Etichettato: effetti del QQE giapponese

La scomparsa dell’inflazione in Giappone


Mancò il risultato ma non l’impegno, si potrebbe dire osservando l’ennesimo ritocco al ribasso delle stime di inflazione della banca centrale giapponese che proprio ieri il governatore Haruhiko Kuroda ha presentato a un meeting a Nagoya. Il governatore, seguendo ormai una lunga tradizione, ha commentato ottimisticamente lo stato dell’economia nipponica, che viene descritta in condizioni effervescenti, come dimostrano l’andamento del mercato del lavoro, dove la disoccupazione è quasi scomparsa, il restringimento dell’output gap e il miglioramento del clima di fiducia delle imprese.

Ma poi se uno va a vedere il numero magico che avrebbe dovuto legittimare tutte le operazioni delle banche centrali, ossia il tasso di inflazione, ecco che arriva la delusione: le previsioni di un indice di prezzi al consumo all’1,1% quest’anno sono state riviste al ribasso allo 0,8% e anche l’anno prossimo il CPI non dovrebbe andare più dell’1,4%, a fronte di una previsione dell’1,5. Immutato invece l’orizzonte 2019, all’1,8% di accelerazione dei prezzi. Che già sarebbe un risultato straordinario, visto che l’indice è depresso da oltre un ventennio.

Se allunghiamo lo sguardo e lo associamo alle numerose e complesse operazioni di stimolo monetario e fiscale avviate dal governo negli ultimi  dieci anni, il quadro non è più confortante.

e se risaliamo ancora più indietro nel tempo, notiamo che l’ultima volta che l’inflazione ha accelerato sopra il 3% è stato nel 1991, quando è iniziato il rumoroso ed eterno bust dell’economia giapponese.

Ora avrà sicuramente ragione il governatore Kuroda a magnificare i risultati raggiunti dal QQE giapponese, versione hard core del più moderato QE statunitense o europeo che di recente è stato ulteriormente potenziato con l’annuncio che la base monetaria verrà aumentata regolarmente fino a quando l’inflazione non sarà superiore al 2% per un periodo sostenuto. Un modo neanche troppo felpato per comunicare agli attori economici che farebbero bene a mettersi in testa che i prezzi dovranno aumentare. Ma è del tutto legittimo chiedersi quante siano le possibilità che questo obiettivo venga raggiunto. L’esperienza suggerisce un moderato pessimismo. Kuroda osserva che le condizioni del lavoro, che vanno tendendosi a causa della quasi piena occupazione, lentamente inizieranno a trasferire il costo delle retribuzioni crescenti sui prezzi, ciò malgrado molte imprese cerchino di recuperare questi costi ottimizzando i processi industriali. E’ evidente che solo il tempo potrà dirci se tale spirale salari/prezzi avrà davvero la forza di far salire l’inflazione. E sempre il tempo ci dirà se la sensazione – per adesso fondata su pochi dati di fatto – che le imprese stiano seriamente pensando di alzare i prezzi diverrà una realtà. Per il momento l’unica cosa che possiamo dire con certezza è che vent’anni abbondanti di politiche monetarie estreme non hanno giovato all’inflazione. La mitologia che anima gran parte dell’agire della banca centrale giapponese, e non solo del suo, fondata sul tasso naturale di interesse e la curva di Phillips, ha condotto a un sostanziale fallimento. La soluzione dell’enigma giapponese non è mai stato tanto lontana. E per questo seducente.

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L’ottimismo della volontà: il mistero del target d’inflazione al 2%


Sarà l’anno nuovo, che come sempre nutre speranze e alimenta fraintendimenti. Però mi è capitato di leggere in queste vacanze alcuni interventi  dei principali governatori delle banche centrali e ne ho tratto una illuminante rivelazione: l’aria è cambiata ai piani alti della finanza: nel 2015 andrà tutto bene.

Poi, certo, potete anche non crederci. Però i governatori fanno di tutto per convincerci che il 2015 sarà l’anno della riscossa. Che dopo un settennio di vacche magre, ne comincerà un altro in cui le vacche magari non arriveranno ad ingrassare, ma di sicuro torneranno in forma.

Il primo governatore di cui vorrei raccontarvi è il nostro beneamato Haruhiko Kuroda, a capo della BoJ, ossia della banca centrale  giapponese che più di tutti ha spinto sul pedale dell’allentamento monetario nell’ambizione di far ripartire se non la crescita almeno l’inflazione.

In un suo intervento del 25 dicembre, quindi al lordo del crescente buonismo del periodo festivo, Kuroda ha fatto sfoggio della sua migliore retorica, già dal titolo: “Welcome to the “2 Percent” Club”.

Capirete che mi sono drizzate le orecchie. Da tempo mi sforzo di capire senza alcun costrutto perché mai le principali banche centrali siano così ostinate nel perseguire questo target d’inflazione. Perché proprio il 2%? Sicché mi son bevuto Kuroda tutto d’un fiato.

Il governatore ha esordito ricordando che nel 2014 il Giappone ha portato a casa una crescita significativa dei profitti delle imprese, un tasso di disoccupazione al 3,5% e un tasso di inflazione, al netto degli effetti dell’aumento delle tasse sul consumo, cresciuto dell’1,25% rispetto alla fine del 2013 che motiva la convinzione secondo la quale le aspettative inflazionistiche in Giappone sono ancorate al rialzo. Che poi è quello che il Giappone cerca da un ventennio di ottenere.

Senonché in questo carosello di successi si sono infilate un paio di scocciature. L’aumento delle tasse sui consumi, intanto, e poi la repentina caduta dei corsi petroliferi, col risultato che nell’ottobre scorso l’inflazione ha rallentato allo 0,9, spingendo la Banca centrale a concedere ulteriori allentamenti monetari, il famoso qualitative and quantitative easing (QQE).

Ciò basta a Kuroda per affermare che “l’economia giapponese è sulla strada giusta per superare la prolungata deflazione e raggiungere il target di inflazione del 2%”.

Certo, ammette, “molti hanno detto che gli unici che hanno beneficiato del QQE sono le grandi imprese e le famiglie più ricche” e che ” i benefici non si sono estesi all’intera economia e che, anche se la deflazione è stata superata, per molti vivere diventerà più difficoltoso finché i salari non cresceranno in accordo con i prezzi”.

E tuttavia, osserva “credo che tutti coloro che oggi si lamentano non stessero meglio quando l’economia era in deflazione”. Che è come dire che il meno peggio non coincide necessariamente con il meglio. O almeno, non per tutti.

Rimane la convinzione che una volta raggiunto il target del 2% i benefici del QQE inizieranno a diffondersi più capillarmente. E per convincere gli uditori Kuroda sommarizza i guasti che un prolungato stato deflazionario provoca in un’economia, sui tassi, sui consumi e sugli investimenti. Situazione che ormai conosciamo bene.

Per questa ragione raggiungere l’obiettivo inflazionistico del 2%, sottolinea Kuroda, trasformerà l’economia giapponese. L’avvento del QQE, sottolinea, ha avuto effetti positivi sui tassi reali, non solo quelli nominali, ha stimolato la domanda e migliorato l’output gap, ossia la differenza fra Pil reale e Pil potenziale. E ovviamente ha fatto salire i prezzi. L’inflazione è una panacea per i debiti, fra le altre cose.

Circostanza più importante, ha orientato al rialzo le aspettative di inflazione, ossia quella miscela impalpabile di sentimenti che la cosiddetta scienza economica pretende di misurare con la statistica.

Se i cittadini si convincono che l’inflazione salirà, saranno più disposti a spendere, quindi le imprese investiranno di più, quindi tutti si indebiteranno più allegramente perché il valore reale del debito andrà a diminuire nel corso del tempo. “In un’economia che raggiunga il target inflazionistico del 2%, il comportamento razionale delle imprese e dei consumatori non sarà di accumulare contanti e depositi, ma di investire e consumare”.

Nulla di nuovo, insomma.

Quello che vale la lettura dell’intervento è altro. In particolare quando il governatore nota che molti si chiedono perché l’obiettivo inflazionistico debba essere proprio il 2%. Non sono solo io il curioso, insomma.

Ebbene, la risposta è disarmante: molte economie avanzate considerano un’inflazione del 2% in media una situazione di stabilità dei prezzi.

Che significa? Che in pratica, spiega il nostro banchiere, secondo questo modo di vedere avere un’inflazione al 2% equivale, nella percezione dei soggetti economici, a non avere inflazione, ossia che i prezzi mutano assai poco, senza che ciò impedisca, ai fini della contabilità nazionale e dei debiti di godere dei benefici dell’inflazione. In sostanza, l’inflazione al 2% c’è, ma non si vede. Così almeno dicono, forti della loro credibilità, le principali delle banche centrali.

Sottolineo che il target non è stato fissato in virtù di una qualche scienza, per quanto discutibile, che lo determini, ma perché le principali economie avanzate si son trovate d’accordo. Nulla di più politico.

Ed è qui, nella zona grigia in cui l’opinione incontra la matematica che l’economia rivela il suo volto più autentico di espediente retorico, ma politicamente assai concreto.

“Contrariamente a quanto si pensi – spiega Kuroda – una situazione in cui il CPI (indice dei prezzi, ndr) raggiunge una crescita del 2% l’anno in maniera stabile non è una situazione in cui i prezzi stanno aumentando sostanzialmente. Al contrario, in questa situazione le persone noteranno che i prezzi sono più o meno piatti e che nell’insieme crescono molto moderatamente”.

A fronte di questa percezione sociale, fondata su null’altro che un’opinione condivisa da un manipolo di banchieri centrali, ossia il nostro “Club del 2%”, la matematica ci dice che un’inflazione del 2% dopo vent’anni, utilizzando la formula dell’interesse composto, porta a un aumento dell’inflazione del 48,5%. Il che ha un effetto assai concreto sui debiti, pubblici e privati, che sulla formula dell’interesse composto sono basati.

Per non parlare del cambio. “Se l’inflazione annuale del 2% viene raggiunta dagli altri paesi, ma non dal Giappone – spiega – lo yen si apprezzerà in termini nominali”. Il che altera la parità dei poteri d’acquisto, che misura la differenza di costi fra un paese e un altro e quindi interferisce sui cambi reali. Se tutti i paesi hanno un’inflazione del 2%, tale parità rimane costante, e quindi anche i cambi rimangono stabili. Il trionfo dell’ottimismo della volontà.

D’altronde l’economia ha sempre postulato meravigliosi equilibri generali tanto perfetti quanto irrealizzabili. Ma intanto politicamente molto cogenti. Per vostra memoria, ricordo che il club del 2% comprende il Giappone, gli Stati Uniti, l’eurozona, il Regno Unito, il Canada, l’Australia, la Nuova Zelanda, la Svezia e la Svizzera.

Dobbiamo esser grati, quindi a Kuroda San che ci ha illuminato circa uno dei misteri più incomprensibili dell’epoca attuale: il target inflazionistico, ossia l’ennesimo dogma del nostro evo economicizzato, indebitato e squilibrato che si propone di usare l’inflazione per abbattere  i debiti, stabilizzare le valute, e in sostanza la crescita, senza che i cittadini abbiano a farci caso. Senza che abbiano a pagar pegno. Quasi a dire che si può espiare il peccato senza alcuna penitenza.

Come ogni club che si rispetti, come quello del 3% del deficit/pil, anche il club  del 2% promette il paradiso.

Basta crederci

(1/segue)

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