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Il Fmi si candida a salvare il mondo

Poiché il mondo ha bisogno di essere salvato da se stesso, chi meglio del Fmi potrebbe riuscire nell’impresa, essendo pure titolato a farlo con tanto di atto costitutivo?

Mi figuro sia stato questo il ragionamento degli estensori mentre leggo un agile documento dedicato alle tante e note fragilità del nostro sistema monetario e finanziario internazionale, che infatti occupano gran parte delle 38 pagine del paper (Strenthening the international monetary system)“, che si concludono con alcune considerazioni che si potrebbero riepilogare così: non solo il Fmi deve prendere un ruolo di primo piano nell’intervento delle emergenze finanziarie, a cominciare da un efficace gestione della liquidità, ma anche la sua moneta, l’SDR, deve essere pronta, visto che il sistema attuale, basato sugli swap della Fed e sulla predominanza del dollaro mostra con chiarezza la corda.

Potremmo discutere a lungo sulla circostanza che il sistema attuale mostri la corda da un bel pezzo. Già dal finire degli anni ’50 era chiaro a tutti quelli che “il peso specifico dell’economia americana e la predominanza del dollaro”, come scrive oggi il Fmi, siano un fattore che incoraggia l’instabilità. Che certo si è aggravata, specie da quando i flussi di capitale hanno cominciato a viaggiare liberi per il mondo compiendo il miracolo di far diminuire la povertà e insieme fare aumentare la diseguaglianza. Sempre perché la famosa pentola del diavolo è orfana di coperchio.

La differenza, fra allora e oggi, è che adesso il Fmi sente di avere abbastanza forza politica per dirlo a chiare lettere, pure se nei toni sfumati dei documenti ufficiali. D’altronde non è un caso che il Fondo abbia inserito nel suo basket dell’SDR la valuta cinese e che, al contempo, il Congresso americano abbia dato il via libera alla riforma delle quote.

Le due cose insieme ci suggeriscono uno scenario plausibile. Piano piano l’ente sovranazionale per eccellenza, il Fmi, e i suoi vari satelliti – il paper cita la Bis, il WTO, il FSB e la World Bank, diventeranno pure i protagonisti della Grande Convergenza istituzionale che va delineandosi nel nostro variegato paesaggio, incoraggiata dalle crisi presenti e soprattutto future che la nostra insanabile incoscienza provvederà di procurarci. Ma questo non vuol che gli Usa non rimangano gli azionisti di maggioranza del Fondo.

In questa strategia mimetica scorgo il tramonto definitivo dell’idea (ma non della sostanza) di nazionalità che, se questo scenario diverrà qualcosa di più concreto di una mia fantasia, verrà diluita, ma non cancellata, in una sorta di società per azioni globale – sul modello di quanto è stato fatto per l’eurozona – dove gli stati più forti comunque faranno valere il loro peso ma in confronto competitivo (e chissà quanto cooperativo) con le burocrazie sovranazionali.

Esagero? Può darsi. Noto, tuttavia, che più volte nell’analisi circostanziata che il Fmi ha fatto della situazione attuale, gli estensori hanno sottolineato il ruolo che l’atto costitutivo assegna al Fondo, qualificandolo di fatto, oltre che per diritto, come l’unica entità globale titolata ad occuparsi dell’equilibrio finanziario internazionale, visto che gli egoismi nazionali – sintetizzo malamente – hanno la vista troppo corta per osservare il quadro d’insieme e agire di conseguenza. Pure chi potrebbe – ossia gli Usa – finisce impelagato nelle sue beghe interne producendo sconquassi globali per il tramite della sua moneta e, soprattutto, dell’enorme quantità dei suoi debiti.

Nella parte conclusiva del documento, appena un paio di pagine, viene delineato il percorso immaginato dal Fmi che si articolano su tre grandi aree tematiche: La gestione dei flussi di capitale e gli interventi sul mercato dei cambi, il global financial safety net (GFST) ossia la capacità di costruire e gestire con efficacia un salvagente finanziario, e poi il ruolo dell’SDR. Relativamente al punto due è utile sapere che il Fmi produrrà a breve un paper per analizzare se il fondo ha risorse sufficienti a fare il prestatore globale, anche garantendo la liquidità dei mercati. E sarà interessante scoprire se è davvero così. Quando alla moneta SDR, il Fmi ci dice soltanto che molti parti del consorzio (la Cina?) “sono interessati a discutere del modo di migliorare il ruolo dell’SDR”.

Il documento si conclude con alcune domande che gli estensori scrivono per il board dei direttori invitandoli a decidere le risposte. Basta riportare le ultime due: “Come vedete il ruolo del Fondo, come pilastro globale, per promuovere l’efficacia del GFSN? Quali sono le aree prioritarie di riforma?”.

Una volta si chiamavano domande retoriche.

L’instabile liquidità del mercato dei bond

Penserete che la cosa non vi riguardi. Che questa materia è roba da specialisti, come in effetti è. E tuttavia se superate l’apparenza dell’astrusità, dell’esosterismo che circonda tutta la materia, scoprirete che il tema vi interessa eccome. La buona salute dei mercati a reddito fisso, infatti, ha la stessa importanza di quella del cuore per il corpo umano, essendo il mercato dei bond il muscolo principale dell’organismo finanziario, laddove si concentrano infinite fortune misurate dal metro dei fantastiliardi di Zio Paperone.

Il mercato dei reddito fisso, per dirla altrimenti, è uno dei pilastri, se non il più importante, dei Fixed Income commodity currency (FICC), ossia l’infrastruttura dei mercati finanziari che ogni giorno fa circolare migliaia di miliardi di dollari resi liquidi grazie all’alchimia della fiducia, che ci fa credere che in ogni momento la nostra carta troverà un acquirente, e dal lavoro silenzioso e oscuro di chi questi scambi li consente, lucrandoci costantemente. Quello che in gergo si chiamano market-maker. Quindi coloro che – letteralmente – fanno il mercato.

Se non ci fossero i market-maker, che poi sono banche o intermediari finanziari, semplicemente non ci sarebbe il mercato, perché sarebbe impossibile per un venditore individuare un compratore. I market-maker, quindi, sono coloro che rendono liquida – ossia vendibile – la carta della finanza. E per farlo devono a loro volta investire risorse, che però sono sempre più restii a investire.

Tale situazione rende la gestione della liquidità – ossia la capacità del mercato di funzionare – assai più difficile di quanto non fosse fino a pochi anni fa. E se considerate che queste tensioni adesso stanno emergendo nel mercato dei reddito fisso, ossia delle obbligazioni degli stati come delle banche, capirete perché questa cosa ci riguardi tutti, anche se non ce lo dice nessuno.

Ciò non vuol dire che non se ne parli. Al contrario. I regolatori sono sempre più ossessionati dal monitoraggio delle condizioni di liquidità nei FICC, e in particolare nel mercato dei bond. Anche perché, non bastasse la riluttanza dei market-maker a investire nella loro attività, nell’ultimo decennio si è conosciuta una notevole evoluzione nell’infrastruttura tecnica che ha condotto alla crescita esponenziale del trading algoritmico. Pratica ancora poco conosciuta, ma che già ha sollevato parecchi interrogativi fra gli osservatori per alcuni flash crash che si sono verificati proprio nel mercato dei bond, e segnatamente in quello Usa, il più pericoloso di tutti. E non solo perché i Treasury Usa sono quasi moneta. Ma perché la gestione ordinata dei bond sovrani nei mercati è fondamentale perché la politica monetaria delle banche abbia un senso. Come dice il chairman del comitato William Dudley, casualmente anche presidente della Fed di New York, che “il mercato dei reddito fisso gioca un ruolo cruciale nella condotta della politica monetaria”.

Questa lunga introduzione, che riepiloga brevemente temi che ho trattato più ampiamente altrove, mi sembrava necessaria per spiegare come mai mi sia inflitto la lettura dell’ultima rilevazione del Committee on the Global Financial System (CGFS), che opera nel seno della Bis uscito pochi giorni fa, (Fixed income market liquidity). Questo documento aggiorna un rapporto presentato nel novembre 2014, dove già si evidenziavano alcune tendenze di fondo dei mercati a reddito fisso e che il tempo da allora trascorso non ha mutato, ma semmai approfondito.

La prima di queste tendenze è che si sta allargando la biforcazione fra l’offerta di liquidità e la sua domanda. “I dealer – spiga il rapporto – hanno continuato ad abbassare la loro capacità e volontà di market-making in molte giurisdizioni, concentrandosi su attività che richiedono meno capitale”. Al contrario “la domanda di market-making continua a crescere data l’espansione del mercato primario dei bond e la crescita del possesso di bond fra gli operatori di mercato” che contano “sull’immediatezza dei servizi dei dealers”. Detta più semplicemente, l’aumento costante di emissioni di debito, che gli asset manager sono chiamati a gestire, richiede che questi soggetti siano in gradi di poter contare su una gestione sempre più efficiente della liquidità – ossia che possano vendere quando gli serve – che però confligge con la diminuita disponibilità di chi questa liquidità deve garantirla, che trova troppo oneroso impegnare capitale nel market-making quando può guadagnare di più facendo altro.

Ciò ci porta alla seconda questione che poi è una domanda: la liquidità sta evaporando? “Alcuni segnali individuano una crescente fragilità della liquidità – dice il rapporto – e alcuni episodi di stress sui mercati suggeriscono che la crescita del trading algoritmico possa aver avuto impatto sulla liquidità”. E così arriviamo alla terza questione: queste tensioni possono aver impatti sul costo del trading che poi significa costi maggiori per chi vuole finanziarsi. E più si chiedono soldi al mercato e più è difficile trovarli, visto che i market-maker devono immobilizzare risorse in maniera proporzionale ai volumi che sono chiamati a intermediare e sono sempre meno disposti a sopportare questo rischio  (il cosidetto wharehouse risk). Questo anche grazie al paradosso che “requisiti normativi più stringenti per contenere i rischi sistemici nel sistema finanziario, a loro volta, hanno frenato capacità dei rivenditori di assumersi rischi”, che mi sembra la meravigliosa nemesi di un mondo che vuole tutto (più regolazione per avere meno rischi) e il suo contrario (più libertaà di capitali per avere più profitti da capitale).

E questo ci porta alla domanda finale: bisogna supportare la liquidità pure al rischio di aumentarne la fragilità? Domanda che riporta all’evidente connessione fra politica monetaria e condizioni della liquidità. Le politiche monetarie non convenzionali hanno supportato la valutazione dei bond e ridotto la volatilità in molti mercati a reddito fisso e quindi sono state percepite come facilitatrici della liquidità di mercato. Ma al tempo stesso ” ci sono preoccupazioni” che tali politiche abbiano alimentato un trading troppo aggressivo e troppo basato sulle aspettative di policy piuttosto che sui fondamentali “facendo sorgere la domanda di come le condizioni di liquidità si aggiusteranno una volta che la politica monetaria sarà normalizzata”. Sempre che si arrivi a normalizzarla, ovviamente.

Sicché sembra al momento sembra ci sia un trade off fra la resilienza dei market maker e quella della liquidità, nel senso che se i primi stanno meglio, la seconda sta peggio, e viceversa. Ciò significa che rischiare di meno ci fa rischiare di più.

L’ennesimo paradosso di un tempo confuso e impaurito.

 

I soldi facili distruggono la crescita

Sicché viviamo nel paradosso di un tempo affamato di denaro che si ammala in ragione direttamente proporzionale alla quantità che riesce a ingurgitarne. L’inflazione è bassa? Immettiamo denaro. La disoccupazione è alta? Immettiamo denaro. La crescita non riparte? Immettiamo denaro. Il credito è basso? Immettiamo denaro. Non riuscendo a pensare ad altro, ci infliggiamo nuovi ricostituenti a base di denaro, che però finiscono col minare ancor di più il nostro organismo. Sennò non si spiegherebbe perché l’economia rimane debole e volatile.

Questa singolarità non lascia indifferenti i più accorti che, seguendo chissà quanto consapevolmente le impronte dei nostri padri, sono arrivati alla conclusione – una fra le tante che potevamo aspettarci – che i soldi facili, che tecnicamente si chiamano boom creditizi, hanno un effetto deleterio sulla produttività del lavoro. Quindi erodono uno dei capisaldi del nostro modo di produzione della ricchezza fin dai tempi di Adam Smith.

Questo approfondimento si deve a un paper della Bis  (“Labour reallocation and productivity dynamics: financial causes, real consequences“) che sviluppa una questione già esaminata nell’ultima relazione annuale, evidentemente meritevole di ulteriori analisi. Per svolgerla è stato considerato un panel di venti economie nell’arco di tempo di un quarantennio.

Il punto è che i boom creditizi spingono a investire nei settori meno produttivi, come ad esempio quello delle costruzioni, a danno di quelli dove la produttività è più alta, come il manifatturiero. Con l’aggravante che il miraggio degli arricchimenti facili incoraggia le persone più dotate verso il settore finanziario, che non si segnala certo per una produttività consistente.

Per di più, dopo che il boom diventa un burst, l’errata allocazione delle risorse nei settori meno dinamici produce effetti prociclici, ossia genera perdite di prodotto, e quindi disoccupazione, assai più elevati rispetto a quanto sarebbe accaduto qualora le risorse fossero state allocate in maniera più efficiente. Tali effetti, viene notato, sono più pronunciati nelle economie avanzate.

“La produttività aggregata rallenta durante il boom creditizio – spiega il paper – innanzitutto perché l’occupazione si espande più rapidamente nel settore delle costruzioni, che strutturalmente incorpora una crescita bassa della produttività, mentre l’occupazione si espande poi lentamente o si contrae nel settore manifatturiero che, al contrario, è strutturalmente ad alta produttività”. Detto in soldoni, tale spostamento di risorse dai settori produttivi a quelli meno produttivi vale circa i due terzi del calo di produttività che si registra durante una fase di boom creditizio.

Ma cosa accade quando la bonanza creditizia finisce? “La media di perdite di produttività per anno nei cinque anni successivi a una crisi è più del doppio di quelle registrate durante il boom: circa mezzo punto percentuale l’anno”.

L’esempio esaminato nel paper è quello della crisi vissuta nel 2007 da Spagna e Irlanda, dove il credit boom si è associato a una rapida crescita dell’occupazione nelle costruzioni e nei servizi di real estate a spese del manifatturiero. “Una volta che il boom è diventato un burst – sottolineano – le economie sono andate verso una dolorosa fase di riequilibrio, per di più con un sistema finanziario danneggiato che forse ha reso ancor più compilcato il processo. In tal senso la riallocazione delle risorse durante il boom è stata chiaramente una cattiva allocazione”.

Provo a sintetizzare: i boom finanziari creano le premesse per dolorosi aggiustamenti, amplificando le conseguenze, una volta che si esauriscono, degli errori commessi durante l’euforia. A farne le spese è la produttività del lavoro, ossia ciò che dovrebbe determinare la ricchezza di una collettività e che, indirettamente, genera effetti sull’occupazione e sul livello dei salari. Ciò fino al punto di provocare una stagnazione che, nello schema esaminato, può durare fino a otto anni.

Le conclusioni del paper offrono ulteriori motivi di riflessione. L’ipotesi di scuola, secondo la quale il rischio di una stagnazione secolare dipenda, nel caso degli Usa, da una deficit di domanda globale già visibile prima della crisi, potrebbe essere sostituita da quella secondo la quale la stagnazione dipende invece dal grande boom creditizio vissuto negli Usa prima della crisi del 2007. Per dirla con le parole della Bis: “La crescita deludente degli Usa prima della crisi, nonostante un grande boom finanziario, può dipendere in parte proprio dal boom”. E poi c’è un altro punto importante: l’analisi microeconomica, ossia l’esame della composizione dei settori produttivi, dice molto di più di quella macroeconomica che tiene l’attenzione sugli aggregati, e in particolare sulla domanda.

Infine, una considerazione che sicuramente appassionerà gli economisti, che ne dibattono da sempre: “Se una politica monetaria allentata contribuisce ai boom creditizi e questi boom hanno effetti di lungo termine sulla produttività, compresi quelli di riallocazione delle risorse, una volta che arriva il bust, allora non è ragionevole pensare alla moneta come un elemento neutrale, nel lungo termine”.

Come indicazione sul futuro, è bene sapere che “i boom e i bust legati a una crisi hanno avuto una durata di 16-20 anni” e i risultati dello studio confermano che le “cattive allocazioni delle risorse richiedono tempo per svilupparsi e persistono a lungo”. Né bisogna sorprendersi, sottolineano, se “la politica monetaria si rivela poco efficace a correggere gli effetti dei bust”. E non solo perché la sua efficacia è limitata dal livello di indebitamento, solitamente elevato dopo un boom creditizio, ma anche perché “la politica monetaria allentata è uno strumento spuntato per correggere la cattiva allocazione delle risorse che si è sviluppata durante la precedente espansione, oltre ad essere stata, in primo luogo, un fattore che vi ha contribuito”.

Ve la faccio semplice: i soldi facili provocano danni, che poi si pensa di risolvere con altri soldi facili. Con la conseguenza che i soldi fanno soldi, favorendo la concentrazione della ricchezza.

Over and over again.

Lo sterminio bancario provocato dagli immobiliaristi

Dopo aver letto per anni di mutui subprime come causa scatenante della crisi post 2007, mi capita fra le mani una pregevole analisi della Bis (“Commercial Bank Failures During The Great Recession: The Real (Estate) Story” che ci racconta un’altra storia, finora poco osservata. Ossia quella dei fallimenti bancari, assai meno celebri di quelli del vari broker-dealer che col mattone si sono bruciati le penne, e delle ragioni che li ha provocati.

Narrazione edificante, se non altro perché rivela alcune informazioni che, oltre a sfatare parecchi luoghi comuni, ci danno una misura significativa dei danni che esposizioni scellerate verso soggetti privati poco affidabili possono provocare al sistema finanziario.

La prima informazione che è utile sottolineare è che a far fallire queste banche non sono stati i mutui concessi alle famiglie, ma i prestiti concessi a investitori privati che hanno preso fondi per attività di sviluppo o grandi acquisizioni. Detto in termini più comprensibili, non sono state le famiglie a far fallire le banche ma gli immobiliaristi. Le famiglie, tutt’al più ne hanno pagato il conto.

La seconda informazione utile è l’entità del fenomeno. I dati, riferiti agli Stati Uniti, ci dicono che fra il gennaio 2005 e il 31 dicembre 2013 sono fallite 492 banche, 462 delle quali a partire dal 2008. Una circostanza degna di approfondimento, atteso che questo sterminio si è verificato quando “le pressioni sul funding erano ormai terminate e le banche avevano anche avuto accesso ai fondi della Fed”. Ciò vuol dire che è stata la qualità dell’esposizione bancaria, e segnatamente quella verso il mercato immobiliare, a far fallire queste banche e non la circostanza di una semplice crisi di liquidità, per la quale erano stati approntati per tempo i rimedi canonici.

Per comprendere come il real estate possa far fallire una banca, sono stati individuati tre canali di contagio: gli asset che possono diventare illiquidi, le obbligazioni che su tali esposizioni sono state emesse e i portafogli di crediti immobiliare tenuti fuori dai bilanci delle banche.

L’analisi ha mostrato che le banche, assai poco prudentemente, hanno aumentato le esposizioni al rischio immobiliare sostanzialmente agli albori della crisi, pure se in maniera non uniforme fra i diversi prodotti. Mentre infatti aumentavano l’esposizione verso il settore privato non familiare, quindi verso investitori impegnati in acquisizioni importanti, diminuivano quella verso i prodotti tradizionali, come i muti verso le famiglie e gli acquisti di MBS emessi da agenzie. “L’evidenza – sottolinea lo studio – mostra uno spostamento delle esposizioni dal business tradizionale dei prestiti alle famiglie verso prodotti non core legati al real estate”.

La ragione è facile da intuire: la fame di rendimento, da una parte, e l’euforia dall’altra. Questa constatazione è stata derivata dall’osservazione di un campione delle esposizioni bancaria risalente al 2005. Tale decisione ha aumentato notevolmente la probabilità di crisi bancaria. Al contrario “non è stata trovata evidenza che il credito alle famiglie abbia contribuito ai fallimenti”. Questo non vuol dire che il massiccio default di mutui sulla casa non abbia posto problemi agli intermediari. Solo che in questo caso, essendo stati in gran parte cartolarizzati, il rischio di questi mutui si è spostato dalle banche ai broker-dealer. Insomma, si è realizzata la tempesta perfetta: le banche fallivano perché avevano prestato soldi agli immobiliaristi, i broker perché avevano comprato dalle banche i debiti cartolarizzati delle famiglie. Il mattone si è rivelato una perfetta bomba a frammentazione.

Altra informazione interessante è che “l’esposizione a prodotti MBS, ossia obbligazioni cartolarizzate su mutui subprime e prestiti commerciali, è stata importante, ma meno delle altre e solo per le grandi banche. Le piccole non ne hanno subito l’impatto, probabilmente perché il livello di esposizione a questi prodotti era molto basso”. Quindi la dimensione di una banca è una variabile rilevante anche per la qualità, oltre che per la quantità, dei rischi che finisce con l’accumulare.

Infine, è opportuno notare che “i prodotti finanziari legati al real estate hanno avuto performance peggiori, nelle banche sopravvissute, rispetto a quelli non real estate durante la Grande Recessione”. Ciò ha finito con l’aggiungere pressioni sui bilanci bancari, anche in ragione del peso specifico rilevante dell’esposizione immobiliare sui crediti in sofferenza (NPLs).

Riepilogo: il mattone è un asset che va preso con le pinze e maneggiato con cura. Non a caso è al centro di tutte le analisi sulla stabilità finanziaria che le banche centrali producono di continuo. La cosa incredibile è che siamo dovuti arrivare sull’orlo del crack globale per capirlo.

E non è affatto detto che abbiamo imparato la lezione.

Il girotondo di dollari che ha condotto alla crisi

La narrazione più conosciuta sulle ragioni della crisi – è tutta colpa degli americani – omette, semplificando a uso degli ascoltatori, il ruolo rilevante che il sistema finanziario europeo ha svolto nella disgraziata vicenda che ci tiene impegnati da oltre un settennio. Per fortuna c’è chi di tanto in tanto aggiunge un capitolo a questa narrazione, che ormai somiglia a un tomo enciclopedico, aiutandoci a capire che la realtà è assai più complessa delle suggestioni veicolate a mezzo stampa, e al contempo più semplice.

La storia potrebbe essere raccontata persino con la vecchia filastrocca del girotondo, dove al termine si finisce tutti giù per terra senza sapere bene come sia successo e con un notevole capogiro, che il girotondo ha alimentato fino a farci perdere l’equilibrio.

Se invece delle persone nel girotondo ci mettete i dollari, l’immagine si precisa e diventa quasi fedele. Un enorme girotondo di dollari fra gli Usa e l’Europa è cresciuto nell’ultimo ventennio fino al punto che si è smarrito l’equilibrio e si è finiti tutti giù per terra. E ancora piangiamo.

L’immagine mi è stata suggerita da un grafico che ho trovato in un paper della Bis estremamente interessante (“Breaking free of the triple coincidence in international finance”) che discorre di un tema per palati monetari fini (l’inadeguatezza dei saldi di conto corrente a descrivere gli effetti dei flussi finanziari) che vi risparmio, ma al cui interno è riportata un’analisi assai interessante delle relazioni che hanno interessato le due principali economie mondiali negli ultimi tempi.

Prima di approfondire il discorso, tuttavia, è opportuno partire da una premessa. Nel tempo, in virtù della crescente liberalizzazione dei flussi finanziari, si è registrata una notevole evoluzione delle transazioni offshore classiche. Queste ultime si verificano quando un deposito in una valuta internazionale viene trasformato in un prestito in un altro paese. La valuta internazionale viene quindi scambiata fra due non residenti nell’area che ha espresso la valuta. Esempio: una banca centrale mediorientale deposita 10 milioni di dollari presso una banca inglese che poi presta la somma a una compagnia petrolifera brasiliana di importatori. Tale transazione, per quanto denominata in dollari, non viene rilevata né come debito né come credito dall’economia americana, per quanto l’economia americana esprima la valuta che è alla base dell’operazione.

Accanto a questa rappresentazione semplificata ce n’è un’altra che rileva ai fini del nostro discorso, quella che la Bis chiama Round-trip transaction, che potremmo tradurre come transazione andata e ritorno, dove a viaggiare sono ovviamente i soldi. Mettiamo per ipotesi che un deposito negli Usa si trasformi in un prestito in Europa e da lì questo prestito riparta per tornare negli Usa sempre sotto forma di prestito, ma a un soggetto diverso da quello che per primo ha prestato. In questo caso l’Europa funzionerebbe come una sorta di hub dal quale gli Usa prestano i propri soldi sostanzialmente a se stessi. Per la cronaca, è utile notare che questo round-trip non ha alcun impatto sul saldo di conto corrente, ma ha grande importanza per la stabilità finanziaria, che poi è quello che interessa ai redattori del paper.

Questa operazioni di round trip nascono storicamente per questioni di arbitraggio, legate alle diverse regolazioni alle quali possono essere soggette le banche americane rispetto a quelle europee. Uno degli esiti più conosciuti di tali pratiche è sicuramente il mercato dell’eurodollaro, che fin dagli anni ’60 ha caratterizzato i flussi finanziari fra Usa ed Europa.

I dati Bis, che risalgono fino al 1975, mostrano che il flusso è stato molto intenso nel tempo. La transazione più comune è stata quella che ha interessato un prenditore non Usa che ha ottenuto fondi da un prestatore non Usa. E tuttavia a partire dalla fine degli anni ’90 si è registrata una crescita delle transazioni round trip. Il mercato off shore è diventato un circuito in cui i crediti dei residenti Usa sono diventati investimenti in obbligazioni con mutui come sottostante. Ciò vuol dire che il mercato è servito ad alimentare i crediti verso residenti Usa, arrivati al 15% dei crediti globali offshore in dollari. Ciò vuol dire che i crediti nei confronti di residenti americani sono stati il 15% superiori ai debiti nei confronti dei residenti americani, rappresentati dai loro depositi.

Questo girotondo, che sono certo starà già provocando più di un capogiro, potremmo anche tradurlo così: i depositi americani, grazie al mercato offshore, hanno generato una sorta di effetto leva che ha consentito all’economia americana di avere più credito di quanto potesse permettersene. “In sostanza – scrive la Bis – nel periodo che ha condotto alla grande crisi finanziaria, il mercato dell’eurodollaro ha cambiato le sue modalità di intermediazione. E’ passato dall’essere un sistema fra prestatori e prenditori (di dollari, ndr) fuori dagli Stati Uniti, a un intermediazione senza precedenti fra prenditori e prestatori dentro gli Stati Uniti”.

Le banche europee, in questo corto circuito, hanno svolto il ruolo di pivot. La Bis le definisce “enablers”, che potremmo tradurre come attivatori, dello shadow banking Usa, essendo state “i principali protagonisti dei flussi finanziari globali nel periodo fino al 2008”. In sostanza, queste banche hanno dragato fondi dal mercato all’ingrosso Usa per riprestarli ai residenti Usa acquistando obbligazioni, ossia quelle basate sui mutui più o meno subprime, magari attratte dai rendimenti e dalle triple A elargite dagli istituti di rating.

Alcuni stime calcolano che le banche europee hanno ricevuto un trilione di dollari dal mercato monetario americano nella seconda metà del 2008, pari a circa un ottavo del loro funding (esigenze di finanziamento) complessivo. Questa cifra, per il mercato monetario Usa equivaleva a più della metà del loro patrimonio, che perciò era stato investito in banche europee. In particolare il mercato monetario era esposto, anche non con grandi cifre, verso le banche della periferia dell’Europa.

Quando, dopo il 2008, scoppiò il panico gli investitori Usa di questo mercato richiamarono in patria i fondi come si vede dal grafico, e questo ha dato il colpo di grazia alla crisi europea del debito sovrano. Al giugno del 2011, infatti, l’esposizione delle banche europee, e in particolare di quelle francesi, verso il mercato monetario Usa era ancora rilevante e man mano che i gli Usa richiamavano in patria i fondi le banche dell’eurozona dovettero affrettarsi a vendere asset per restituirli agli Usa mentre al contempo il mercato monetario Usa aumentava l’esposizione verso le banche asiatiche.

Già, perché anche l’Asia, negli anni 2000, è entrata a pieno regime nella girandola del debiti/crediti. Le statistiche hanno calcolato che i prestiti transfrontalieri fra Usa, Europa e Asia sono più che raddoppiati dai 3,5 trilioni di dollari nel 2002 agli 8,3 trilioni di fine 2007, quando il girotondo si avviava al suo esito fatale. Tutti siamo finiti giù per terra.

Non è finita qui. La seconda fase della liquidità globale, iniziata  pressoché all’indomani del quasi crack bancario si è incentrata sul mercato dei bond, con i paesi emergenti che hanno iniziato ad emettere obbligazioni denominate in dollari in cifre assai rilevanti.

Il girotondo è ripartito. Si accettano scommesse sull’esito finale.

L’economia ai tempi dello Zero Lower Bound: l’erosione delle banche

Fra i tanti esiti finora osservati dell’inusuale, per non dire straordinaria, politica monetaria seguita dalle banche centrali, ce n’è un altro che molto opportunamente la Bis ci ricorda in un suo recente working paper (“The influence of monetary policy on bank profitability”), ossia l’effetto che l’azione delle banche centrali ha sulla redditività delle banche.

Tema delicato, visto che le banche centrali fanno ciò che fanno col dichiarato intento di giovare all’economia rischiando in sostanza, proseguendo, di indebolire proprio quegli intermediari che all’economia forniscono il suo fluido vitale, ossia il credito.

In sostanza, si fa il QE per fare arrivare, tramite le banche, più credito all’economia, ma così facendo si erode la base del modello di business sul quale le banche hanno storicamente fondato la loro redditività. D’altronde è proprio nel mutamento di consuetudini antiche che la politica delle Zero lower bound sta svolgendo piano piano i suoi esiti, e non dovremmo stupirci delle conseguenze non intenzionali che ciò provoca.

L’analisi è stata condotta su dati riferiti a 109 banche internazionali con sede in 14 economie avanzate lungo il periodo 1995-2012 e ha accertato una relazione positiva fra i tassi a breve termine, quelli su cui agisce la banca centrale, e la struttura della curva dei tassi, da una parte e la redditività delle banche, misurata dal ROA (return on asset). Un effetto che non solo esiste, ma che oltremodo pronunciato quando il livello dei tassi è più basso . “Tutto ciò suggerisce che, nel tempo, inusuali tassi bassi e una curva dei tassi insolitamente piatta eroda la profittabilità delle banche”.

Un grafico mostra la situazione attuale di tassi e asset delle principali banche centrali e serve a visualizzare l’imponenza delle operazioni messe in piedi in questi sette anni, durante i quali le banche centrali hanno profondamente innovato anche le loro, di consuetudini.

Una altro grafico fotografa la correlazione fra l’andamento dei tassi a breve, che come è noto influenzano quelli a lungo, e l’inclinazione della curva bancaria dei rendimenti, che si può definire come la differenza fra il tasso a lungo e il tasso a breve, e sulla quale si basa la redditività della banca per ragioni opposte ma egualmente importanti.

Le banche, come è noto, basano la loro attività sulla trasformazione di debiti a breve in crediti a lungo, ossia si indebitano con i risparmiatori, di solito con depositi a vista, e prestano a famiglie e imprese con un orizzonte temporale medio lungo. In questa attività, di per sé assai rischiosa, espletano il loro talento, che in economia vuol dire la loro capacità di far denaro.

La curva dei rendimenti (yield curve), in tal senso, è correlata positivamente con la profittabilità, ed è facile capire perché. Quando l’inclinazione è positiva, ossia c’è una differenza ampia fra il costo dei debiti a breve e i ricavi dei prestiti a lungo (vedi grafico), i margini del net interest income, ossia il ricavo dai prestiti, si ampliano, visto che il banchiere guadagna assai più di quello che spende. Al momento lo yield è ai suoi massimi, intorno al 2%. Quindi lo zero lower bound sta facendo bene a questa parte della contabilità bancaria.

D’altro canto però, lo yield impatta sui bilanci bancari anche perché muta il costo degli accantonamenti che la banca deve fare per coprire i propri prestiti e poi perché deve sopportare il costo del servizio del proprio debito, visto che le banche emettono anche debito a lungo termine. Inoltre i tassi bassi deprimono la voce dei bilanci legata ai non interest income, “probabilmente perché hanno un impatto negativo sulla valutazione delle loro obbligazioni”, spiega la Bis. Nella simulazione risulta che un aumento dei tassi a breve dallo zero all’1% condurrebbe a un calo dello 0,7% del valore degli asset del non interest income.

Questi due effetti contraddittori vengono esaltati quando il livello dei tassi è particolarmente basso. Se infatti i tassi a breve fossero al 6% e salissero al 7%, la riduzione del valore degli asset sarebbe solo dello 0,25%.

Quindi nella situazione attuale, quando i tassi sono bassi, i danni potenziali per le banche sono più alti. E ciò conduce all’esito che abbiamo visto. Alla lunga le banche vedono prosciugarsi la redditività.

Ciò spiega le conclusioni: “Abbiamo rilevato che l’impatto della politica monetaria sulla profittabilità delle banche è stata positiva nei primi due anni dopo la crisi (2009-10), ma è diventata negativa nei successivi quattro anni. Nei primi due il RoA è stato migliorato per una stima cumulativa dello 0,3%, ma in contrasto nel periodo successivo l’andamento del tasso a breve e l’appiattimento della curva dei rendimenti ha tagliato il RoA di uno 0,6% comulativo. Con una media annuale di RoA di 0,64 nel perido considerato (1995-2012) ciò vuol dire che fra il 2011 e il 2014 la banca media del campione ha perso un anno di profitti, in conseguenza dei tassi bassi e della compressione degli yield.

Insomma, non è tutto oro quello che luccica. Nemmeno quello delle banche centrali.

Puntate precedenti: I, II, III, IV, V

 

All’origine del bad equilibrium: le avversità della demografia

Dietro la matematica e la statistica, le astruserie della finanza e le alchimie delle banche, ci sono, dovremmo ricordarlo ogni momento, le persone. L’economia, malgrado tutto, rimane un fatto che riguarda gli esseri umani.

Siamo noi, perciò, la vera variabile indipendente del discorso economico, che invece lascia credere surrentiziamente sempre il contrario. Ossia che gli uomini siano ostaggio di categorie logiche, come la domanda oppure l’offerta. Ma senza uomini l’economia è puro esercizio di calcolo, astratto quanto vacuo. Se l’uomo non consuma non c’è crescita, dicono i manuali. Altresì se l’uomo non investe per creare ricchezza.

Tutto ciò per dire ciò ch’è ovvio: che servono persone per fare girare un’economia. Che sembra affermazione oziosa in un mondo che si va sovrappopolando. Ma invece così non è. Si sta sovrappopolando in alcuni posti e si sta spopolando altrove, e in particolare nelle economie avanzate, che se non fossero ricettacolo di immigrazione, sarebbero a crescita negativa da anni. Non di Pil: di persone. Che poi sono quelle che fanno il Pil, non il contrario.

Queste società tendono a dimenticare che l’invecchiamento a cui sono sottoposte è una potente zavorra delle loro economie. Sicché finisce che gli astuti manovratori delle faccende economiche  tendano ad eclissare quanto l’avversa demografia sia responsabile dell’andamento stracco del mondo degli affari. Per dirla in altro modo, possiamo pure portare i tassi a zero e così provare a spingere il credito per rilanciare, ad esempio, il settore immobiliare, ma se nessuno ha voglia di comprare casa, perché magari ce l’ha già e forse più d’una, ed è attempato abbastanza da non desiderare un trasloco, le case non si vendono.

Sarebbe avventato declassare la questione dell’invecchiamento al rango dell’aneddotica trattandosi invero di materia serissima. Lo dimostrano alcune simulazioni alle quali si sono dedicati volenterosi studiosi della Bis e di altri importanti istituti tutti con lo stesso tema: l’economia e l’invecchiamento.

Come dato di cronaca vale la pena ricordare uno dei capitoli della relazione annuale Bis dell’anno scorso, di cui ho già parlando discorrendo di ciclo finanziario. Qui leggo che “le tendenze demografiche di lungo periodo potrebbero esercitare ulteriori spinte sui prezzi delle attività. L’invecchiamento della popolazione comporta un calo della domanda di attività, in particolare di abitazioni. Gli studi in materia indicano che i fattori demografici potrebbero abbassare i prezzi delle abitazioni frenando in misura considerevole la crescita delle quotazioni immobiliari nei prossimi decenni. Laddove ciò si verificasse, verrebbe parzialmente invertito l’impatto dei fattori demografici che avevano sospinto al rialzo i prezzi delle abitazioni nel decennio precedente”.

Ed ecco perciò che l’aneddotica diventa previsione economica. I paesi dove l’avversa demografia rischia di impattare pesantemente sul ciclo immobiliare sono innanzitutto la Corea, il Giappone, il Portogallo, la Germania e l’Italia. E questo dovrebbe bastarci a rendere questo fatto interessante. Il grafico, illustrato a corredo della nota, dovrebbe dirci tutto quello che ci serve di sapere: a meno di clamorose inversioni del tasso di nascita o miracolosi influssi positivi derivanti dall’affluenza dei migranti, il mattone è destinato a deflazionarsi per naturale calo della domanda.

Tale previsione non tiene conto di un’altra circostanza: l’eccesso di offerta. Cosa succederà ai prezzi una volta che la generazione più anziana, ossia quella più dotata di mattone, passando a miglior vita, scaricherà sul mercato gli immobili che possedeva?

Un altro studio, elaborato qualche tempo fa dal Centre for European Economic Research (ZEW) “Aging and Urban House Prices”, analizza l’andamento di lungo periodo fra la grandezza e l’età delle popolazioni di 87 città tedesche fra il 1995 e il 2012 e ne deriva una simulazione secondo la quale “sotto le corrente proiezioni dell’andamento demografico”, si deduce che “l’invecchiamento della popolazione eserciterà una considerevole pressione al ribasso sui prezzi urbani negli anni a venire”. Ciò è importante sottolinearlo, una volta che si ricordi come “la casa è un asset dominante fra quelli dei portafogli delle famiglie” e che quindi “l’andamento della ricchezza è associata al prezzo delle abitazioni”.

L’importanza del mattone viene opportunamente messa in evidenza in un altro paper della Bis del 2012 (“Ageing, property prices and money demand”) dove molto opportunamente si mette in relazione il prezzo delle case con la domanda di moneta attivata dal risparmio. “Quando la generazione dei baby boomer raggiunse l’età lavorativa – spiegano gli autori – e iniziarono a risparmiare (coi redditi di allora, ndr) l’offerta di moneta e i prezzi immobiliari iniziarono una traiettoria crescente. Una volta che questa generazione andrà in pensione, queste dinamiche si invertiranno”. Quindi l’andamento del ciclo immobiliare avrà effetti diretti sul sistema monetario e finanziario tuttora difficile da comprendere.

In uno studio ancora precedente (“Ageing and asset prices”) sempre la Bis studiò come l’invecchiamento della popolazione abbia effetto su tutte le classi di asset, in particolare quelli immobiliari, utilizzando un database di dati che coprono gli anni dal 1970 al 2009. “Le stime – scrissero gli autori – mostrano che i fattori demografici colpiscono i prezzi reali delle case significativamente”. Le stime, formulate sulla base delle previsioni demografiche delle Nazioni Unite del 2008, ipotizzarono fino al 2050 una tendenza al calo delle quotazioni di 80 punti base l’anno negli Stati Uniti e ancora di più in Europa e Giappone dovuta proprio all’invecchiamento.

Ciò ovviamente non vuol dire che andrà così, essendo le stime null’altro che ipotesi. Vuol dire però che l’invecchiamento esprime un trend ribassista che, per essere invertita richiede un notevole sforzo economico da parte delle popolazioni. Popolazioni che però, in larga maggioranza, sono le stesse che esprimono tale tendenza. Ed è questa considerazione a rendere credibile la simulazione. Con l’aggravante che un calo del mattone ha effetti anche sugli altri asset finanziari. Pensate ad esempio al peso che il mattone ha nei fondi pensioni e nelle assicurazioni, ossia le entità che sempre più dovranno fare i conti con l’invecchiamento della popolazione, per non parlare del bilancio dello stato.

Di fronte a questa ricognizione, seppure frettolosa, mi pare emerga con chiarezza ciò che volevo dire dall’inizio. L’economia è fatta da persone. E persone che invecchiano fanno un’economia assai diversa da persone giovani.

In tal senso l’affidamento cieco che facciamo sulla politica monetaria è una pericolosa illusione

Il denaro a basso costo non fa ringiovanire.

O almeno non ancora.

(3/segue)

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All’origine del bad equilibrium: il ciclo(ne) finanziario

L’ennesima prova dell’indecisione della Fed, che ancora una volta vorrebbe ma non può alzare i tassi, conferma il disperato stato d’animo dei nostri stregoni monetari che pensano magicamente di invertire la bassa marea del ciclo economico generando ondate tumultuose di liquidità, quando invece le ragioni delle maree risiedono in complessi equilibri gravitazionali che sfuggono in larga parte alla volontà dei manovratori.

In questo esercizio di riempimento del mare asciutto con il secchiello della politica monetaria sfugge a molti la divaricazioni crescente che tale politica può provocare fra il ciclo economico propriamente detto, ossia quello che i notiziari si preoccupano ogni giorni di illustrarci con dati retoricamente dati in pasto alle opinioni pubbliche, e il ciclo finanziario. Concetto quest’ultimo che rimane oscuro, confinato nelle branche del sapere specialistico sebbene, come ha felicemente sintetizzato Claudio Borio, capo del dipartimento monetario della Bis, in un articolo del 2013, “discutere del ciclo economico senza considerare quello finanziario è come parlare di Amleto senza il principe”.

Il bad equilibrium in cui tutti noi ci agitiamo trova spazio proprio nei disallineamenti fra il ciclo economico e quello finanziario, che dai primi anni ’80, quando la liberalizzazione dei movimenti di capitale ha potentemente influenzato i flussi finanziari internazionali, sono diventati i veri determinanti del nostro stato di salute.

Concetto oscuro, perciò, che però deve essere compreso e che ci riporta a uno dei sacri graal dell’economia contemporanea: la ricerca di una teoria che unifichi la macroeconomia con la finanza.

Ci torneremo. Intanto però cominciamo da una definizione di ciclo finanziario che si può trovare nei libri di ragioneria. Per un’azienda un ciclo finanziario inizia quando sorge un debito di regolamento, ossia verso i fornitori, e si chiude quando sorge un credito di regolamento, ossia verso i clienti. In sostanza se un’azienda compra un bene e non lo paga subito accende un debito e innesta un ciclo finanziario che si conclude quando la merce corrispondente viene venduta a credito ai clienti. Detto in un altro modo ancora, il ciclo finanziario inizia con il sorgere dei debiti originati dalle operazioni di acquisto e termina con il sorgere dei crediti originati dalle operazioni di vendita.

Come si capisce da questa semplice definizione un ciclo finanziario sopravvive al trasferimento dei beni e ne è in qualche modo indipendente. E ciò spiega perché usualmente, se dalla singola azienda passiamo all’economia nel suo complesso, i cicli finanziari tendano a essere molto più lunghi del ciclo economico. “Nella sua misurazione tradizionale, infatti, il ciclo economico dura generalmente da uno a otto anni, mentre il ciclo finanziario si estende su 15‑20 anni”.

Nel suo rapporto annuale del 2014, da cui è tratto il virgolettato che precede, la Bis ha dedicato un lungo capitolo al ciclo finanziario e non a caso. L’istituto di Basilea, infatti, ha prestato moltissima attenzione a questo movimento che è tanto evidente quanto invisibile. Il ciclo finanziario infatti si determina nella psicologia degli operatori e si manifesta nel prezzo degli asset, che la liquidità gonfia nelle fasi di boom, distruggendosi in quella di bust.

Nella definizione che ne dà la Bis, i cicli finanziari “incorporano le interazioni
fra le percezioni del valore e del rischio, l’assunzione di rischio e i vincoli finanziari,
interazioni che, alimentandosi a vicenda, generano fasi alterne di espansione
finanziaria (boom) e contrazione finanziaria (bust)”. Detto più semplicemente, la mutevole percezione dei valori e del rischio, associati alla disponibilità di credito, conduce all’accumulo di debito privato e pubblico che, una volta che boom si passa al bust, sono capaci di innescare devastanti recessioni patrimoniali. Ossia crolli in cui la distruzione di valore degli asset conduce a crisi bancarie e mette a rischio la sostenibilità dei debiti.

Da qui sorge il tentativo di reflazionare l’economia, di cui ho già parlato.

Poiché i cicli finanziari tendono ad essere assai più lunghi di quelli economici la Bis ha cominciato a misurarli “tenendo conto della combinazione fra aggregati creditizi e prezzi degli immobili”. L’andamento del pil e delle variabili finanziarie, spiegano, possono essere divergenti per periodi anche lunghi, ma “il loro legame tende a ristabilirsi spietatamente quando le fasi di boom finanziario si trasformano in bust”. “Tali episodi spesso coincidono con crisi bancarie, che a loro volta tendono ad accompagnarsi a recessioni molto più profonde (recessioni patrimoniali) di quelle che caratterizzano il ciclo economico ordinario”.

Quindi la marea artificiale generata dalla liquidità, una volta che quest’ultima evapora perché la percezione degli agenti economici riprezza in maniera traumatica gli asset, ritraendosi, lascia sulla battigia banche mezze fallita e valori immobiliari traumaticamente ribassati, che a loro volta, funzionando il mattone come collaterale dei prestiti bancari, avvita una spirale depressiva di cui abbiamo fatto esperienza dopo il 2007.

In tale contesto, l’eccessivo indebitamento accumulato nel settore privato può zavorrare la crescita, con l’aggravante che “cercare di stimolare l’economia mediante bassi tassi di interesse incoraggia a contrarre ulteriore debito, finendo per aggravare il problema che si intendeva risolvere”.

Ad complicare la situazione, la circostanza che i cicli non sono mai un fatto isolato che riguardi un singolo paese. Proprio il movimento di internazionalizzazione dei capitali, infatti, ha di fatto globalizzato i cicli finanziari che “sono spesso sincronizzati nelle diverse economie: sebbene non si muovano necessariamente in parallelo, molte delle loro determinanti hanno un’importante componente internazionale”. “Le condizioni di liquidità tendono a essere altamente correlate nei diversi mercati. La mobilità dei
capitali finanziari finisce per omogeneizzare i premi al rischio e le condizioni finanziarie fra valute e paesi diversi, e offre una fonte di finanziamento marginale (determinante per il prezzo). Il capitale estero, pertanto, gioca spesso un ruolo di primo piano nei boom insostenibili del credito, amplificando gli andamenti degli aggregati creditizi, e potrebbe altresì portare a un’iperreazione dei tassi di cambio”. A ciò si aggiunga che “i cicli finanziari cambiano al variare del contesto macroeconomico e dei quadri di riferimento delle politiche. Ad esempio, a partire dai primi anni ottanta sono cresciuti in termini sia di durata sia di ampiezza”.

Quindi, proprio come le maree, le ondate del ciclo finanziario si propagano lungo gli emisferi, tanto più forti quanto più rilevante è il peso specifico di chi origina il ciclo, a causa dell’interrelazione ormai consolidata fra tutti i mercati finanziari.

Così il ciclo diventa facilmente un ciclone. Che prima o poi colpisce tutti.

(2/segue)

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All’origine del bad equilibrium: l’invenzione della reflazione

Per quanto sedotti dalle complicazioni degli economisti contemporanei, che esibiscono senza pudore alcuno astrusità matematiche e garbugli statistici, dovremmo ricordarci del sano senso comune del quale l’economia autentica è intrisa.

All’uopo è utile rileggere vecchi libri e metterli a confronto con i nuovi. Se ne può ricavare più di un motivo di riflessione o, meglio ancora, una spiegazione del nostro presente assai più sensata, e quindi comprensibile, di quella che ci viene offerta dai nostri moderni specialisti.

Sicché mentre mi attardavo a leggere una recensione di Luigi Einaudi del 1934, scritta per commentare uno dei lavori di Irving Fisher, il teorico della debt-deflation reso celebre dalla Grande Depressione, mi son imbattuto in un passo che è utile citare ai fini del nostro discorso economico.

Il rimedio individuato da Fisher per invertire il ciclo depressionario della deflazione da debiti, era quello che si chiamò reflazione, termine che Einaudi in altri saggi aveva giudicato confuso e di difficile comprensione.

Il ragionamento era più o meno questo: poiché i soggetti economici hanno fatto molti debiti, il loro peso è divenuto insostenibile a causa del calo dei prezzi. Quest’ultimo infatti, diminuendo il loro reddito, aumenta il peso relativo del servizio di questi debiti, che generano un costo fisso. Sicché i debitori corrono a vendere tutto ciò che possono per pagare le rate dei prestiti. Questa vendita disordinata di asset aggrava la caduta dei prezzi, e così via fino al disastro.

Sicché Fisher suggeriva che “si impedissero le liquidazioni fin dall’inizio, fermando con qualche incantesimo il livello dei prezzi a 100”, spiegò Einaudi. Ossia tenendo i prezzi stabili.

La questione dell’incantesimo è quella dirimente, visto che in questo consiste l’idea della reflazione. Oggi manuali ed enciclopedie definiscono la reflazione come una “moderata nuova inflazione successiva alla deflazione, innescata dalla iniezione di una maggior quantità di moneta, e che si accompagna solitamente a una ripresa economica”. Solitamente.

Ai tempi di Einaudi era un’idea che bisognava ancora analizzare e digerire, peraltro dovendo fare i conti con una visione dell’economia dove i cicli economici con i loro andirivieni venivano giudicati naturali e necessari, le crisi essendo la condizione normale dell’economia. I ribassi  venivano giudicati il giusto prezzo che avventurieri e sprovveduti dovevano pagare per ripulire il ciclo economico dalle sue scorie. Serviva insomma un malanno per recuperare la salute.

L’idea reflazionaria di Fisher perciò, che in qualche modo poi entrerà a far parte del corredo delle politiche economiche internazionali, piaceva poco a Einaudi e per diversi motivi. Il primo era che, impedendo l’aggiustamento, “non sono eliminate le scorie del ciclo precedente”. “Se i prezzi continuano ad essere remuneratori – osserva – perché affannarsi a ridurre i costi, ad abbandonare i metodi vecchi a buttare fra i rottami le macchine antiquate?”

L’incantesimo quindi, “opera nel senso di stabilizzare e perpertuare l’equilibrio proprio di un tempo passato, ritardando l’adattamento all’equilibrio di un tempo nuovo (…) debiti e interessi fissi si accavallano e si gonfiano (..) la macchina è divenuta pesante. Non scoppia perché incantesimo l’ha addormentata, ma agisce sempre più adagio e straccamente. Il che è ben peggio della crisi (…) Alla fine, quando il gonfiore è al punto massimo, la bolla d’aria scoppia. E’ la liquidazione, cruenta e ritardata, preferibile pur sempre alla morte per lisi”.

L’articolo si conclude con l’esortazione ai “governatori  dei banchi centrali” affinché “sappiano stringere in avvenire sempre meglio e sempre più tempestivamente i freni della macchina economica mondiale di cui essi sono i manovratori responsabili”.

Ora, il punto non è tanto condividere le convinzioni di Einaudi, sulle quali ognuno avrà le sue opinioni, ma confrontare le sue conclusioni generali con la nostra situazione particolare.

Che le economie internazionali vivano sotto un tentativo di incantesimo monetario da parte delle banche centrali mi pare fuor di dubbio. La reflazione, che pur tuttavia langue, è l’obiettivo dichiarato non soltanto nei target delle banche centrali, ma anche testimoniato dall’ossessione con la quale tutti noi guardiamo al livello generale dei prezzi.

Sostenere il pagamento dei debiti privati e pubblici contratti nel vecchio ciclo espansivo ora che il ciclo si è invertito, inoltre, è il chiaro intendimento dell’altra parte della manovra reflazionaria, ossia la conduzione dei tassi reali in territorio negativo, che nelle principali economie del mondo dura ormai da anni con la conseguenza che i rendimenti dei bond sono diventati pressoché nulli. Ciò, fra le altre cose ha provocato un aumento dei rischi, visto che gli investitori non hanno rinunciato alla loro fame di rendimento.

Il problema è che l’incantesimo, che come si osserva è alquanto datato, non funziona.

Le statistiche della Bis mostrano con chiarezza che il livello generale dei debiti, dal 2007 non è affatto diminuito, ma anzi è aumentato, portandosi dal circa il 100% del Pil di otto anni fa a più del doppio, in coerenza con quanto scritto da Einaudi ottant’anni fa. I paesi avanzati sono ormai oltre il 250%.

Similmente, l’incantesimo non funziona per la crescita, che procede “sempre più adagio e straccamente”, come le varie revisioni al ribasso della pil internazionale ci ricordano a ogni pie’ sospinto.

Sicché rimane il timore che, prima o poi, si verifichi l’esito finale prescritto da Einaudi. Ossia che “la bolla d’aria scoppi”. E su tale timore, che si esprime col moderno linguaggio della volatilità, si costruisce tutta la nostra attualità

L’equilibrio “proprio di un tempo passato” che ci si ostina a perpetuare con l’incantesimo monetario è diventato il bad equilibrium della contemporaneità.

E noi ci balliamo sopra.

(1/segue)

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Il tempo (economico) perduto dei saggi di Basilea

Volgo infastidito lo sguardo dallo stucchevole dibattersi sulla tragicommedia greca, che in tempi non sospetti paventavo avrebbe condotto ai sorprendenti esiti dei nostri giorni, stupito piuttosto di quanto sia elementale il nostro evo economico, malgrado la sua vanagloriosa complicazione.

Dietro la panoplia degli algoritmi e delle equazioni, s’agitano esserini primigeni, incarnazione degli istinti belluini che forgiano il carattere delle comparse di questa astrusa rappresentazione, ossia ognuno di noi, che come spiritelli bizzosi seminano zizzania per coglier grano, obbedendo così al più remoto dei nostri comandamenti: aver cura del nostro personale interesse infischiandocene degli altri, così come ci ha insegnato la vulgata dell’economia, poetando sui nostri vizi, trasformati d’incanto in pubbliche virtù.

Volgo lo sguardo e finisce che m’imbatto in una bella allocuzione di Claudio Borio, capo del dipartimento monetario della Bis, che in qualche modo restituisce realtà al dibattere economico, strappando il velo di Maya della sua complicazione e ricordandoci una terribile verità sostanziale, che il nostro evo tecnologicamente accelerato disperatamente tenta di obliare: nell’economia il tempo trascorre con grave lentezza.

“Proprio non si direbbe a giudicare dalla costante frenesia dei mercati finanziari – dice Borio – e dal perenne bailamme mediatico che l’accompagna. Ma il tempo economico procede lentamente, molto più lentamente. Gli andamenti che contano davvero, quelli che incidono sulla nostra vita, si sviluppano su periodi lunghi. Il tempo economico andrebbe misurato in anni o in decenni, non in minuti o in microsecondi”.

Questa evidenza mi stupisce non solo per la chiarezza e la fermezza con la quale viene declinata, ma per la sua controfattualità, rispetto all’istintivo accelerare alla quale ci costringe la quotidianità. Davvero pensiamo che questa frenetica corsa per salvarci dal default greco, peraltro ormai conclamato, o da tutti gli altri rischi che Borio ci ricorda con la consueta accuratezza, abbia un autentico senso economico? O sono soltanto epifenomeni che ci distraggono dalla corrente profonda dell’economia che sta segnando la nostra epoca?

A leggere i corposi resoconti che arrivano da Basilea, sembra l’uno e l’altro. La lunga relazione annuale, della quale lo speech di Borio è solo una presentazione, contiene tutto ciò che c’è da sapere su dove stia andando l’economia globalizzata.

Ma è anche una riflessione su una metamorfosi profonda che non dovrebbe lasciarci indifferenti, che il titolo del primo capitolo della relazione riepiloga e che Borio non a caso ripete a conclusione della sua prolusione: “È questa combinazione di tempi economici più lunghi e orizzonti più brevi che contribuisce in definitiva a spiegare le circostanze in cui ci troviamo, e come l’impensabile possa diventare ordinario prima ancora che ce ne rendiamo conto. Non dovremmo permettere che ciò accada”.

Viviamo in un tempo impensabile, quindi, che minaccia di diventare ordinario. “Un anno è passato, e l’economia mondiale non è molto lontana da dove l’avevamo lasciata nel giugno scorso”, ci ricorda Borio, sottolineando come “malgrado i progressi compiuti, l’economia mondiale fatica ancora a scrollarsi completamente di dosso il malessere post-crisi”.

“Il sintomo più visibile di tale malessere – osserva – è la persistenza di tassi di interesse bassissimi. Da un periodo eccezionalmente lungo, ormai, i tassi di interesse risultano straordinariamente bassi in base a qualunque parametro. Per giunta, i rendimenti negativi in alcuni mercati del debito sovrano, semplicemente senza precedenti, hanno esteso i confini dell’impensabile. La recente inversione di rotta dei mercati non cambia fondamentalmente la situazione”.

Tale situazione è “alla base della contraddizione fra l’assunzione di rischio elevata nei mercati finanziari, dove può essere dannosa, e quella modesta nell’economia reale, dove invece ci sarebbe grande bisogno di nuovi investimenti”.

A ciò si aggiunga che “da qualche tempo, tanto nelle economie avanzate quanto nelle economie emergenti, le politiche economiche si sono dimostrate inefficaci nel prevenire la formazione e il tracollo di squilibri finanziari estremamente dannosi, che hanno lasciato profonde cicatrici nel tessuto economico e reso più complesso il ribilanciamento a livello mondiale”. E questo contribuisce a rendere quotidiano ciò che, in un’economia sana, non dovrebbe esserlo.

“I tassi di interesse bassissimi prevalsi così a lungo potrebbero non essere quelli “di equilibrio”, propizi a un’espansione mondiale sostenibile ed equilibrata – avverte – . Anziché un semplice sintomo dell’attuale debolezza, essi ne sarebbero una delle concause, avendo alimentato onerosi cicli finanziari di boom e bust e ritardato l’aggiustamento. Le conseguenze sono un debito eccessivo, una crescita insufficiente e tassi di interesse troppo bassi. In sintesi, il basso livello dei tassi tende a perpetuarsi”.

Quello che servirebbe, invece, è “spostare l’enfasi dal breve al più lungo periodo”. “I mercati finanziari hanno compresso i tempi di reazione e le autorità hanno rincorso sempre più da vicino i mercati, in quella che è divenuta una relazione sempre più stretta e autoreferenziale. Ciò si è verificato proprio mentre l’emergere di cicli lenti di boom e bust finanziari ha allungato i tempi in cui si sviluppano gli andamenti economici che contano davvero”.

E l’idea stessa che possiamo abituarci allo straordinario – tassi bassissimi quando non negativi – ignorando le correnti profonde dell’economia, dovrebbe far tremare i polsi anche ai più coraggiosi. Perché significa che la ricerca del tempo perduto, alla quale ci costringe l’esegesi della cronaca e che i saggi di Basilea sommarizzano, è, a conti fatti tempo perso.

Nulla di più.