre 2019, portandosi alla notevole cifra di 12,1 trilioni di dollari, quindi 12.100 miliardi. Questa pletora di debitori trova conveniente, evidentemente, prendere a prestito in valuta statunitense, pure se ciò li espone ai capricci della banca centrale e del Tesoro americani. E ovviamente una buona parte di costoro sono paesi emergenti, che ormai esprimono quasi un quarto di questa montagna di debiti. Costoro navigano spediti su un mare di liquidità in valuta estera, ben sapendo – perché ormai è chiaro a tutti – che covano un naufragio. Però silenzioso, e quindi dolce.

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I mercati iniziano a rimanere a secco


Ancora col fiatone, dopo il lungo viaggio sotto il mare della liquidità, mi trovo di fronte all’ultima quaterly review della Bis che esibisce un articolo dal titolo irresistibile: “Cambia la marea – liquidità di mercato e market-making sugli strumenti a reddito fisso“, firmato da Ingo Fender e Ulf Lewrick.

Lo so che suona esotico, ma il riferimento al cambiamento della marea è perfettamente calzante. Stiamo navigando, più o meno a vista, sull’acqua limacciosa di un credito drogato e i più avveduti non lesinano gli allarmi. Il fragile vascello dell’economia internazionale prosegue la sua traversata lungo il territorio incognito dei tassi negativi, senza mappe utili a evitarne i rischi, guidata dal miraggio di una crescita che prima o poi dovrà arrivare, dicono tutti, sperando nel frattempo che non accada nulla di brutto.

In questa marea montante di incertezza che alimenta la volatilità, sappiamo di certo solo che sotto la marea cangiante si nascondono pericolose secche capaci di farci incagliare, e se ne iniziano a sospettare la fisionomia scrutando nei recessi dei mercati a reddito fisso, come fanno anche gli autori della Bis.

Lavoro meritorio, quindi, utile se non altro a capire cosa accada nei fondali del nostro vivere economico.

Leggendo scopro che è ormai palese “una crescente fragilità e divergenza delle condizioni di liquidità nei diversi mercati del reddito fisso”. Ciò è determinato dal fatto che “l’attività di market-making si sta concentrando sui titoli più liquidi, a scapito di quelli meno liquidi”.

“Questo cambiamento – sottolineano – riflette forze congiunturali (come mutamenti nella propensione al rischio) e strutturali (quali una gestione dei rischi o una regolamentazione più stringenti) che incidono sia sull’offerta sia sulla domanda dei servizi di market-making”.

Sappiamo già che i market makers sono degli intermediari specializzati che agiscono di volta in volta come piazzisti di asset o come compratori/venditori per equilibrare i prezzi delle contrattazioni e che, così facendo, contribuiscono a mantenere la liquidità dei titoli che vengono scambiati sui mercati.

Abbiamo anche visto che tali entità, dopo la crisi del 2008, hanno iniziato a cambiare il loro modo di lavorare. “Questi cambiamenti – spiega l’articolo – i loro driver e l’impatto potenziale che possono avere sui mercati a reddito fisso sono particolarmente interessanti per i policymakers, vista la rilevanza che questi mercati hanno per la stabilità finanziaria”.

Ricordo che i mercati a reddito fisso sono quelli dove si scambiano, fra le altre cose, le obbligazioni sovrane.

Una breve premessa permetterà di apprezzare meglio il senso dell’analisi.

I mercati sono liquidi “quando gli investitori possono vendere o comprare un asset in breve tempo, al costo minore e a un prezzo vicino a quello corrente di mercato”. In sostanza un titolo che abbiamo in mano può essere considerato liquido quando in ogni momento può essere trasformato in denaro contante.

La liquidità, quindi, è ciò che rende i mercati finanziari ciò che sono: ossia casseforti di denaro in potenza che può diventare atto, come direbbero i filosofi, in qualsiasi momento.

Tale miracolo dipende da diversi fattori, che includono la struttura del mercato e la natura dell’asset oggetto delle transazioni. Ma dipende soprattutto dall’aria che tira.

Gli autori distinguono, e non a caso, fra tempi normali e tempi in cui i mercati sono sotto stress. Lo stress può essere determinato da tanti fattori: una brutta notizia o in generale tutto ciò che può provocare una crisi di fiducia. Ma in ogni caso ciò che ne risulta è che la gestione della liquidità tende a complicarsi.

D’altronde non potrebbe essere diversamente: i market makers non vivono sulla luna. Lo stress riguarda, al contrario, innanzitutto loro, che sono i più esposti più degli altri alle intemperie del mercato.

Il mercato dei bond, infatti, è relativamente eterogeneo e ciò riduce le possibilità che i venditori e i compratori si incontrino. Per tale ragione, e in particolare nel mercato dei bond corporate, il ruolo dei market maker è particolarmente rilevante.

Costoro favoriscono l’incontro fra le controparti, o lavorando come agenti dei titoli in vendita o pperando direttamente come compratori e venditori. In tal modo assicurano la liquidità del titolo facilitandone la formazione del prezzo.

Così facendo queste entità si assumono evidentemente dei rischi, a fronte dei quali lucrano profitti che derivano da due canali: quello derivante dall’attività di facilitazione del trading, ossia gli spread che l’intermediario spunta fra domanda e offerta dei partecipanti al mercato, e quello derivante dal profitto di rivalutazione degli asset detenuti direttamente.

Ma ciò implica che la tolleranza al rischio dei market maker sia capace di determinare la liquidità dei titoli. Per dirla in altre parole se un market maker giudica troppo rischioso trattare o immagazzinare un titolo, quest’ultimo resta illiquido, ossia il venditore rimane a secco, con un pezzo di carta in mano che non vuole nessuno.

Questo enorme potere spiega perché i regolatori osservino con crescente attenzione il comportamento dei market maker.

Non che sia facile capirlo. Non ci sono strumenti o dati disponibili capaci di elaborare una risposta chiara. Bisogna affidarsi alla market intelligence, che è una modalità di ricerca poco più accurata dei rumors.

Bene, da ciò che hanno orecchiato gli autori dell’articolo, la sensazione  è che i market maker si stiano concentrando sulle obbligazioni più liquide e nei mercati che le scambiano, lasciando sempre più a secco quelli meno liquidi. Insomma: sono sempre meno disposti a correre rischi che non siano adeguatamente remunerati.

In particolare, la liquidità è migliorata notevolmente nel mercato dei bond sovrani, ossia quelli governativi.

Le analisi metriche svolti su questi asset denominati in dollari o euro mostrano che gli spread fra domanda e offerta, quindi una misura efficace del grado di liquidità, sono tornati ai livelli pre crisi. Lo stesso è accaduto con i volumi delle transazione e il loro valore medio.

Più difficile ottenere dati simili per altri tipi di bond, come quelli corporate, solitamente meno liquidi di quelli governativi.

Le analisi lasciano sospettare, tuttavia, che la posizione di debolezza di questi asset sia ulteriormente peggiorata. Bisogna capire perché. “Se i bond corporate – spiegano – sono diventati meno liquidi non è dipeso dai volumi di trading più bassi. Piuttosto, i volumi di scambio non hanno tenuto il passo con l’aumento delle emissioni di debito, riflettendo in particolare le condizioni di finanziamento favorevoli molte economie avanzate ed emergenti“.

Provo a dirlo con parole mie: i corporate bond sono diventati meno liquidi perché ne sono stati emessi troppi, più di quanto la domanda, che pure era guidata dalla fame di rendimento, fosse disposta ad assorbirne. Ancora una volta allentare la politica monetaria ha avuto contemporaneamente l’effetto di facilitare l’emissione di debito rendendo al contempo più appetibile quello più rischioso, e insieme di raffreddare gli entusiasmi dei compratori, che hanno finito, complici i market maker, con l’orientarsi verso il debito sovrano.

I grafici mostrano che dal 2006 al 2015 il debito totale corporate è crescito da circa cinque trilioni di dollari a più di otto, con una larga parte, oltre il 15% di provenienza dai paesi emergenti. Ma non sappiamo quanto sia liquido, questo debito.

La market intelligence ha confermato tuttavia che tale “biforcazione” nel mercato dei bond si sta approfondendo. Molti partecipanti al mercato hanno evidenziato come trattare ampi quantitativi di bond corporate sta diventando via via più difficile. Come esempio viene citato quello del costante declinare della vendita dei cosiddetti Block trades, ossia grossi quantitativi di obbligazioni corporate americane con investment grade.

Come se non bastasse, anche al suo interno il mercato dei corporate bond si sta segmentando. Le contrattazioni si concentrano su pochi titoli liquidi.

“L’aumento della biforcazione – osserva l’articolo – riflette i cambiamenti nel comportamento dei market-maker
e dei loro clienti, sia nell’offerta che nella domanda di servizi di market making. Dal lato dell’offerta, una tendenza evidente è che i market makers stanno concentrandosi su attività che richiedono meno capitale e meno propensione al rischio. In linea con questa tendenza, in molte giurisdizioni le banche dicono che stanno assegnando meno capitale per le attività di market-making e stanno limando i loro inventari, in particolare tagliando le attività meno liquide”.

A complicare il quadro, la considerazione che i comportamenti variano da paese a paese. “Negli Stati Uniti, la quota netta di debito corporate detenuto dagli intermediari, tra cui le cartolarizzazioni supportate da attività come il debito delle carta di credito, è diminuita drasticamente dal 2008. Per contro, le posizioni nette di titoli del Tesoro sono aumentate durante la crisi finanziaria e ora sono diventate positive, in quanto gli intermediari hanno chiuso le posizioni corte (che salgono di valore quando il prezzo di un’attività scende) e hanno aumentato il possesso di obbligazioni”.

Le ragioni di questi comportamenti sono molteplici, e non sto qui ad elencarvele. Quello che interessa sono le conseguenze. E basta un po’ di buonsenso per immaginarle. Ci sono quelle microeconomiche, legate all’aumento dei costi che il concentrarsi delle transazioni provoca per chi emette debito nei segmenti più difficili. E poi ci sono quelle macro, ossia capire “come si comporteranno questi mercati sotto stress”.

Nessuno conosce il futuro, ovvio. Ma io ricordo bene come si comportarono i mercati sotto stress non più di sette anni fa e cosa successe alla liquidità che si pensava ottima e abbondante: evaporò in un attimo.

Sarà per questo che gli autori invitano le autorità a contribuire a dissipare quella che chiamano “l’illusione della liquidità”, ossia il sovrastimare – sbagliando – la liquidità del mercato.

Ma se togliamo al mercato l’illusione, cosa rimane?

Niente: resta a secco.

 

 

 

Ventimila leghe sotto i mari: Il paradosso della liquidità


Indosso il mio casco da palombaro e mi preparo a una di quelle immersioni a ventimila leghe sotto il mare dei mercati, scarso di fiato come sono e persino pauroso di confrontarmi col buio dei recessi dell’infrastruttura finanziaria. Mondo alieno, dove vivono e prosperano creature meravigliose e terrificanti, e dove la pressione atmosferica può schiacciarti in un istante, se solo provi a violare le regole non scritte della fisica finanziaria.

Mi convinco a far questo viaggio perché non mi spiego come sia possibile che l’abbondante liquidità del nostro tempo, generosamente provvista dalle banche centrali di tutto il mondo, abbia generato il paradosso che la liquidità di tanto in tanto evapori.

Ce n’è talmente tanta, di liquidità, che sparisce, come testimonia la ricca aneddotica di questi mesi e che un recente intervento di Chris Salmon, Executive Director Markets, della Bank of England (“Financial Market Volatility and Liquidity – a cautionary note”) mi permette di apprezzare in tutta la sua spaventosa pervasività.

Leggo e rileggo le otto pagine dello speech e mi convinco che la spiegazione sia assai semplice: la liquidità obbedisce anch’essa alle implacabili regole non scritte della fisica finanziaria. L’abbondanza la rende meno preziosa, e quindi sottile fino a diventar gassosa: volatile come una gigantesca bomba instabile. La fisica finanziaria, inoltre, insegna che la fragilità aumenta col crescere dell’euforia. E quanto a quest’ultima, le evidenze delle cronache ci mostrano con chiarezza come stia ormai ben oltre le stelle, pronta a tramutarsi in tedio.

Non ci sarebbe altro da aggiungere, a dirla tutta. Ma a che mi servirebbe un blog se non compiessi viaggi straordinari che altrimenti mi verrebbero preclusi? Che poi quel conta non è tanto conoscere la destinazione, di tale peregrinare, ma il viaggio stesso, assai istruttivo, che mi sembra giusto condividerle con voi.

Il viaggio comincia con un monito, che Salmon rivolge a se stesso prima ancora che al suo uditori: “Ci sono ragioni per essere cauti”, che mi sembra la perfetta epigrafe per salutare la mia immersione e che mi risuonerà nelle orecchie per tutta la durata del viaggio, con il suo corollario: “I recenti periodi di volatilità nei mercati finanziari suggeriscono che ci sono ragioni per essere cauti circa la robustezza della liquidità nel cuore dei mercati finanziari”.

Traduco l’originale core contenuto nella dichiarazione di Salmon con cuore, perché mi sembra più adatto a rappresentare l’organismo finanziario, che molti immaginano come freddo affastellarsi di numeri e procedure, come esso in effetti appare, ma che me pare somigli a una cosa vivente e come tale soggetto a malattia e morte, per quanto si tenda costamente a dimenticarlo.

Salmon inizia il suo racconto ricordando come alla metà dell’estate scorsa la volatilità nei mercati finanziari fosse eccezionalmente bassa, sia rispetto agli anni della crisi che al periodo che l’ha preceduta.

Tale circostanza viene spiegata con il basso livello di incertezza sugli andamenti macroeconomici e “le straordinarie politiche di allentamento delle banche centrali”. Le varie forward guidance, peraltro, avevano contribuito a consolidare negli operatori la convinzione che i tassi sarebbero rimasti breve a lungo, incentivando la loro naturale predisposizione alla ricerca di rendimenti, che a sua volta ha depresso la volatilità e compresso il premio del rischio “in un circolo auto-rinforzantesi”.

E tuttavia tale idilliaca situazione è stata pesantemente turbata da alcuni episodi di estrema volatilità che ha danneggiato la liquidità dei mercati. La volatilità implicita è  arrivata, in questi momenti, al livello pre-crisi .

“Abbiamo assistito – ricorda ancora – a movimenti molto grandi nei mercati finanziari negli ultimi sei mesi”. Il riferimento è a due eventi in qualche modo traumatici: la pubblicazione, il 15 di ottobre, dei dati sulle vendite al dettaglio negli Usa, più deboli del previsto, e la decisione della banca centrale svizzera di rimuovere il suo peg sull’euro del 15 gennaio scorso.

I due eventi hanno avuto diversi drivers, ma in comune hanno avuto che i mercati sono entrati in grave fibrillazione: le reazione a tali notizie è stata senza precedenti, per le conseguenze che ha avuto sull’equilibrio intra-day dei mercati.

In particolare, quando il 15 ottobre uscirono i dati Usa, il decennale americano vide schizzare il suo rendimento di 37 punti base entro la prima ora dalla diffusione della notizia, persino peggio di quanto accadde all’epoca del fallimento di Lehman.

Mi viene da pensare che di parecchio deve essere aumentata la paura degli operatori se un semplice dato macro è capace di far più danni del fallimento di una banca d’affari. Ma mi dico che questa deve essere la conseguenza di una sensibilità esasperata, cui la liquidità e le varie forward guidance devono aver esacerbato invece di lenirla. Quando si vive in tempi straordinari, come quelli dei vari QE, l’ordinario è capace di spaventare assai più di quanto dovrebbe.

Il secondo episodio, lo sganciamento del Franco svizzero dall’euro, condusse invece a un apprezzamento della moneta elvetica del 14%, ma nell’arco intraday, si raggiunse un apprezzamento superiore.

“Questi eventi – nota Salmon – possono implicare che un numero crescente di asset di mercato siano diventati più sensibili alle notizie, e quindi un dato shock può causare una maggiore volatilità”.

Alcune analisi statistiche confermano questa sensazione, fino a farla diventare un pattern che pare sia applicabile a una classe assai affollata di asset, fra i quali anche le quotazioni delle imprese americane in borsa. Ma soprattutto le rilevazioni mostrano che tali fibrillazioni hanno finito con l’avere effetto anche sul più delicato e portante mercato internazionale: quello dei titoli del Tesoro Usa.

Mi rassicurare la circostanza che “in entrambi i casi hanno agito forza stabilizzanti” che hanno riportato la normalità nei mercati. Ma mi rassicura meno osservare che siano gli stessi operatori di mercato, che hanno fatto fibrillare la volatilità, a ristabilire la normalità. Esattamente come accade a un bambino che fa i capricci, capace di piangere e poi ridere nell’arco di pochi minuti. L’idea che il mercato finanziario sia un pestifero neonato rende la mia immersione vagamente inquietante. Ma decido di fidarmi del mio inconsueto Virgilio inglese e provo ad andare ancora più a fondo.

In particolare mi convincono a farlo alcune domande che il banchiere rivolge a se stesso: che lezioni abbiamo imparato? Perché la liquidità e la volatilità si sono evolute in questo modo? E infine: e adesso?

Le condizioni macroeconomiche globali, risponde, non devono essere così chiare, anche a causa del brusco rovinarsi dei corsi petroliferi.

A tale confusione si è aggiunto, non necessariamente come una attenuante, l’attivismo delle banche centrali. Fino ad oggi 24 di loro hanno tagliato i tassi e adesso anche la Bce, insieme con Fed, BoE e la BoJ, li ha portati sostanzialmente interritorio negativo. “Tale decisioni hanno fatto aumentare gli interrogativi sulle modalità di funzionamento dei mercati quando i tassi negativi persistono alcuni anni”.

La combinazione delle incertezza macro e dell’azione delle banche centrali ha sortito come conseguenza che il pensiero degli operatori – tassi bassi ma positivi – sia ormai stato spinto verso una zona assai meno conosciuta dove la volatilità alberga come un ospite inatteso e indesiderato.

Mi accorgo che sono meno solo di quanto stimassi, in questo viaggio in terra incognita e oscura. Ma chissà perché tale compagnia m’inquieta anziché darmi sollievo.

E l’inquietudine aumenta quando leggo che per provare ad avere una spiegazione “dobbiamo guardare altrove” e che “il posto ovvio dove guardare è la struttura del mercato, visto che i mercati FICC (fixed income currency commodities) stanno andando verso considerevoli cambiamenti”.

Il primo cambiamento del quale Salmon ci informa è che “i market makers sono diventati più riluttanti a impiegare capitale nel warehousing risk”.

Iniziano a fischiarmi le orecchie. La pressione della fisica finanziaria sta diventando fastidiosa. Scorro mentalmente il mio vocabolario, largamente incompleto, e mi ricordo che il warehousing risk corrisponde a quella pratica che gli intermediari finanziari mettono in campo ogni qual volta comprano un asset in anticipo rispetto a quando sarà reso disponibile per il mercato, provvedendo alle risorse necessarie o con capitale proprio o, più frequentemente, emettendo debito. Ciò significa che fin quando l’asset non viene liquidato il rischio rimane nella disponibilità del market maker. Che, a quanto pare, è sempre meno disposto a correrlo.

“Alcuni hanno suggerito che ciò rifletta una combinazione di ridotta tolleranza al rischio e dell’impatto della nuova regolazione finanziaria”, ma quel che conta rilevare è che tale riluttanza ha provocato la concentrazione del lavoro nei mercati FICC in meno intemediari, che ha finito con l’amplificare i problemi di liquidità nei periodi di stress”.

Scorgo la fisionomia di fantastici mostri marini, mentre continuo la mia discesa lungo gli abissi della finanza contemporanea.

E ancora non sono neanche a metà del viaggio.

(1/segue)

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Il mondo nella trappola del debito (e della liquidità)


L’84esima relazione annuale della Bis (Bri, in italiano) arriva in una calda domenica di giugno a preparare un’estate resa ancor più ardente dall’impennata di alta pressione non tanto barometrica – che sarebbe pure tempo suo – ma finanziaria, che ha reso torrido il clima sui mercati internazionali.

Costoro, i mitici mercati, non paghi di aver raggiunto vette storiche, perfette quindi rappresentazioni della straordinarietà delle politiche monetarie che le hanno rese scalabili, ancora in questa metà del 2014 si segnalano per fame di rendimento e quindi di rischio, ignorando, colpevolmente o quasi, che tale appetito sia figlio illegittimo di tale straordinarietà.

Dare soldi gratis, insomma, gonfia di liquidità gli investitori e al tempo stesso abbassa i rendimenti. Con la conseguenza che i soldi gratis non rendono nulla, a meno di non rischiare l’osso del collo.

Ed è proprio su questo crinale, da dove s’intravede il precipizio di una drammatica riprezzatura degli asset, che l’economia mondiale assiste attonita alla sua altrettanto drammatica impennata del debito globale, cui si accompagna finora docile e rassicurante, un’ampia liquidità che le banche centrali promettono docile e abbondante anche in futuro, pur consapevoli come sono – la Bis, in quanto “banca centrale delle banche centrali”, è la principale voce della loro coscienza – che rischiano il collo anch’esse, e con loro gli Stati che le hanno create, qualora arrivasse un’altra recessione.

Sicché ha gioco facile la Bis a invocare una nuova bussola capace di orientare l’economia internazionale e quindi condurla fuori dalle secche del debito, ancora elevatissimo, e della liquidità, altrettanto abbondante e non a caso, che hanno intrappolato i mercati, ma sarebbe più giusto dire gli stati a questo punto, nella camicia di forza di una crescita anemica e spaventevole, perché s’intravede debole anche per gli anni a venire, quando la pressione demografica che grava sul ricco Occidente renderà periclitante la produttività e insieme esorbitanti i costi della sicurezza sociale. “Si parla addirittura di stagnazione secolare”, avverte la Bis, ormai preda della sindrome di Cassandra.

Che fare dunque?

Godersi i rendimenti finché ci sono, suggerisce l’esperienza, che nulla ha che vedere col buon senso. Perché dal crinale il precipizio si vede benissimo e sembra ricordarci il destino che attende noi tutti non appena l’euforia si trasformerà in depressione, con l’incertezza sul quando unica rimasta sul tappeto dell’analisi.

In alternativa rimane solo l’appello alle ormai mitiche riforme strutturali, laddove gli stati dovrebbero esser capaci di capire come sboccare il meccanismo della produttività ormai inceppato, senza peraltro spiegar bene, tale opzione, dove mai tutta questa riconquistata produttività dovrebbe sfogare il suo potenziale di crescita, atteso che poi, pure essendo assai produttivi, c’è sempre qualcuno che deve comprarle le nostre merci.

La risposta dal lato dell’offerta, suggerita dalla Bri, insomma, presuppone una rinnovata propensione al consumo globale, laddove finora, lo dice sempre la nostra Bis, le politiche fondate sulla domanda (a cominciare da quella pubblica) hanno sostanzialmente fallito il loro scopo esplicito – ossia far ripartire la crescita – servendo soltanto allo scopo implicito, ossia salvare le banche e il sistema finanziario, pure se a un costo esorbitante.

E questo è precisamente uno dei punti: il mondo sta sperimentando una terribile e pericolosa trappola del debito.

Il tanto decantato de-leveraging che così tante cronache affolla, a livello aggregato semplicemente non c’è stato. Anzi: i debiti sono aumentati. Sicché da una parte la Bis dice che bisogna smetterla di pensare di usare il debito come un volano della crescita, e dall’altro non può che prendere atto del fatto che non ci riusciamo.

Un bel grafico sommarizza con rara efficacia questa situazione.

Nel 2007 le economie avanzate avevano un livello di debiti (pubblici e privati insieme, escluse le banche) che quotava 135 trilioni di dollari, pari a circa il 250% del loro Pil. Nel 2010, a causa della crecsita di circa il 40% dei debiti pubblici, il totale dei debiti è arrivato a sfiorare il 270% del Pil, e lì è rimasto anche nel 2013.

Se guardiamo ai paesi emergenti, a fine 2007 i debiti superavano di poco i 60 trilioni, la metà circa dei quali concentrati nelle imprese non finanziarie, ma già nel 2010 arrivava ad 85 trilioni, con crescita di tutti i settori per superarli, in larga parte a causa della crescita del debito corporate a fine 2013, superando ormai ampiamente il 150% del loro Pil.

Se guardiamo al mondo nel suo complesso (Arabia Saudita, area dell’euro, Argentina, Australia, Brasile, Canada, Cina, Corea, Giappone, Hong Kong SAR, India, Indonesia, Malaysia, Messico, Polonia, Regno Unito, Repubblica Ceca, Russia, Singapore, Stati Uniti, Sudafrica, Turchia e Ungheria), i circa 110 trilioni di fine 2007 sono diventati i quasi 130 di fine 2010 e lì sono rimasti, ormai vicini al 250% del Pil.

In questa generale esplosoni di debiti, quasi ad aggravare le difficoltà di trovare una via di fuga dalla trappola, c’è anche la circostanza che le situazione sono molto diverse da paese a paese. Alcuni debiti sembrano insostenibili, specie pubblici, altri sembrano covare sotto cenere, pensate al caso cinese, altri ancora minacciano di esplodere in tutta la loro virulenza non appena il barometro finanziario cambierà segno.

Dopo l’estate arriva l’autunno, d’altronde.

E questo non serve che ce lo ricordi la Bis.

Leggi la relazione annuale della Bis in italiano

L’eurotrappola dell’illiquidità (e le altre)


Se non avete mai visto come può essiccarsi la liquidità in un mercato monetario, vi suggerisco di andare a vedere un grafico pubblicato a pagina 22 dell’ultimo bollettino della Bce, che monitora l’andamento dell’aggregato M3 nell’eurozona.

E’ una vertigine: l’aggregato che al picco dell’espansione cresceva a un ritmo del 12% (nel 2007) crolla letteralmente a zero fra dal 2008 in poi arrivando sotto zero nel 2009. L’anno orribile della liquidità europea.

Per capire la sostanza del problema, tuttavia, è necessaria un po’ di noiosa tecnica made in Bce.

Un aggregato monetario raccoglie un insieme di tecnologie di pagamento, quindi strumenti tramite i quali si possono regolare debiti e crediti. Dalle banconote alle cambiali, per essere ancora più chiari.

La teoria suddivide l’aggregato monetario in tre sottoaggregati M1, M2 e M3, ognuno dei quali include diverse tecnologie di pagamento.

L’aggregato M1 comprende le banconote e i depositi overnight, ossia i depositi effettuati nottetempo da una banca presso un’altra banca o presso la stessa Bce, che vengono remunerati al tasso overnight, che in Europa si chiama Eonia.

L’aggregato M2 si ottiene aggiungendo all’aggregato M1, ampliandolo, alcune tipologie di depositi a breve termine. In particolare i depositi con durata prestabilità fino a due anni, e i depositi rimborsabili con preavviso fino a tre mesi.

L’aggregato M3 si ottiene sommando all’aggregato M2, quindi anche stavolta ampliandolo, il valore degli strumenti negoziabili. Quindi cambiali, assegni, vaglia, e certificati di deposito.

L’aggregato M3, dunque, viene definito aggregato monetario ampio: qualunque sia forma di liquidità che si consideri, la trovate là dentro.

Capite, di conseguenza, perché le banche centrali monitorino costantemente quest’aggregato. Serve per sviluppare azioni di politica monetaria, come quelle che la Bce mise sul tappeto quando nell’anno orribile che abbiamo visto la liquidità si prosciugò.

Evento quantomai cataclismatico: per la finanza la liquidità è come l’aria. La mancanza di liquidità (ma anche gli eccessi dicono alcuni) ha effetti disastrosi perché viene a mancare una delle costituenti psicologiche del credito. Ossia che io possa, in qualunque momento, rientrare delle mie esposizioni appunto perché posso attingere al vasto mare della liquidità.

Faccio un esempio perché in realtà è molto semplice. Se io non credessi (credito, quindi fiducia) che la banca presso la quale ho aperto un conto corrente possa in ogni momento restituirmi i soldi che ho in deposito presso di lei, appunto perché credo che abbia la necessaria liquidità per soddisfare la mia richiesta, non le presterò mai i miei soldi.

Questo ragionamento vale a tutti i livello del mercato finanziario. Qualunque sia il tipo di attivo che ho in mano, deve soddisfare il requisito della liquidità, ossia deve potersi tramutare in qualunque momento in denaro sonante, perché abbia un valore. Sennò l’attivo finirà in una trappola mortale: la trappola dell’illiquidità, propedeutica, di solito, a una sua sostanziale distruzione di valore. Se nessuno vuole il titolo che ho in mano, vuol dire che non vale niente. E’ illiquido, quindi non ha un valore tale che possa essere trasferito perché ad esso non corrisponde nessun valore effettivo monetario.

Ciò spero spieghi perché a volte si legge sui giornali che la Bce, col suo operare negli ultimi anni, ha assicurato ai mercati liquidità sufficiente. Ossia ha evitato la trappola dell’illiquidità.

Però a volte per evitare una trappola si rischia di finire in un’altra. La più nota trappola della liquidità, ad esempio. Ossia il fatto che la gente non muova più la liquidità e lasci ferma laddove può sbloccarla più facilmente, con tutte le conseguenza, altrettanto distruttive che ciò ha sul credito. La trappola della liquidità, come quella dell’illiquidità, rivela una sostanziale mancanza di fiducia e si alimenta di solito quando aspettative sul livell0 dei prezzi sono calanti. Questo dice la teoria più o meno condivisa.

Curiosando fra gli andamenti degli aggregati monetari possiamo farci un’idea di come si stiano evolvendo gli animal spirit del mercato finanziario dell’eurozona, e quindi capire in quale razza di trappola ci siamo ficcati.

Ecco cosa scrive la Bce: “Il tasso di crescita sui dodici mesi di M3 si è stabilizzato in novembre 2013 all’1,5 per cento, dopo essersi collocato all’1,4 per cento in ottobre. I flussi di M3 sono stati ancora una volta determinati interamente dagli afflussi verso M1. Come già osservato in ottobre, anche in novembre tali afflussi riflettevano riallocazioni di portafoglio a favore dei depositi overnight, mentre gli altri depositi a breve termine e gli strumenti negoziabili hanno registrato deflussi dovuti alla ricerca di maggiori rendimenti e alla ridotta avversione al rischio”.

Provo a tradurre. La crescita dell’aggregato ampio procede stancamente (dal 12% del 2007 all’1,5 del 2013), a un livello persino più basso di come cresceva nel 1999. Il grosso della crescita dell’M3, peraltro, si deve all’incremento di M1, che in media pesa il 54,8% dell’aggregato ampio M3 e cresce a percentuali comprese fra il 6 e l’8% nel corso del 2013. Questo 54,8% si compone in parte di banconote (9,1%) e poi di depositi overnight (45,7). Quindi la crescita risicata dell’aggregato si basa in gran parte sulla liquidità pura o di brevissimo termine, che pesa oltre la metà dell’aggregato globale. In pratica: i soggetti economici, ma soprattutto le banche, non hanno ancora recuperato la fiducia piena, visto che preferiscono depositare over night più che dare credito all’economia.

Un sintomo di rischio trappola della liquidità.

Poi, sempre la Bce, dice che ci sono stati deflussi dai depositi di M2 e dagli strumenti negoziabili perché la ridotta avversione al rischio ha sollecitato la ricerca di maggiori rendimenti. Chi aveva un conto deposito o un certificato di deposito, per dire, l’ha smobilizzato, sottraendo liquidità all’aggregato globale, magari per comprarsi una bella obbligazione strutturata estera che offre il 10% (ignorando che equivale a un rischio maggiore) o un bel titolo azionario.

Tali deflussi non sono trascurabili: dal secondo trimestre del 2013 gli strumenti negoziabili sono decresciuti, nell’aggregato, per oltre il 15% a trimestre, mentre i deflussi da depositi si sono aggirati intorno al 5-6% a trimestre.

Questa massa di liquidità in cerca di rendimenti, quindi più soggetta a rischio, spinge il mercato nell’altra trappola, quella dell’illiquidità, visto che “i fondi vengono spostati verso attività meno liquide e più rischiose”, ossia  quelle che galleggiano sopra l’ampio mare della liquidità. Ma se la fiducia sparisse, come è già successo, molti di questi attivi extra M3 – pensate solo ai famosi Abs – finirebbero congelati in una delle tante spazzature finanziarie.

La prima valutazione che sorge osservando i dati, perciò, è che da un parte c’è un sacco di liquidità ancora congelata per la paura. Dall’altra che piano piano le persone stanno tornando ad avere voglia di rischiare. Ma sempre in una logica speculativa, ossia finanziaria.

E infatti le borse europee festeggiano. Quella di Milano è tornata per valore al pre 2011.

Se guardiamo infatti le principali controparti di M3, il termometro di come e quanto l’aggregato liquido diventi linfa vitale per l’economia, ossia credito, possiamo capire a cosa serva tutta questa liquidità.

Bene, tutti gli aggregati creditizi registrano varizioni negative, sia nel settore pubblico che in quello privato.

L’aggregato denominato credito ai residenti della zona euro mostra un rallentamento crescente. Dal +0,5% del quarto trimestre 2012, infatti, tale percentuale si è prima azzerata e poi è diventata negativa fino al -1,4% di novembre 2013.

Dal lato del settore pubblico, si è sofferta una cessione sostenuta dei titoli di stato dei paesi in difficoltà da parte delle banche e istituzioni finanziarie dell’eurozona. Lato privato, è crollata la quota di crediti alle famiglie e alle società non finanziarie.

Per dare un’idea della magnitudo di questo crollo basti osservare il grafico a pagina 26 del bollettino. Nel 2008 il credito al settore privato originava un flusso positivo per circa 1.400 miliardi di euro. A fine 2013 il flusso era diventato negativo per oltre 200 miliardi.

“Le dinamiche di crescita del credito restano moderate”, scrive pudicamente la Bce. E infatti le domande interne, pubbliche e private, dell’eurozona sono mezze morte.

Ecco, questa è un’altra trappola: quella dell’immobilità.

2013, l’onda lunga della liquidità fa trionfare gli inflazionisti


Sarà perché c’è il 13 di mezzo, ma l’anno che è arrivato si candida ad essere uno dei più fortunati per il mercato finanziario dall’inizio della Grande Crisi del 2007. Una serie di dati e alcune semplici considerazioni, inducono a credere che il 2013 sarà un anno di snodo nella grande tenzone che oppone il partito degli inflazionisti, guidato dai due big come Stati Uniti e Giappone, a quello dei deflazionisti, dove ormai (e chissà per quanto, visto che a settembre si vota) è rimasta solo la Germania con il suo piccolo portato di Nord-Europa. Mettiamoci pure che i mercati mordono il freno ormai da sei anni. Sono affamati e, per loro fortuna, la liquidità non è mai stata così abbondante e così a buon mercato.

L’ultima ciliegina sulla torta è arrivata pochi giorni fa, con la decisione di alleggerire le regole di Basilea per le banche. Le borse hanno reagito con un plauso (ossia rialzo) arrivando a battere record storici, come quello turco, che proprio lunedì 7 gennaio ha battuto il suo massimo di sempre, mentre pochi giorni fa la borsa americana rivedeva il livello del dicembre 2007. Si capisce perché in un recente report Goldman Sachs dica che il peggio è passato descrivendo il 2013 come un anno di transizione verso una nuova Europa più integrata.

Fa riflettere un altro dato. Nel 2012 le 88 banche centrali monitorate dal sito Central Bank hanno tagliato il costo del denato 127 volte a fronte di 31 operazioni di rialzo dei tassi. Il leit motiv è sempre lo stesso: la crisi contribuisce a tenere l’inflazione bassa, per cui non c’è da preoccuparsi del costo del denaro. Quello che la Fed ripete ormai da anni, e che il Giappone, che sta preparando un piano da cinque trilioni di yen da iniettare sul mercato, pratica da oltre un ventennio con risultati da classica trappola della liquidità. Sempre lunedì 7, la banca centrale rumena, che aveva abbassato il tasso di 75 punti nel 2012, ha deciso di tenerli fermi al 5,25%, con la premessa che garantirà adeguata liquidità alle banche. 

Questa settimana capiremo meglio se la tendenza delle banche centrali a rilassare ancora di più l’accesso al credito sarà confermata. Se, vale a dire, l’onda lunga della liquidità che ha iniziato a montare già all’indomani della crisi si infrangerà sul 2013 provocando un innalzamento generale dei corsi, azionari, ma anche immobiliari e delle commodity.

Il 10 gennaio, infatti, sono attese le decisioni sui tassi da parte della Banca centrale europea e della banca centrale inglese. La prima aveva già fatto filtrare nei mesi scorsi (anche questo fatto senza precedenti) che molti componenti del board avevano chiesto di portare i tassi allo 0,5% dallo 0,75 attuale. Ma sarà anche interessante vedere cosa faranno la banca centrale thailandese (tassi scesi da 3% al 2,75 in un anno) e quella polacca (dal 4,75 al 4,25) il 9 gennaio, o quella indonesiana (dal 6 al 5,75%) il 10, o quella kenyota (dal 18% all’11 sempre in un anno) e persino quella del Mozambico (dal 15 al 9,5%). Per non parlare di quella della Corea del Sud, che in un anno ha tagliato i tassi dal 3,25 al 2,75, e dovrà decidere cosa fare l’11 prossimo. Osservare il comportamento delle diverse banche centrali, insomma, fornirà indicazioni significative sulle aspettative di liquidità per i prossimi 12-24 mesi.  

Un calo generalizzato del costo del denaro, unito all’allentamento dei collaterali, implica con ragionevole certezza un aumento generalizzato dei prezzi non appena si riaccenda il motore della crescita. Spingere la crescita con l’allentamento monetario porta con sé la fastidiosa controindicazione che la crescita ristagna non appena si toglie la benzina del credito/debito facile (come insegna il caso giapponese). Ma nessuno ha intenzione di chiudere i rubinetti.

Il motivo è presto detto: il partito degli inflazionisti si avvia ormai ad avere la maggioranza assoluta, per non dire l’unanimità, potendo contare anche sul sostegno di grandi masse di popolazioni stanche di stringere la cinghia. Quando i debiti crescono a dismisura, l’unico modo per (non) pagarli è fare aumentare l’inflazione. Il prezzo lo pagheranno i titolari di redditi fissi e di rendite. E i grandi creditori.

Ma, come insegna la storia, se ne accorgeranno quando sarà troppo tardi.