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Lo smart working piace ma ormai è fuorimoda


La Bce tenta una ricognizione, inevitabilmente provvisoria, dell’andamento dello smart working nel mercato del lavoro europeo, ma il risultato è a dir poco controverso. Sembra evidente che molti lavoratori, specie quelli che impiegano più di un’ora per arrivare sul luogo di lavoro, vorrebbero lavorare sempre più da remoto, ma non è chiaro cosa ne pensino i datori di lavoro, visto che l’analisi proposte nell’ultimo bollettino della banca centrale ne fa solo una menzione indiretta, riferita alla percezione che hanno i dipendenti dell’orientamento dei loro datori. Un esercizio quantomeno avventuroso.

Rimane il fatto che “sembra tuttavia probabile che la domanda di lavoro da remoto resterà notevolmente più
elevata rispetto a prima dell’inizio della pandemia”, scrivono gli economisti della banca. Dal canto loro i lavoratori “esprimono un’elevata preferenza per il lavoro da casa e per molti di loro l’opzione preferita sembra essere quella di un modello ibrido che offra da due a quattro giorni a settimana di lavoro a distanza”. Ma come tutto questo si debba tramutare nella rivoluzione delle nostre consuetudini, pensiero di gran moda durante i vari lockdown, è davvero difficile comprenderlo.

La sensazione, che i dati si incaricheranno di smentire o confermare, è che si stia andando verso un modello di organizzazione del lavoro sostanzialmente simile al passato, con l’aggiunta di alcuni gradi di libertà, nel senso del lavoro da remoto, dei quali fruiranno solo alcune di categorie di lavoratori e in misura moderata.

Le imprese hanno sicuramente capito che risparmiano molto, facendo lavorare da casa, e dal canto loro i dipendenti hanno scoperto alcuni grandi vantaggi. Ma i problemi di contorno non sono banali. C’è un tema di economia di territorio, da non sottovalutare, che gode delle rendite prodotte dalla congestione verso le zone dove si concentrano le attività direzionali. Il tutto lascia ipotizzare che non toneremo indietro, sullo sviluppo dello smart working. Ma neanche andremo troppo avanti.

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Dopo il Covid. La radicalizzazione degli ultimi


E’ presto certamente per provare a indovinare come saremo una volta che la pandemia avrà smesso di scavare ferite sul nostro corpo sociale. Sappiamo già, tuttavia, che le tante cicatrici che s’iniziano a intravedere – e basta ricordare le ultime proteste di piazza – non lasciano presagire nulla di buono.

Ancora sfocata s’intravede il disegno di una società dove una parte della popolazione – i più garantiti – avrà accesso a servizi che miglioreranno la loro condizione di vita (si pensi allo smart working), mentre un’altra parte, ben superiore per quantità, avrà difficoltà ad averlo un lavoro.

Tutto ciò troverà i governi in una condizione finanziaria difficile, dovendo fare i conti con una montagna imponente di debiti da gestire. E se pure è doverono sperare che la ripresa economica che verrà sarà forte abbastanza da “rimangiarsi” questo debito con tutte le complicazioni che porta, sarebbe da stolti non valutare le conseguenze che due-tre anni di pandemia rischiano di avere su chi già faceva fatica a tirare avanti e che in questo periodo tormentato ha pure visto bloccarsi l’unico ascensore sociale che in qualche modo temperava le difficoltà offrendo la speranza di un futuro migliore: la scuola.

Questo spiega perché il Fmi abbia dedicato un capitolo del suo ultimo Fiscal monitor all’impatto che il Covid avrà sulle diseguaglianze sociali che – detta molto semplicemente – rischia di radicalizzare gli ultimi esponendo le nostre società a una “crescente polarizzazione” capace di condurre “all’erosione della fiducia nei governi” o a “disordini sociali”. “Questi fattori – conclude – complicano l’elaborazione di politiche efficaci e comportano rischi per la stabilità macroeconomica”, oltre che per “il funzionamento della società”.

E’ bene ricordare che le tensioni sociali non arrivano col Covid. Anche prima della pandemia la riscossa populista che ha attraversato l’Occidente dimostra che la febbre era già alta all’interno delle nostre città e fra i diversi paesi.

La pandemia, quindi, ha semplicemente accelerato, aggiungendo anche elementi ulteriori di divaricazione, una tendenza alla divergenza fra garantiti e non garantiti all’interno dei singoli paesi, visto che a livello internazionale la “disuguaglianza di reddito globale, misurata tra tutti gli individui, è diminuita costantemente”. Ma evidentemente per un precario europeo è una magra consolazione sapere che un contadino indiano sta meglio rispetto a vent’anni fa. La storia è ricca di esempi, a tal proposito.

A ciò si aggiunga che la diseguaglianza di ricchezza è ancora più profonda, rispetto a quella del reddito. E tanto basta, pure se la diseguaglianza fra i consumi è assai più contenuta, a motivare l’annoso dibattito che trova in queste sperequazioni il pretesto per l’atmosfera vagamente incendiaria che si respira nelle nostre società. La diseguaglianza, dice il Fondo, “crea differenze di opportunità e persistenti disparità nell’accesso ai servizi di base, come istruzione, assistenza sanitaria, elettricità, acqua e Internet”.

La pandemia ha approfondito queste differenze, penalizzando notevolmente i ceti più fragili. Secondo le stime del Fondo nel 2020 95 milioni di persone si sono aggiunte all’esercito di quelle in estrema povertà. Gli effetti sul mercato del lavoro sono stati notevoli, sia nei paesi emergenti che quelli avanzati, e sono stati più gravi per i lavoratori meno qualificati.

Negli Usa, racconta il Fondo, i lavoratori ad alto reddito hanno perso occupazione solo per alcune settimane, al contrario di quelli a basso reddito. I giovani sono stati quelli più penalizzati. E se si aggiunge al quadro il fatto che molti hanno subito gravi carenze nell’istruzione, si capisce perché il Fondo sottolinei il rischio che questi effetti siano destinati a perdurare anche a pandemia finita.

“Le disuguaglianze future potrebbero essere maggiori a causa della chiusura delle scuole, che ha portato a un’interruzione globale senza precedenti della formazione scolastica”, sottolinea il Fmi. E questo basta a definire il quadro del mondo che andremo ad abitare. E non sembra il migliore possibile.

Dopo il Covid: smart working triplicato e meno uffici in affitto


La banca centrale belga ha presentato i dati di una rilevazione condotta presso 3.884 aziende locali per saggiare umori e previsioni del settore produttivo in un momento in cui si iniziano a intravedere spiragli di luce dal tunnel della pandemia.

Aldilà delle previsioni economiche, l’aspetto più interessante riguarda il modo in cui le aziende immaginano la futura organizzazione del lavoro una volta che saremo usciti dall’emergenza sanitaria. In particolare, il tema trattato è quello del telelavoro che ormai è chiaro a tutti rimarrà una costante delle nostre vite per una serie di ragioni che riguardano sia i lavoratori che le imprese. Ciò che vale per il Belgio, da questo punto di vista, è un ottimo indicatore per provare a capire ciò che potrà accadere anche dalle nostre parti.

A marzo è emerso che il 32% dei lavoratori di queste imprese lavora esclusivamente presso il proprio domicilio, e il 15% parzialmente. L’uso del telelavoro è rimasto costante dopo che è divenuto obbligatorio a partire dallo scorso novembre. Il dato interessante è che le imprese si attendono che l’utilizzo di questo strumento triplicherà, rispetto al periodo pre Covid, anche dopo che la pandemia sarà terminata.

In pratica prima della pandemia il telelavoro in media non superava la mezza giornata a settimana, a fronte delle 2,1 attuali. Dopo si prevede che ognuno passerà in smart working in media 1,4 giorni a settimana, con differenza anche notevoli a seconda della zona di residenza e dell’occupazione.

Come si può osservare, la regione di Bruxelles, dove c’è una concentrazione maggiore di persone e di attività, è quella dove il ricorso al telelavoro sarà più elevato. Nelle Fiandre e in Vallonia il ricorso al telelavoro sarà la metà.

Quanto ai settori, quello dell’informazione e comunicazione saranno quelle con il numero di giornate più elevato, pari a 2,4 alla settimana, seguito dal bancario e assicurativo (2,1 giorni) e dai servizi di supporto (due giorni). Il ricorso a questo strumento per le imprese sarà in ragione diretta della loro dimensione. E questo avrà un impatto sensibile su un altro settore: quello immobiliare.

La previsione, infatti, è che diminuirà la superficie degli immobili locati da parte delle aziende che non ne sono proprietarie.

Anche qui, l’effetto più visibile è per Bruxelles, dove si stima che in media nei prossimi cinque anni la superficie degli affitti di uffici diminuirà del 22%, assai più che nelle Fiandre (-6%) e in Vallonia (-4%). Quanto ai settori, la diminuzione delle superfici locate sarà ovviamente più pronunciata laddove si ipotizza un ricorso crescente al telelavoro. Quindi informazione e comunicazione (-18%), i servizi di supporto (-18%) e banche e assicurazioni (-13%). Anche qui vale il principio che tale calo sarà in ragione diretta della dimensione dell’azienda.

C’è un altro aspetto che bisognerebbe considerare – ma di questo la rilevazione belga non parla – quando si parla degli effetti del telelavoro sul settore immobiliare e sull’economia in generale: l’effetto non solo sul settore direzionale, ma anche su quello commerciale. La diminuzione dei lavoratori in ufficio implica il calo della domanda di alcuni servizi – ad esempio quelli di ristorazione o ad esempio le palestre – vicini agli uffici. Queste aziende vedranno dimagrire il loro conto economico, e di conseguenza dovranno riprogrammare le loro attività, magari optando per spazi minori e quindi aggiungendo tensioni al mercato degli affitti. E infine c’è la ricaduta sul settore residenziale: più giorni a casa al lavoro rende necessario ripensare gli spazio di casa e quindi magari scegliere di ampliarli.

Ovviamente è presto per sapere come queste tendenze teoriche si trasformeranno in fatti economici. Ma è facile immaginare che quello che accadrà in Belgio accadrà anche altrove, vivendo immersi in un’economia fortemente globalizzata. Lo smart working cambierà molte consuetudini. Molti ne avranno vantaggi. Altri ne pagheranno il costo.

Cartolina. Smart working, smart income


Non è troppo lontano dal vero chi afferma che lo smart working è un privilegio da benestanti. Laddove il benessere, a prescindere dal semplice livello del reddito, che pure ha il suo peso relativo, dipende anche dal fatto che gli smart worker fanno lavori tipici in quelle che J.K. Galbraith chiamava società affluenti. Attività quindi che richiedono ingegno, istruzione di alto livello, competenze informatiche. Da cui derivano i redditi elevati. Detta semplicemente, i lavori “affluenti” sono naturalmente candidati a diventare smart, a differenza di quelli “poveri”, che richiedono e richiederanno sempre – si pensi a un barista o a un operaio – la presenza. Poi certo ci sono gli smart worker che non sono né particolarmente istruiti, né ingegnosi, ma che stanno a casa ugualmente pagati solo perché hanno un contratto e un datore di lavoro che glielo consente. Questi, più che ricchi, sono fortunati. E forse è anche meglio. Per loro.

La sfida europea dell’economia digitale


C’è un prima e un dopo Covid anche per l’economia digitale in Europa, dove ormai da anni si consuma una lunga transizione socio-economica verso modelli di sviluppo sempre più orientati verso le nuove tecnologie, che però deve fare i conti sia con carenze infrastrutturali, che con profonde frammentazioni quanto all’alfabetizzazione informatica dei cittadini. Senza dimenticare una carenza che più che essere economica è squisitamente geopolitica: l’Europa si trova a dipendere largamente dall’offerta di tecnologie estere, specialmente Usa.

Tutto ciò provoca effetti a cascata in tutta l’organizzazione economica, e spiega perché la Bce abbia ritenuto opportuno dedicare un lungo articolo all’economia digitale europea provando a fare un riassunto dello stato dell’arte e soprattutto delle prospettive future, anche alla luce degli sconvolgimenti provocati dalla pandemia a causa della quale “sia i produttori che i consumatori hanno acquisito più familiarità con le tecnologie digitali e se ne servono in misura maggiore”.

C’è quindi una maggiore domanda di economia digitale. Ma l’offerta è adeguata? Anche qui, il panorama è alquanto frammentato, come si può osservare guardando il peso specifico dell’economia digitale sul pil dei paesi Ue e poi lo stato dell’adozione delle tecnologie digitali fra i singoli paesi.

La buona notizia è che in tutti i paesi dell’area si è avuta una maggiore diffusione delle tecnologie digitali negli ultimi cinque anni (grafico 2). “L’indice di digitalizzazione dell’economia e della società è passato da meno di 40 nel 2015 a oltre 60 nel 2020”, scrive la Bce. Questo in media. Nella realtà, c’è molta eterogeneità fra i diversi paesi, che finisce col limitare l’impatto dell’economia digitale nell’area. Il nostro paese, come si può vedere, è quartultimo nella classifica. E questo basta ampiamente a spiegare perché le nostre iniziative pubbliche basate sull’hi tech – si pensi alle app di servizi pubblici prese d’assalto in occasione delle varie regalie del governo – finiscono sempre col generare frustrazione.

La notizia meno buona è che il peso specifico (grafico 1) dell’economia generale sul valore aggiunto per molti paesi è rimasto sostanzialmente fermo nel quinquennio, a differenza di quanto si osserva per gli Usa, che partivano già da un livello molto elevato. Questo divario non si è ridotto in questi anni e non si capisce come dovrebbe ridursi. Basti considerare che il solo settore dei servizi digitali, negli Usa, “fornisce un contributo pari all’intera economia digitale dell’area euro”, sottolinea la Banca. “In termini di dimensioni, negli Stati Uniti il settore manifatturiero legato alle tecnologie dell’informazione è circa il doppio rispetto a quello dell’area dell’euro ed è addirittura maggiore di quello di paesi specializzati in attività manifatturiere, come la Germania”.

Questa stagnazione la dice lunga sull’entità della sfida europea – non a caso nella narrazione sul Recovery fund è sempre presente il capitolo sullo sviluppo hi tech – e soprattutto offre una spiegazione – l’ennesima – del lungo declino della produttività europea, che ormai dura da un ventennio.

Secondo molti questo andamento dipende proprio dal ritardo europeo nel cogliere “i benefici offerti dalle Tecnologie dell’informazione e della comunicazione (TIC), soprattutto nel settore dei servizi di mercato”. La Bce ricorda che “negli Stati Uniti a metà degli anni novanta si sono verificati una forte spinta innovativa legata alle TIC, un marcato aumento della crescita della produttività totale dei fattori (PTF) nei settori che le producevano, nonché un notevole incremento dell’intensità di capitale TIC e una maggiore PTF nei settori in cui vi è un più ampio ricorso a tali tecnologie, che, per contro, sono state sviluppate e impiegate con ritardo dalle economie europee”.

Questo ritardo, secondo alcuni, dipende dalla “differenze tra le pratiche manageriali” – “le aziende statunitensi con sede nel Regno Unito hanno livelli di efficienza più alti” – e quindi molto devono alle pratiche socio-economiche del nostro continente. Come che sia, “nei fatti le imprese di frontiera hanno visto crescere rapidamente la propria produttività, mentre quelle meno avanzate hanno recuperato con lentezza”. Il problema è che queste aziende di frontiera sono in larga parte non europee.

E’ evidente perciò che l’Europa deve fare un sostanziale passo in avanti se vuole sfruttare i vantaggi offerti dalle nuove tecnologie (general purpose technology, GPT) che potrebbero anche rappresentare la soluzione per invertire il trend declinante della produttività, tenendo conto del fatto che creare l’ecosistema capace di far decollare queste tecnologie può richiedere anni, se non decenni.

Si tratta di una transizione che è anche culturale: si tratta di diffondere l’idea del vantaggio economico delle attività immateriali, (per esempio: ricerca e sviluppo, software, algoritmi, banche dati e relative analisi) in un mondo che da secoli conta asset materiali. I primi, a differenza dei secondi, sono difficili da computare, però le stime che girano parlano di un mercato dei dati europeo che ha un valore, nel 2019, di almeno 324 miliardi di euro.

E’ evidente che sviluppare la cultura di questi asset significa anche imparare a finanziare gli investimenti specifici. Attività per le quali servirebbe un mercato dei capitali efficiente senza doversi rivolgere necessariamente alle banche, che sono poco attrezzate per fare valutazioni di rischio in settori come questo.

Che l’Europa sia in grado di fare questo salto culturale è tutto da vedere. Non è certo un caso che l’hi tech sia nato e si sia sviluppato negli Usa. Di sicuro l’evoluzione del mercato del lavoro, che sembra premiare i soggetti che hanno a che con lavori complessi (grafico sotto), fa capire che il gioco vale la candela.

E anche le ricognizioni sul contributo dell’economia digitale alla crescita dell’occupazione lo confermano: “Le economie con un’incidenza più elevata di economia digitale sul valore aggiunto totale tendono a essere quelle con tassi di disoccupazione più bassi”, scrive la Bce.

Paradossalmente la spinta capace di far partire sul serio il processo di sviluppo dell’economia digitale in Europa potrebbe arrivare dalla pandemia. Si pensi all’aumento delle vendite on line, registrate nell’ultimo anno, o alla diffusione dello smart working.

Le crisi portano anche opportunità, com’è noto. Che poi si sappia coglierle è un’altra storia.

Lo smart working rimarrà fra noi anche dopo la pandemia


Un breve quanto interessante paper pubblicato dal NBER ci comunica un’informazione molto utile su una delle tante questioni nascoste che sottostanno allo smart working, che si è diffuso pandemicamente insieme al Covid. E’ bene appuntarsi, questa nota, perché domani, quando il virus sarà solo un brutto ricordo, è assai probabile che lo smart working rimarrà fra noi, in versione riveduta e corretta, quale lascito – uno dei migliori si spera – di questo periodo orribile.

D’altronde sarebbe difficile tornare indietro. La pandemia ha mostrato che molta parte della nostra vita negli uffici, non per tutti certo, ma per molti, può essere tranquillamente svolte fra le mura domestiche, con evidenti vantaggi per i lavoratori, che possono organizzare meglio le proprie settimane, l’ambiente, che potrà godere di minor congestioni, e, dulcis in fundo, per i datori di lavoro.

Questi ultimi sono di solito quelli meno considerati. La consuetudine ci fa credere che siano loro i primi – e gli unici – a rimetterci, rinunciando alla prestazione in presenza, che potremmo definire il prezzo minimo che un qualsiasi lavoratore paga in cambio del suo diritto alla retribuzione. Se il lavoratore viene pagato senza venire in ufficio è del tutto ovvio che un normale datore di lavoro coltivi qualche dubbio sulla convenienza di questo contratto.

Ma questo sentire, frutto di epoche lontane, ha senso economico solo in quelle prestazioni lavorative – che sono ancora un’ampia maggioranza – nelle quali la presenza è la pre-condizione della prestazione. Per le altre, pensate ad esempio al vasto mondo dei servizi, rinunciare alla presenza in ufficio può rivelarsi persino conveniente per i datori di lavoro, che si accorgono d’improvviso come sia migliorata la propria contabilità dei costi.

Ed ecco che il paper NBER, che quantifica i consumi elettrici delle famiglie e delle imprese durante il lockdown, ci viene in aiuto. Indagine limitata, ovviamente, e per giunta solo agli Stati Uniti. E tuttavia sufficiente a sollevare domande – chi paga il costo dello smart working – e questionare antiche consuetudini. Il grafico sotto è più che eloquente.

Volendo quantificare, lo studio ha calcolato che gli americani hanno speso sei miliardi di dollari in più di consumi elettrici nelle abitazioni nel periodo fra aprile e luglio del 2020, rispetto allo stesso periodo del 2019. Dal che si deduce che le imprese abbiano risparmiato questi soldi. Almeno in buona parte, visto che una quota non calcolabile di questi consumi li hanno effettuati gli americani rimasti a casa senza lavoro.

In percentuale, nel secondo quarto del 2020 i consumi residenziali sono aumentati del 10%, a fronte di una diminuzione del 12% di quelli commerciali e addirittura del 14 di quelli industriali. Nelle 10 grandi aree metropolitane, i consumi residenziali sono stati ancora più elevati, conseguenza della circostanza che la percentuale di smart worker è stata circa 10 punti percentuali più elevata della media nazionale. Ciò significa che le aziende di queste aree hanno risparmiato anche di più.

Questi risparmi vanno aggiungersi ad altri. Basta ricordare solo alcuni dei costi che un’azienda deve sostenere per la presenza in sede dei propri dipendenti. I buoni pasto, per fare un esempio minimo. L’affitto di una sede, come caso limite. E basta osservare gli andamenti del settore immobiliare commerciale e direzionale – collassato durante i lockdown a differenza di quello residenziale – per capire come questi costi non siano affatto banali.

Lo studio sottolinea anche un’altra questione che solleva qualche dubbio sulla correlazione positiva fra smart working e ambiente. “Lavorare e studiare da casa – spiega il paper – ha un costo, soprattutto per chi vive in grandi case di periferia. Queste case, in media, non sono efficienti dal punto di vista energetico come scuole ed uffici. Questa riduzione dell’efficienza energetica diurna controbilancia parzialmente il risparmio energetico associato alla riduzione del pendolarismo”.

A conti fatti, pure al netto dei costi, lavorare da casa piace ai lavoratori e conviene in qualche modo pure alle imprese. L’ambiente magari ne gioverà meno, ma non ha mai avuto voce in capitolo. Queste poche osservazioni rafforzano, se possibile, il ragionevole convincimento che alla fine della pandemia lo smart working resterà fra noi.

Scomode verità nascoste dietro lo Smart Working


Ciò che tutti sanno, ma che si tende a dimenticare, è che la scelta dello Smart Working è derivata dall’esigenza di contrastare la pandemia non certo da una improvvisa e miracolosa maturazione del nostro mercato del lavoro. Detto altrimenti, milioni di persone sono state chiuse in casa ben sapendo che non potevano davvero lavorare, pure se sarebbero comunque state pagate normalmente.

Molti hanno voluto raccontare, magari credendoci, che lavorare da casa avrebbe favorito il cambiamento della nostra società. Il nuovo miracolo italiano si sarebbe nutrito di tecnologia e lavoratori “remotizzati”, con la vita professionale ridotta a una chat. E per un attimo questa narrazione ha acceso anche molti entusiasmi.

Poi qualcuno ha iniziato a ragionare. Lo smart working è la perfetta confusione fra pubblico e privato. E’ sostanzialmente privilegio di una minoranza. Conviene molto ai datori di lavoro – che risparmiano sui costi fissi – e meno a chi lavora sul serio, che scopre improvvisamente di lavorare molto più di prima: senza orari.

Ciò non vuol dire che sia un’idea sbagliata. Al contrario: se ben ponderata può dimostrarsi molto utile. Ma significa solo che spacciare lo smart working per la panacea di tutti i mali delle economie avanzate è semplicemente una storiella da lockdown.

Quindi è arrivata l’Istat. Il suo rapporto annuale propone alcuni dati che partono da una semplice considerazione statistica. Lo smart working ha come presupposto “ontologico” non soltanto la disponibilità di reti digitali efficienti e device di ultima generazione, ma richiede anche una competenza che non deve solo essere posseduta, ma anche ampiamente coltivata.

Quanto a quest’ultima, i dati Eurostat sono un’ottimo promemoria. Noi italiani siamo nella parte bassa della classifica.

Notate che l’universo rappresentato fa riferimento solo alla popolazione in età di lavoro. Sono quindi esclusi gli anziani che ovviamente sono in parte comprensibilmente digiuni di tecnologia. Sapere che quasi il 40% di questa popolazione in Italia ha competenze basse o inesistenti illumina di una luce nuova la retorica sullo smart working che ha funestato – e continua ancora a funestare – il nostro dibattito pubblico.

Diciamolo meglio: quel 34% di persone che ha un livello alto di competenze informatiche, al quale per pura carità di patria potremmo sommare quel 27% con competenze di base, sono le persone alle quali possiamo affidarci per fare smart working. Ma poi bisognerebbe vedere come, dove e quando sono occupate. E questa è tutta un’altra storia.

L’indagine Istat sulla forza lavoro del 2019 mostra che quell’anno solo lo 0,8% degli occupati (184 mila persone) ha usato la propria abitazione come luogo di lavoro, il 2,7% (629 mila persone) come luogo secondario e il 2,2% (524 mila) come luogo occasionale. “Complessivamente quindi – sottolinea Istat – emerge come meno del 6% degli occupati fosse immediatamente preparato a lavorare da remoto”. Difficile che questa situazione sia cambiata dopo il lockdown.

Se a ciò si aggiunge che i lavoratori casalinghi sono usualmente indipendenti, con titolo di studio elevato, impiegati per lo più nei comparti dei servizi, informazione e comunicazione, servizi alle imprese e nell’istruzione, ecco che il nostro identikit sugli smart worker si raffina: minoranze qualificate, per le quali “va evidenziato il rischio che il confine tra tempi di lavoro e tempi di vita diventi labile e, dunque, il lavoro risulti invasivo”.

Chi ha fatto o fa davvero smart working – la famosa minoranza silenziosa a fronte di una maggioranza che ne parla – lo sa bene, ma è meglio ricordarlo usando le parole dell’Istat: “Circa il 40 per cento di chi lavora da casa (luogo principale o secondario) dichiara di essere stato contattato al di fuori dell’orario di lavoro almeno tre volte da superiori o colleghi nei due mesi precedenti e la quota arriva quasi al 50 per cento tra chi usa la casa come luogo di lavoro occasionale. Inoltre, viene richiesto di fornire una risposta tempestiva anche se al di fuori dell’orario di lavoro al 26,1 e al 20,9 per cento di chi lavora a casa come luogo principale e secondario e al 33 per cento di chi lavora a casa occasionalmente”.

Se poi guardiamo al tipo di contrattualizzazione usata di solito dagli smart worker, scopriamo anche un’altra scomoda verità: “Solo in un numero limitato di casi il lavoro da casa è formalizzato: l’8,2 per cento di chi lavora a casa ha un contratto di telelavoro (lo 0,2 per cento del totale dei dipendenti) e il 20,2 per cento un accordo di smart working (0,5 per cento del totale), per un totale di circa 116 mila persone. In entrambi i casi gli istituti sono riservati quasi esclusivamente ai lavoratori a tempo indeterminato, in gran parte (circa il 73 per cento) nel settore dei servizi”.

Istat ha stimato anche il grado di fattibilità da remoto delle varie professioni, arrivando alla conclusione che circa 8,2 milioni di persone potrebbero svolgere il proprio lavoro da casa, pari al 35,7% degli occupati. Percentuale curiosamente simile a quella dei lavoratori dotati di competenze informatiche avanzate.

Il dato degli 8,2 milioni di potenziali smart worker, deve essere però corretto al ribasso. “Escludendo alcune professioni per le quali si può considerare che il lavoro da remoto sia preferibile solo in situazioni di emergenza (ad esempio gli insegnanti nei cicli di istruzione primaria e secondaria), si individuerebbero circa 7 milioni di occupati che potrebbero lavorare a distanza: 4,1 milioni tra le professioni che richiedono supervisione e 2,0 milioni tra quelle ad elevata autonomia”. I settori rimangono i soliti: informazione e comunicazione, attività finanziarie e assicurative, servizi alle imprese.

Possiamo anche immaginare, basandoci sui dati riscontrati statisticamente, una specie di fenotipo dello smart worker. In dettaglio: “Le professioni che potrebbero essere svolte con modalità remota riguardano una quota maggiore di occupate (37,9 per cento contro 33,4 per cento degli occupati), di ultracinquantenni (37,6 per cento contro 29,5 per cento dei giovani occupati), del Centro-Nord (37 per cento contro il 28,8 per cento del Mezzogiorno), di laureati (64,2 per cento contro 37,4 per cento dei diplomati e 9,4 per cento degli occupati che hanno raggiunto l’obbligo scolastico)”. E così l’identikit si perfeziona: lo smart worker è più probabilmente donna, di una certa età, residente nel Centro-Nord e laureata.

Da tutto ciò possiamo trarre una conclusione molto semplice. Impostare una società sullo smart working significa non solo poter disporre di reti e device efficienti, ma anche di tanti lavori e di lavoratori smart. E noi, purtroppo, siamo carenti. Negli uni come negli altri.

Lo Smart Working divide et impera sul mercato del lavoro


Il dibattito sullo smart working, aldilà di certe posizioni vagamente surreali – si pensi a chi chiede che ai lavoratori casalinghi sia ripagata anche la luce – merita sicuramente un approfondimento visto che, aldilà delle circostanze pandemiche, ha elementi di sicuro interesse in un mondo afflitto da timori di riscaldamento globale e ricco abbastanza da questionare alcuni punti fissi dell’attuale organizzazione sociale. Fra i quali quello che la prestazione lavorativa si debba svolgere nel luogo deciso dal datore di lavoro.

Sorvoliamo sui tanti lati positivi che porta con sé il lavorare da casa – uno per tutti: risparmio di tempo e denaro per gli spostamenti – e anche su quelli negativi – ad esempio un perenne distanziamento sociale che può rivelarsi pernicioso così come lo sfumarsi del confine fra vita professionale e vita privata – limitiamoci a una semplice domanda: quante persone possono realmente fare smart working allo stato attuale della nostra tecnologia e del nostro mercato del lavoro?

Una prima risposta possiamo trovarla in una breve pubblicazione proposta dal NBER che quantifica empiricamente la percentuale di lavori che si possono “remotizzare” presso la propria abitazione. Lo studio è focalizzato sugli Usa, ma può essere utile anche per il lettore italiano: parliamo comunque di un’economia avanzata per certi versi molto simile alla nostra, almeno quanto a organizzazione e dotazione tecnologica.

I risultati, ovviamente, sono frutto di stime, che a loro volta si fondano su osservazioni campionarie basate su interviste e con varie premesse di metodo. Quindi vanno considerati come indicatori di tendenze più che come dati. Ma in ogni caso se ne traggono alcune informazioni utili a farsi un’idea appena più concreta della percezione assai diffusa che lavorare a casa sia la panacea di tutti i mali dell’economia moderna.

Un esempio servirà a chiarire. In aggregato, spiegano gli economisti, la classificazione dei lavori utilizzata dallo studio arriva alla conclusione che il 34 per cento dei lavori statunitensi può “plausibilmente essere svolto a casa”. In quel plausibile si annidano molti distinguo. Ad esempio quello secondo il quale, per convenzione, gli economisti ipotizzano nello studio che l’82 per cento degli 8,8 milioni di insegnanti americani siano capaci di lavorare da casa.  Suona plausibile “dato il grande numero di scuole che correntemente utilizzano l’apprendimento da remoto”. Se questa premessa venisse meno, la percentuale aggregata si dovrebbe ridurre di un notevole 5 per cento.

Questo serve anche ad avere un’idea del peso specifico dell’istruzione non solo nel mercato del lavoro, ma anche sul totale degli spostamenti. Smart working per i docenti, infatti, implica altresì che i discenti studino a casa. E questo porta con sé che anche molti genitori debbano diventare lavoratori casalinghi, perché non tutti possono lasciare i figli da soli. Detto altrimenti, lavorare a casa porta con sé, in molti casi, che anche la fruizione dei servizi sia “remotizzata”.

Se torniamo al nostro studio, scopriamo anche altre cose. L’American Time Use Survey del 2018, citata nella ricerca, mostra che meno di un quarto dei lavoratori a tempo pieno lavora a casa in un giorno medio e anche questi pochi trascorrono tipicamente in casa meno della metà del loro tempo lavorativo.

Ciò può significare varie cose. Ad esempio che la tipologia dei lavori svolti richiede comunque di trascorrere del tempo fuori casa, il che toglierebbe argomenti a chi giudica lo smart working un modo per allentare le pressioni sul traffico. Oppure che lo smart working sia un modo che giova meglio al lavoratore per unire l’utile (il lavoro da casa) al dilettevole (migliore gestione del tempo per gli affari privati). O, ancora, che lo smart working migliori la produttività del lavoro, e quindi serva meno tempo (in casa) per fare le stesse cose che si fanno al lavoro.

Un’altra informazione utile: i candidati allo smart working – il nostro 34 per cento del totale – “tipicamente guadagna di più”. Esprime infatti il 44 per cento del monte salari. Si tratta quindi, in larga parte, dei rappresentanti di quella che, in un vecchio libro di tanti anni fa, l’economista John Galbraith chiamava “La società opulenta”. E ovviamente questo implica che nelle aree più ricche del paese la percentuale degli smart worker sia più elevata. A San Francisco, per fare un esempio, oltre il 40 per cento dei lavori potrebbe essere svolto da casa, mentre a Las Vegas, famosa per i casinò, si scende sotto il 30 per cento.

Anche la tipologia dei settori più spendibili per la remotizzazione conferma l’identikit “affluente” del potenziale lavoratore casalingo: finanza, management, professioni e lavoro scientifico. Al contrario rimangono fortemente legati al luogo di lavoro lavori meno remunerativi come quelli in agricoltura, commercio, ristorazione, eccetera.

Questo ci conduce a un’altra considerazione. La possibilità di lavorare a casa molto facilmente può finire con l’essere considerata come un privilegio, non solo per chi ne fruisce, ma anche per i datori di lavoro, che quindi si aspetteranno dei corrispettivi, almeno in termini di produttività e di impegno. Ma anche i non smart worker, che si vedono “costretti” ad andare al lavoro, vedrebbero come privilegiati i lavoratori casalinghi.

Insomma, lo smart working, si sarebbe detto una volta, è un privilegio di classe, visto che ha a che fare con il livello di istruzione e quindi con il livello di reddito che certi lavori garantiscono. Di conseguenza un’adozione su larga scala di queste pratiche provocherebbe una profonda differenziazione all’interno del mercato del lavoro. E un mercato diviso è certamente più facile da gestire.

Cronicario. Il futuro è nello Scart Working


Proverbio del 6 aprile L’uomo virtuoso cerca gli accordi, il vizioso a chi dare la colpa

Numero del giorno: 20.000 Denunciati nel weekend per inosservanza divieti Covid

Siccome viviamo nel paese più bello del mondo, dove sono nate la cultura, l’arte e soprattutto la storia, mi sembra del tutto logico che non abbiamo tempo di occuparci di pinzillacchere come il presente e ancor meno del futuro.

Noi siamo quelli del Novecento e del Piccolo mondo antico. Già ci irrita quando dicono di imparare le lingue barbare, e figuratevi quanto ci piace abitare in un mondo dove tutto deve essere cool, fashion, trendy e in particolare smart. L’avrete sentita questa storia dello smart woking no?

Ebbene, il coronacoso è riuscito nel miracolo che inutilmente agitava i sogni (e gli incubi) dei datori di lavoro di tutto il mondo: mandare a casa legioni di chissàcchefacenti  – per adesso retribuiti ma dategli tempo – in fretta e furia confezionati nella categoria degli smart worker. D’altronde c’è internet, perbacco. Mica mi vorrai ancora lavorare dall’ufficio? Quello che (non) fai lì lo puoi fare ancora dalla libreria di casa tua, a spese tue, col tuo computer con la connessione pagata da te.

Ci abbiamo creduto. Ma mentre sognavamo tutti convintamente – colpa della clausura eh – di essere diventati davvero moderni, è arrivato il risveglio nella forma di un bel dindon statistico, targato Istat, la quale, gentilmente, ci ricorda che…

Quindi solo 3 ragazzi su dieci, – il famoso futuro – un po’ meno dei quattro su dieci che vivono sovraffollati – e figuratevi i loro genitori – hanno competenze informatiche alte. Che già è un risultato apprezzabile se si considera che una casa su tre non ha pc e che solo 22% del totale ha un pc o un tablet.

Per fortuna la soluzione è a portata di mano. Pure se volessero rinchiuderci per il prossimo lustro – col coronacoso non si può mai dire – sappiamo già su cosa fare leva per non interrompere la produzione, l’istruzione, il lavoro e persino l’intrattenimento.

Il futuro non sarà smart. Sarà scart.

A domani.

 

 

Cronicario: 1 maggio, festa dello smart working


Proverbio del 3 aprile Ogni occhio ha il suo sguardo

Numero del giorno: 1.169 Morti negli Usa per coronavirus nelle ultime 24 ore

L’hanno detto, l’avete sentito. La strage silenziosa di ponti che sta funestando questo 2020 non risparmierà neanche quello più ambito: quel venerdì primo maggio, che faceva scopa secca col week end, e per giunta in un momento di alta pressione climatica. Il ponte perfetto.

Ma niente. L’hanno detto, l’avrete sentito. Il domicilio coatto non verrà alleviato neanche in quell’occasione. Niente gite, niente concertone e – ci mancherebbe – niente passeggiata sotto casa col neonato, hai visto mai. Anzi neanche spesa, visto che saranno chiusi i supermercati. A casa, e mi raccomando.

D’altronde c’è il coronacoso, signora mia. Mica possiamo rischiare. Avete visto i cinesi no? Stanno pensando di chiudere di nuovo Wuhan. E gli Usa? La Spagna? Figuriamoci se ce ne frega qualcosa del primo maggio e della festa del lavoro. Specie oggi, che si lavora (chi ancora lavora) da casa.

Anzi, sapete che c’è. Basta con questo nome antico – festa del lavoro – che ricorda un’epoca di commistioni salivari, contatti fisici, avvicinamenti sociali. La vita insomma. Il coronacoso, mortifero com’è, ci ha fatto entrare nella modernità, e finalmente. Questo non vuol dire rinunciare alla tradizione, ma innovarla. Serve un nuovo nome, insomma. Chiamiamola festa dello smart working. Così si capisce che devi stare e casa. E magari, mentre che ci stai, lavori pure.

Buon week end.