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La Giovine Europa (reloaded)
Ecco che i giovani diventano il lievito del dibattito europeo.
Sono loro, poverini, che dovranno pagare i debiti lasciati dai loro genitori.
Sono loro che dovranno farsi carico del fallimento epocale di un paio di generazioni, che tanto hanno preso quanto poco oggi vogliono restituire.
E’ in nome loro, perciò, che i governi devono farsi carico di tutto ciò che è necessario fare per rimettere in pista la macchina della crescita.
Perché in caso contrario questi giovani non avranno un futuro.
Ecco che i giovani diventano il denominatore comune di stati agli antipodi, come la Germania e la Grecia, tanto per citare gli ultimi due sui quali si è esercitata la retorica dei nostri banchieri centrali.
Vi sembrerà strano, ma anche la virtuosa Germania ha un debito nei confronti dei suoi giovani. Certo, differente da quello della Grecia, ma altrettanto cogente.
Della Grecia si è occupato Yves Mersch, che ha tenuto un discorso alla Minsky conference intitolato “Intergenerational justice in times of sovereign debt crises”, che già dal titolo è tutto un programma.
Il popolo greco, dice Mersch, ha compiuto “un aggiustamento fiscale di dimensione storiche e si è indirizzato sulla difficile strada delle riforme strutturale”. E tuttavia “l’inversione di tendenza è ancora a metà. C’è ancora molto lavoro da fare”.
Non basta mai.
Anche perché “la Grecia ha di fronte delle sfide fiscali di lungo termine collegate all’alto livello del debito pubblico e agli sviluppi demografici. Queste sfide sollevano profonde questioni di giustizia intergenerazionale”.
Che significa? Che se “il consolidamento fiscale parte oggi, allora la generazione che ha beneficiato di più dai suoi debiti giocherà il ruolo principale nella loro riduzione. Ma se il consolidamento verrà ritardato, allora le generazioni future dovranno farsi carico del peso della riduzione del debito, il che costituirebbe un diretto trasferimento a suo vantaggio dai suoi figli e nipoti”.
La decisione spetta a noi, sottolinea Mersch, visto che i nostri figli e nipoti non hanno voce in capitolo.
Il mito di Crono, che divora i suoi stessi figli, si attaglia perfettamente al caso greco.
Ma, sottolinea lo stesso Mersch, sono tutte le società occidentali chiamate a farci i conti.
Questo dilemma non riguarda solo la gestione del passato (i debiti), ma ha a che fare con il futuro (i debiti che dovremo fare).
Mersch calcola che da qui al 2060 ci saranno solo due lavoratori per un ultra 65enne, a fronte dei quattro di oggi. Quindi più previdenza e welfare, il cui peso si scaricherà sempre più su sempre meno persone.
“Questo significa che se le generazioni correnti saranno proattive nel riformare il sistema delle pensioni – dice – si potrà ridurre il peso sulle spalle delle generazioni future, sennò tale peso sarà sempre più gravoso”.
Da qui la domanda: “Riuscirà la generazione corrente a farsi carico delle responsabilità delle sfide fiscali di lungo termine nelle quali hanno avuto una gran parte di responsabilità?”
“E’ chiaro cosa sarebbe giusto fare in un’ottica di giustizia intergenerazionale”, conclude.
Le linee guida per la Grecia sono tre: consolidamento fiscale, aumento della competitività (leggi azione sul mercato del lavoro), attrazione di investimenti dall’estero. Quest’ultima prescrizione si attaglia perfettamente al ruolo di economia emergente che la Grecia si appresta a interpretare nel palcoscenico europeo.
Diciamo che è una sua specificità
Ma le altre due sono universali.
Lasciamo Mersch e andiamoci a leggere quello che dice Sabine Lautenschläger, vice presidente della Bundesbank, che ha parlato più o meno della stessa cosa a Francoforte il 26 ottobre scorso. Il suo discorso si intitola “The European sovereign debt crisis and its implications for the younger generation”.
Ve la faccio breve perché sono sicuro abbiate già capito. La nostra banchiera, dopo aver magnificato il successo della riforma del lavoro tedesca (le varie riforme Hartz) sottolinea che anche in Germania bisogna fare i conti con l’equità intergenerazionale.
Ma, aggiunge, è un problema che riguarda tutto il mondo.
La Germania, semmai, si trova un passo in avanti perché ha compiuto alcune riforme.
Ma altre ancora devono essere compiute, specie a livello europeo. A cominciare dall’Unione bancaria.
Degna di nota è la citazione che apre il suo discorso: “Il progresso degli enormi debiti, che al presente opprimono, e nel lungo periodo probabilmente rovineranno, tutte le grandi nazioni d’Europa, è stato pressoché uniforme”.
“Penserete che si tratta di una citazione recente – dice la frau – ma questa citazione data 1766 ed è tratta da uno scritto di Adam Smith, considerato il fondatore dell’economia classica”.
Come si vede, è sempre successo che i padri abbiano finito col mangiare i figli.
Salvo poi subire la ribellione dei superstiti. Che magari si sono rifiutati di pagare questi debiti in uno dei mille modi creativi con i quali si può fare (dal default, all’inflazione alla guerra). Tanto è vero che la nefasta previsione di Smith, nel lungo periodo, non si è mai avverata e gli stati europei sono ancora qui, malridotti, ma vivi e vegeti.
Fino ad oggi.
E tuttavia il problema rimane. “Molti giovani nei paesi europei colpiti dalla crisi stanno sperimentando una grande difficoltà a trovare lavoro e la crisi del debito proietta un’ombra sul loro futuro”, dice.
“Questi debiti saranno caricati sulle spalle delle giovani generazioni e il peso degli interessi restingerà notevolmente la politica fiscale”, aggiunge.
“Chiaramente, di conseguenza, le cause della crisi devono essere eliminate una volta per tutte nell’interesse delle giovani generazioni”, conclude.
E ancora una volta si pone l’accento sulle solite riforme, necessarie quanto ineludibili nel brevissimo periodo.
Per tutti.
Ecco perciò che i giovani diventano il migliore argomento per parlare di riforme del mercato del lavoro, della riorganizzazione della finanza europea e del necessario consolidamento fiscale.
Ecco che i giovani diventano la testa d’ariete di un’offensiva facilmente spendibile sui tavoli delle cancellerie europee.
Questo spiega bene perché ormai, di conseguenza, si sia perso il conto di quanti leader politici abbiano speso parole a favore dei giovani, sempre evitando di aggiungere che saranno proprio i giovani di oggi (e non i garantiti gonfi di diritti acquisiti) a pagare il prezzo maggiore della correzione storica di un andazzo traballante.
Ecco che il giovani diventano l’argomento principe della retorica “sviluppista” che, volente o nolente, non potrà far altro che esacerbare il conflitto intergenerazionale che sta maturando nell’eurozona e nel mondo, al grido di “giovani di tutto il mondo unitevi”.
D’altronde a chi meglio dei giovani può rivolgersi un’istituzione giovane come l’Unione europea?
La nuova Giovine Europa ha bisogno di una Santa allenza dei giovani da contrapporre alla Santa allenza degli Stati sovrani, artefici neanche troppo celati del dissesto finanziario del nostro tempo, come quella che si tentò, ai tempi di Mazzini, contro la Santa Allenza dei sovrani tout court.
A quel tempo l’esprimento fallì.
Ma ancora non c’erano le banche centrali.
Un altro trilemma per l’eurozona
Siccome viviamo tempi difficili non basta più dover affrontare semplici dilemmi.
Ormai l’eurozona si trova di fronte solo trilemmi.
Deve vedersela con un celebre trilemma monetario, e deve far fronte ad un altro impegnativo trilemma politico.
Ma da quando è esplosa la crisi è arrivato un altro trilemma: quello finanziario.
L’ultimo a parlarne è stato Vitor Constancio, vide presidente della Bce, in una recente conferenza organizzata dalla Banca Santander a Madrid. Il tema ve lo potete immaginare: l’Unione Bancaria.
Lontano dal clamore delle cronache, i nostri banchieri centrali si stanno dando un gran daffare per spiegare urbi et orbi (ma sempre in ambienti tecnici) la bellezza e la bontà della nascente Unione bancaria. Tutti costoro concordano sull’origine della crisi europea e intravedono nella nuova unione bancaria il rimedio più sicuro per curare i sintomi del malessere sin dalla loro origine, che poi è molto semplice: il credito facile.
E’ stato il credito facile infatti a generare gli afflussi di denaro in conto capitale dei PIIGS e il relativo deficit sulle partite correnti. “L’esposizione delle banche dei paesi core verso i paesi periferici è più che quintuplicata dal 1999 al 2007”, dice il nostro banchiere.
E’ stata la ritirata del credito facile a rendere insostenibili debiti privati gonfiati fino allo sfinimento dal credito facile e a provocare l’esplosione del debito pubblico, chiamato a metterci una pezza e quindi finito in crisi anch’esso.
Dulcis in fundo, è arrivata la crisi dello spread, conseguenza diretta della crisi del debito pubblico, che ha “costretto” le banche a farsi carico del finanziamento dei debiti sovrani, opportunamente foraggiate dalla Bce.
Così siamo arrivati alla fine del problema che corrisponde all’inizio: le banche.
Sono le banche, oggi, il problema dell’eurozona, come ieri, secondo i nostri banchieri centrali, erano le monete volatili.
Sicché è del tutto logico che all’unione monetaria succeda un’unione bancaria.
Questo è il succo della narrazione di Constancio che prepara la ricetta che conosciamo bene: meccanismo unico di supervisione e poi di risoluzione, una volta chiarito a norma di legge chi dovrà mettere i soldi sul tappeto per tappare eventuali falle scovate dal supervisore sovranazionale una volta che la Bce avrà concluso il suo assessment sulle principali banche europee a fine ottobre del 2014.
“Il Single supervisory mechanism – spiega Constancio – inizierà formalmente la supervisione nel novembre 2014 – sottolinea Constancio – ed è stato disegnato per risolvere il trilemma finanziario provocato dal livello nazionale di supervisione, al fine di garantire l’integrazione e la stabilità finanziaria spostando la supervisione a livello sovrazionale”.
Ecco il punto: anche il trilemma finanziario, al pari degli altri due, si risolve spostando potere dal livello nazionale a quello sovranazionale.
Vale la pena approfondire.
Il concetto di trilemma finanziario è stato elaborato da Dirk Schoenmaker, studioso di finanza bancaria, che nell’aprile 2011 ha pubblicato uno studio (“The financial trilemma”) che ha scalato le classifiche delle banche centrali.
Schoenmaker è una delle firme illustri della Duisenberg school of finance, presso la quale ha pubblicato diversi paper dedicati proprio all’analisi delle questioni bancarie europee, che è un’istituzione intitolata, non a caso, al primo presidente olandese della Bce, Wim Duisenberg.
Questo serve a contestualizzare un po’ l’analisi.
Al termine di una lunga dissertazione, il nostro economista definisce il nuovo trilemma in questi termini: non è possibile avere allo stesso tempo la stabilità finanziaria, banche transfrontaliere e la supervisione nazionale. Bisogna scegliere di rinunciare a una cosa per avere le altre due.
Il trilemma, insomma, ricalca lo schema classico: fisso tre opzioni, le rendo simultaneamente incompatibili e “suggerisco” a quale rinunciare.
Un espediente retorico.
E sarà pure un caso, ma tutti i trilemmi finiscono con la rinuncia a qualcosa di nazionale.
Infatti lo stesso Schoenmaker, pochi mesi dopo, nel gennaio 2012, pubblica un altro paper dal titolo “Banking Supervision and Resolution: The European Dimension”, dove propone una personalissima soluzione al trilemma da lui stesso inventato: “Bisogna muovere la supervisione bancaria dal livello nazionale a quello sovranazionale. E fare ciò renderà necessario mettere in mani europee la risoluzione delle crisi, basata su una credibile dotazione finanziaria e accordi legali”.
Ma non è che bisognava essere economisti di spicco per trovare questa soluzione. Alla stabilità finanziaria, infatti, nessuno vuole o può rinunciare. Che le banche siano ormai transfrontaliere è un dato di fatto, da quando c’è totale libertà di movimento dei capitali. Rimane la supervisione nazionale, e capirai: se ne può tranquillamente fare a meno per avere le altre due cose.
E infatti a giugno 2012 il Consiglio europeo, pressato dalla crisi e dalla frammentazione finanziaria europea, fissa i paletti della futura Unione bancaria, fissando i tre pilastri, primo fra i quali la supervisione, che viene affidata alla Bce.
Sicché si capisce beneperché Constancio concluda manifestando la convinzione che “la lezione più importante che abbiamo imparato è che un mercato finanziario unico con una moneta unica necessita di un meccanismo sovranazionale unico di supervisione e di risoluzione”.
E poi dice che gli economisti non servono.
Servono eccome.
In tutti i sensi.
L’eurozona regola i conti con l’estero ma non con se stessa
Il paradosso dell’eurozona è di avere i conti esteri sostanzialmente in buona salute e i conti interni sballati.
Da un parte abbiamo un posizione netta degli investimenti che migliora la sua posizione debitoria e i saldi di conto corrente positivi già da due anni. Dall’altra abbiamo gli sbilanci dei saldi Target 2, che seppure migliorati dall’inizio della crisi, mostrano ancora sostanziali squilibri fra i saldi creditori dei paesi forti, Germania in testa, e quelli debitori dei PIIGS.
Perché succede questo?
E’ una di quelle domanda da un milione di euro.
Prima di provare a delineare una risposta, tuttavia, è utile dare un’occhiata agli ultimi dati diffusi dalla Bce.
A fine 2012 la NIIP (net international investment position) dell’area ha registrato debiti netti per 1,3 trilioni di euro, il 13% del Pil dell’eurozona, in calo di 193 miliardi rispetto al dato del 2011, quando il debiti neti ammontavano al 15,4% del Pil. Per la cronaca, tale risultato è migliore del dato registrato a fine 2007, quindi prima della crisi, quando i debiti netti erano al 14,2% del Pil. L’anno dopo sprofondarono al 17,3%.
Prima di proseguire è utile ricordare cosa sia la NIIP, visto che non tutti lo sanno. In sostanza questo indicatore misura la differenza algebrica fra il valore degli asset esteri di un paese e i suoi debiti (ossia il valore degli asset detenuti da paesi esteri sul suo territorio). Giova sottolinare che la NIIP, che in sostanza dà la misura del debito estero di un paese (di un’area nel caso dell’eurozona), include sia il debito pubblico che quello privato.
Questa definizione da sola dice molto, ma non dice tutto. Per capire se il mio debito estero è fonte di instabilità per un paese, devo andare a vedere il saldo del conto corrente della bilancia dei pagamenti. Una posizione netta negativa sull’estero per gli investimenti, infatti, vedrà un afflusso sul conto finanziario della bilancia dei pagamenti (ingresso di capitali, segno più, quindi debito) e una voce negativa alla voce redditi del conto corrente, visto che ai debiti di solito corrisponde una passività, ossia il pagamento di un interesse ai creditori.
Nell’eurozona, tuttavia, il saldo del conto corrente è positivo.
Nel secondo quarto del 2013, infatti, il saldo cumulato per i quattro trimestri precedenti mostra un surplus di 182,8 miliardi di euro, pari all’1,9% del Pil, in crescita rispetto allo 0,6% (56 miliardi) registrato nell’anno precedente. Tale miglioramento è dovuto all’aumento delle esportazioni di beni (da 44,8 miliardi a 147,6 miliardi di euro), all’aumento della voce redditi (da 41,3 miliardi a 58,4), ossia quella che misura la redditività degli investimenti diretti o di portafoglio dei residenti all’estero, e dei servizi (da 83,8 miliardi a 93,8).
Cosa significa questo?
Che attualmente il debito estero dell’eurozona non è una fonte di instabilità, come dimostrano gli afflussi di capitali sul conto finanziario, e che, malgrado tali afflussi, si sta riducendo.
Ci sono altre cose utili che vale la pena sapere. La prima è che il 20% degli investimenti diretti della zona euro all’estero, che totalizzano 5,9 trilioni, sono negli Stati Uniti e altrettanto nel Regno Unito che ricambiano con il investimenti diretti nell’eurozona pari al 26% (Gli Usa) e al 23% (UK) del loro totale. Un altro 10% si è allocato in Svizzera e solo il 6% in paesi europei non aderenti all’euro. Gli investimenti diretti di non residenti nella zona euro, invece, ammontano complessivamente a 4,4 trilioni.
Gli investimenti di portafoglio degli euroresidenti, che valgono 5,3 trilioni, pesano invece il 31% negli Stati Uniti e il 20% in UK. Una differenza che riflette evidentemente il ruolo di valuta di riserva del dollaro.
Un’altra cosa interessante è che l’aumento di valore degli asset europei detenuti dall’estero, azioni e obbligazioni, nel 2012, ha pesato ben 400 miliardi. Tale aumento di valore corrisponde – di fatto – ad un aumento del debito sottostante a tali obbligazioni,mentre l’andamento del tasso di cambio (in rialzo rispetto al dollari de 2% e rispetto allo yen del 13%) ha pesato solo cinque miliardi in più. In pratica significa che l’eurozona, nel 2012, è stato il paradiso degli investimenti di portafoglio. E infatti, a fine 2012, il totale degli asset di portafoglio detenuti dall’estero è arrivato a quota 8,4 trilioni di euro.
Quindi i paesi esteri hanno investimenti diretti nell’eurozona per 4,4 trilioni e investimenti di portafoglio per 8,4, quasi il doppio.
C’è ancora qualcuno che dubita della supremazia della finanza sull’economia reale?
L’ultima cosa che è utile sapere è che i milglioramenti del saldo di conto corrente, lato merci, sono dovuti principalmente alla diminuizione dei deficit verso gli altri paesi dell’Ue con i quali l’eurozona commercia, passato dal 124,3 miliardi a 54,6, poi verso il Giappone (da 9,6 miliardi a 0,8) e da un aumento del surplus nei confronti del Regno Unito (da 47,1 mld a 58) e degli Stati Uniti (da 68 miliardi a 76,5).
Ciò mostra, scrive la Bce nella sua nota di presentazione, che “i paesi dell’Ue non aderenti all’euro, escluso il Regno Unito, rappresentano il partner primario commerciali dell’eurozona, pesando il 16% del totale dei beni e servizi esportati, seguiti dal Regno Unito e dagli Stati Uniti”.
L’Asia, insomma, è una promessa più che una realtà.
Tutto ciò permette alcune conclusioni.
1) L’eurozona ha corretto via austerità i conti con l’estero, ma al contempo si caratterizza sempre più come una piazza finanziaria. Dall’estero vengono a comprare bond e azioni in Europa perché assicurano buoni rendimenti grazie alla crisi degli spread, ossia ciò che ha provocato l’austerità;
2) I principali partner della zona euro sono altri europei, inglesi compresi, e poi gli americani.
Ora il fatto è che malgrado il sostanziale equilibrio dei conti esteri, l’eurozona è squilibrata al suo interno, dove creditori e debitori non riescono più ad incontrarsi malgrado l’appartenenza a un’area comune.
Vale la pena ricordare che ad agosto 2012 (dato Bankitalia) la posizione debitoria complessiva registrata dai saldi Target 2 di Grecia, Spagna, Irlanda, Italia e Portogallo verso la Bce aveva toccato i 1.000 miliardi, a fronte di crediti per 940 da parte di Germania, Finlandia e Paesi Bassi. L’austerità ha solo leggermente migliorato questo stato di cose. La ripresa della fiducia nei confronti dell’euro, infatti, ha fatto tornare il capitale verso i PIIGS. Denari che sono venuti in parte dagli altri paesi dell’eurozona e in parte dall’estero, come mostra l’andamento degli investimenti di portafoglio esteri nell’eurozona.
Stando così le cose dovrebbe essere chiaro a tutti che sarebbe molto più razionale, anche ai fini dell’equilibrio dei conti esteri dell’eurozona, che fossero i paesi creditori dell’area a investire i loro surplus nei paesi debitori. Ciò consentirebbe di far ripartire il commercio interno e sviluppare ulteriormente le relazioni con gli altri partner non eurodotati, che però sono il nostro principale partner commerciale.
Il problema è che manca lo strumento capace di riattivare questo circuito virtuoso.
La buona notizia è che già in passato, nel secondo dopoguerra, l’Europa si è trovata in questa situazione e ne uscì con un sistema di clearing centralizzato che in pochi anni consentì di far ripartire gli scambi e le economie disastrate di quel tempo.
L’Europa conobbe la sua età dell’oro.
Lo strumento si chiamava Unione europea dei pagamenti.
L’abbiamo dimenticata.
Oltre che con l’estero, l’eurozona dovrebbe imparare a regolare i conti con se stessa.
Il capitale di Bankitalia e le tre scimmiette sagge
Bisogna scomodare il folklore popolare giapponese per capire l’ultima geniale manovra che sta maturando della nostra classe dirigente.
Proprio come le tre scimmiette sagge nipponiche, industriali, banchieri e politici italiani non vedono, non sentono e non parlano.
Fanno un’eccezione quando si tratta del bene comune, ossia le famose buone intenzioni di cui è leastricato l’inferno. E allora le nostre scimmiette diventano assai loquaci, attente e occhiute, pure a scapito della saggezza.
Faccio un passo indietro e vi do alcune notizie.
La prima, ne ho già parlato, è l’inizio della asset review da parte della Bce del bilanci delle banche europee con tutto ciò di turbolento che può provocare sulle nostre banche.
La seconda notizia, collegata alla prima, è arrivata da uno studio di Mediobanca, secondo il quale i crediti dubbi delle banche italiane (sofferenze, incagli, ristrutturati e scaduti) sono passati dal 2,7% del totale nel 2007 al 9,5% del 2013: +251%, mentre il peso di questi crediti dubbi sul totale del capitale netto è arrivato all’81%.
La terza notizia l’ha data il presidente di Confindustria Squinzi, che ieri ha deliziato la Commissione Bilancio del Senato con una lunga e articolata allocuzione che conteneva un passaggio che mi ha fatto tornare in mente le famose tre scimmiette.
Infatti Squinzi ha suggellato col peso della sua autorevolezza la vulgata secondo la quale la rivalutazione delle quota di Bankitalia potrebbe portare al fisco circa 1,6 miliardi di euro. L’attuale valutazione di 156 mila euro delle quote di Bankitalia, ”è assolutamente lontana dalla realtà”, spiega. “Secondo alcuni economisti il valore reale si aggirerebbe su 23-24 miliardi, ma mi dicono che questo non è tecnicamente possibile. Gira voce di una valutazione di 7-8 miliardi su cui anche Bankitalia sarebbe d’accordo. Questo permetterebbe, con un’imposizione fiscale del 20%, di recuperare 1,5-1,6 miliardi da destinare agli impegni richiesti dalla Finanziaria”.
Ma la notizie, vedete, non è tanto l’entità dell’incasso fiscale, che comunque è un’inezia rispetto al bilancio dello Stato, ma il fatto che la voce degli industriali si sia unita a quelle di tanti politici e banchieri, che sulla storia delle quote di Bankitalia ci stanno costruendo la loro fortuna.
Le nostre tre scimmiette hanno identiche vedute sul capitale di Bankitalia.
Prima di approfondire, è utile ricordare che Bankitalia ha un capitale sociale le cui quote, per motivi storici che potete facilmente approfondire on line, sono in capo ai principali gruppi bancari e assicurativi italiani e all’Inps. L’argomento della proprietà privata delle quota della banca centrale è talmente gettonato fra chi segue questa roba (e tanto benzina fornisce al fuoco delle polemiche sulla finanza ladrona) che non vale la fatica riproporlo.
Anche perché non è questo quello interessante.
La cosa interessante è la convergenza delle tre scimmiette.
La nostra classe dirigente è fatta così: è sempre d’accordo quando si tratta di fare operazioni per il bene pubblico coi soldi pubblici.
Specie quando sembrano a costo zero e a somma positiva per tutti.
Ma è davvero così?
Rivalutare le quote di Bankitalia, quindi portare il valore attuale a 7-8 miliardi, significa che, in teoria ci guadagnano tutti.
Lo Stato guadagna il suo bel dividendo fiscale, calcolato secondo l’aliquota del 20% (redditi da capitale) perché la rivalutazione contabile delle quote corrisponde a un capital gain per le banche. E magari col suo miliardo e rotti abbassa un altro po’ il cuneo fiscale per le imprese e i lavoratori. In generale, la politica ci guadagna la sua bella figura, per aver risolto una situazione senza gravare sulle nostre tasse.
Le banche guadagnano sia sul lato dei redditi, sia – cosa più rilevante – sul lato del capitale, visto che una rivalutazione degli attivi di sicuro che gonfierà i suoi requisiti patrimoniali le metterà in condizione di affrontare il setaccio di Bruxelles con più tranquillità.
Le imprese ci guadagnano perché, cuneo fiscale a parte, avere banche più stabili di sicuro è meglio per un sistema industriale che ha debiti intorno al 100% del Pil.
Tutti contente, le nostre scimmiette sagge.
E Bankitalia, dice Squinzi “sarebbe pure d’accordo”. Chissà cosa ne dice la casa madre a Francoforte.
Ma noi che non siamo scimmiette lo sappiamo che non esistono pasti gratis.
E quelli fra di noi più avveduti sanno anche che di solito chi contrabbanda pasti gratis finisce sempre con lo scaricarli sul bilancio dello Stato.
Chi ha memoria ricorderà quanto le nostre tre scimmiette sagge siano brave in tale esercizio.
Ma che danni può fare una proposta del genere?
Il primo danno è reputazionale. Non appena la politica ha provato a lanciare il sasso, nel settembre scorso, il Wall Street Journal ha scritto un articolaccio sui trucchi che le banche italiane stanno mettendo in piedi per salvarsi dall’occhiuto esame della Bce (noi e quelle spagnole, a dirla tutta). E questo certo non è un buon viatico per la finanza nostrana e il sistema Paese che dipende dagli acquisti esteri dei suoi titoli di stato.
Ma quello sarebbe il meno.
Il peggio è l’aspetto economico.
La Banca d’Italia, infatti, paga ogni anno un dividendo ai propri azionisti come fa una qualunque società pescando le risorse dall’utile d’esercizio.
Lo statuto di Bankitalia, agli articoli 39 e 40 disciplina con chiarezza le modalità e le quantità di tale dividendo. In particolare determina che (art. 39) “ai partecipanti sono distribuiti dividendi per un importo fino al 6% del capitale”. In aggiunta a questa cifra “può essere distribuito ai partecipanti, ad integrazione del dividendo, un ulteriore importo non eccedente il 4% del capitale. La restante somma è devoluta allo Stato”.
L’aticolo 40 dello statto disciplina i frutti delle riserve della Banca. Da tali rendimenti può “essere prelevata e distribuita ai partecipanti, in aggiunta a quanto previsto dall’articolo 39, una somma non superiore al 4% dell’importo delle riserve medesime, quali risultano dal bilancio dell’esercizio precedente”.
Vediamo in pratica cosa comporta.
A pagina 298 dell’ultima relazione annuale della Banca d’Italia leggo le proposte del Consiglio superiore, ossia l’organo che amministra la Banca, relative alla distribuzione dell’utile dell’esercizio 2012, che è stato pari a circa 2,5 miliardi. Di questi, 500 milioni sono finiti a riserva. Altri 500 milioni sono andati a riserva straordinaria. Ai partecipanti al capitale, ossia le banche azioniste, sono stati riservati utili per 9.360 euro (il 6% del capitale) e altri 6.240 euro (il 4% del capitale) aggiuntivi. Allo Stato è andata la somma di 1.5 miliardi di euro. Poi, a norma dell’articolo 40, quindi a valere sui frutti delle riserve, i partecipanti al capitale hanno incassato altri 70 milioni di euro, “pari allo 0,5% dell’ammontare complessivo delle riserve”. Pertanto ai partecipanti al capitale sono andati 70,041 milioni di euro, pari a circa 233 euro per ogni quota detenuta.
Questo è lo stato dell’arte.
Ma cosa succederebbe se, per la gioia delle nostre scimmiette sagge, il capitale della Banca d’Italia anziché valere 156mila euro valesse 7 miliardi?
Facile: il 6% di 7 miliardi vale 420 milioni di euro. Un altro 4% vale 280 milioni. Quindi il totale del dividendo dovuto ai partecipanti sarebbe di 700 milioni di euro. Soldi che, di conseguenza, non sarebbero più trasferiti allo Stato, che non avrebbe più incassato 1,5 miliardi ma solo 800 milioni.
A bocce ferme basterebbero un paio di anni di questi dividendi per recuperare le tasse versate allo Stato in sede si rivalutazione per il capital gain. Un affarone per la banche (a spese dello Stato). Peraltro i minor incassi per lo Stato dovrebbero essere coperti da nuove entrate o nuovi tagli. Ma su questo tutti glissano.
E poi c’è un’altra questione.
Una legge del 2005 imponeva già al Tesoro di rientrare in possesso delle quote detenute dalle banche in cambio di un corrispettivo. E’ chiaro a tutti che quote rivalutate a 7 miliardi provocherrebero un corrispettivo assai più gravoso per le casse dello Stato rispetto a quote valutate 156 mila euro un domani che tale operazione si dovesse concretizzare.
Vi è chiaro il gioco a questo punto?
Le banche, con la benedizione dei politici e della Confindustria, darebbero oggi uno per riprendere 10 o più in un tot di tempo.
E io pago, direbbe Totò.
Ma su queste conseguenza le tre scimmiette tornano ad essere sagge: non vedono e non sentono.
E, soprattutto, non parlano.
Equilibrio vuol dire fiducia (lo dice anche la Bce)
L’economia di oggi è una (pseudo) scienza rozza, che dissimula con l’astrusità delle formalizzazioni la sua debolezza epistemologica e la grossolanità dei suoi presupposti.
Vi sembrerà un paradosso, ma l’economia era più vicina alla realtà all’epoca d’oro della filosofia morale, quella di Adam Smith per intendersi, se per realtà si intende il modo in cui vanno le cose e non il paradiso artificiale che descrive come dovrebbero andare. Il mondo dei modelli formali che ti fanno scervellare, salvo poi scoprire che hanno la capacità prospettica di un neonato.
Ma non è tanto questo il problema. L’economia, scegliendo la matematica ha scelto implicitamente di studiare solo ciò che si può misurare, ossia ciò che è quantitativo. Così facendo ha tagliato fuori dal suo campo d’indagine l’altra metà del cielo, ossia ciò che è qualitativo, effimero.
Ha reciso le sue radici.
Prendiamo la fiducia, ad esempio. Sappiamo tutti che senza fiducia l’economia semplicemente non esisterebbe (per non parlare del credito). Eppure l’economia non se ne occupa. La lascia sullo sfondo. Si limita a postularla, come qualcosa di evidente di per sé. Perché la fiducia sappiamo tutti cos’è.
E sappiamo altresì che fatica ad entrare in un sistema di equazioni.
Ciò non impedisce che qualcuno ci provi.
Alcuni economisti, che evidentemente sentono il richiamo della foresta della filosofia, hanno prodotto (pochi) studi interessanti sul rapporto fra la cultura di un paese, in particolare la sua religione (pensate a Max Weber) e il suo sviluppo economico, arrivando all’incredibile risultato che effettivamente c’è un nesso.
Chi l’avrebbe mai detto? Chissà quanta matematica è servita per arrivarci.
La cosa si fa più interessante quando il richiamo della foresta si fa ancora più forte e si cerca di mettere insieme il diavolo e l’acqua santa, ossia i numeri e i sentimenti, ipotizzando ad esempio che si sia un correlazione fra il grado di fiducia e il livello di squilibrio di cui soffre una paese. Nel senso che sono inversamente proporzionali.
Un punto di vista nuovo: di solito gli economisti si occupano della correlazione fra fiducia e sviluppo economico, che è anche più immediata e altrettanto sfuggente per carenza di informazioni statistiche sui sentimenti.
Questa novità, ossia la ricerca di una correlazione fra fiducia e squilibrio, è finita in un paper della Bce pubblicato alcune settimane fa: “Macroeconomic imbalances: a question of trust?” che è davvero istruttivo leggere. Se non altro per avere un’idea di come lavorano gli economisti.
Che poi sono gli stessi che dicono di conoscere la ricetta del nostro benessere.
Cominciamo dalle definizioni. Ognuno di noi pensa probabilmente una cosa diversa quando si parla di squilibrio. Gli autori lo intendono come un indice (ecco la matematica) che assembla il saldo fiscale, il saldo del conto corrente e il tasso d’interesse. Ogni altra cosa non viene considerata. Tipo, per dirne una a caso, il livello di debito delle famiglie.
Il terreno si fa più scivoloso quando entra in gioco la fiducia, categorizzata come “fiducia interpesonale” che viene considerata il driver del capitale civico di un paese.
Tale “fiducia” viene misurata attingendo a una serie di dati estratti dal World Values survey e dall’European values study nelle tre decadi 1980, 1990 e 2000 e poi a questi dati vengono associate sei modalità nelle quali, secondo gli autori, si declina la fiducia: onestà, obbedienza, fede nell’autodeterminazione, affinità per la concorrenza, lavoro etico, importanza riconosciuta alla parsimonia.
Questa è la fiducia di cui stiamo parlando, non quella che pensate voi, che magari al concetto di fiducia interpersonale associate altre caratteristiche tipo la generosità, l’altruismo, la disponibilità, eccetera.
Da tali presupposti si sviluppa l’analisi che, nella sua parte finale, è ovviamente dedicata all’eurozona.
La domanda che gli studiosi si pongono è la seguente: l’introduzione dell’euro ha attenuato o amplificato gli effetti della cultura dei singoli paesi sui loro squilibri economici?
Detto in altre parole: si è verificata almeno la convergenza sui valori “effimeri” visto che sui valori economici c’è ancora parecchio da lavorare?
Insomma: l’euro è servito a “educare” in qualche modo ai valori giusti (quelli di prima, non altri) i paesi (macroeconomicamente) squilibrati?
La congettura che gli autori si prefiggono di dimostrare col solito modellino matematico è che “le società siano più capaci di affrontare gli squilibri macro (come prima definiti, ndr) quando nel paese prevalgono alti livelli di fiducia interpersonale (come prima definita, ndr), la qualcosa accade quando il capitale civico è più sviluppato”.
Per fortuna gli autori si rendono conto della complessità del reale e perciò fanno quello che di solito fanno gli economisti quando devono dimostrare qualcosa: semplificano all’osso. E poi travestono con i numeri le proprie semplificazioni. Il che dà loro quell’aura preziosa di scientificità che rende tali congetture miracolosamente credibili.
Alla fine delle formule, le conclusioni confermano l’ipotesi: “Abbiamo trovato – scrivono – una forte prova del link fra la fiducia interpersonale e gli squilibri economici”. “Abbiamo riscontrato delle differenze nella fiducia fra i paesi dell’eurozona a bassi tassi e ad alti tassi, che però non sono statisticamente significanti e non abbiamo trovato prove che l’euro abbia avuto un impatto sul link fra fiducia e squilibri”.
Neanche a questo è servito.
Tuttavia, focalizzando l’attenzione sull’eurozona gli studiosi sono arrivati a calcolare che controllando le differenze fra i gradi di fiducia interpersonale si potrebbe rimuovere circa un quinto delle differenze fra gli squilibri dei paesi a bassi e alti tassi.
Insomma: se avessimo lo stesso livello di fiducia della Germania all’interno del nostro paese, i nostri squilibri macroeconomici diminuirebbero di un quinto.
Sai che svolta.
Ciò basta per dedurne che fiducia vuol dire equilibrio.
Avere i valori morali giusti aiuta ad avere migliori valori economici. Ci sono arrivati, grazie alla matematica, gli economisti della Bce.
A me l’aveva detto mio padre.
L’Europa dei finti poveri e dei falsi ricchi
Poiché ormai viviamo immersi in un alveare statistico, ci sono alcune cose che dovremmo ricordarci quando maneggiamo i dati.
La prima è una sentenza immortale di Mark Twain: “Le bugie si dividono in tre grandi gruppi: le piccole, le grandi e le statistiche”.
La seconda è che i tecnicismi della statistica nascondono tali e tante sfumature che sovente il senso ne esce capovolto a seconda dell’indicatore scelto. O, per dirla stavolta con Gregg Easterbrook, “se torturi i numeri abbastanza a lungo, confesseranno qualsiasi cosa”.
Tali riflessioni mi sono sorte dopo aver letto una ricerca della Banca centrale europea sulla ricchezza delle famiglie europee pubblicata alcuni giorni fa e alla quale avevamo già accennato (https://thewalkingdebt.wordpress.com/2013/04/10/la-distruzione-del-risparmio-italiano/).
Lavoro commendevole, senza dubbio, pur con le premesse che abbiamo fatto e con la sottolineatura che i dati a cui fa riferimento sono del 2010, quindi leggermente out of the money, come direbbero quelli bravi. Insomma: non tengono conto degli sfaceli degli ultimi due anni.
Ciò malgrado vale la pena leggerlo perché ci dice alcune cose e spiega molto del dibattito politico ormai incandescente sul futuro dell’eurozona.
Partiamo da un indicatore: la ricchezza netta. La Bce, per misurare il livello di ricchezza netta delle famiglie europee, definita come la differenza fra il totale degli attivi e quello dei passivi, usa due diversi strumenti statistici, la ricchezza netta media e la ricchezza netta mediana. Una sfumatura, appunto, che i non appassionati del genere tendono a confondere.
Invece è utile spenderci qualche parola. La media di una serie di numeri è la somma algebrica delle quantità divisa per il loro numero. Esempio: i numeri 2, 4, 6, 10, 15 esprimono un valore medio pari a 7,4. Il valore mediano, invece, è il numero centrale della serie considerata. Quindi nel nostro esempio vale 6.
Tale precisazione è importante per comprendere le tavole stampate dalla Bce. Qui leggiamo che i poveri tedeschi hanno la ricchezza netta mediana più bassa d’Europa, pari ad appena 51.400 euro, quasi la metà dei greci, 101.900 euro. In Italia tale mediana vale 173.500 euro, in Spagna 182.700, in Portogallo 75.200 e, udite udite, a Cipro ben 266.900, al secondo posto dopo il Lussemburgo, che quota 397.800 euro.
Fanno bene ad essere arrabbiati, i poveri tedeschi, con i Pigs.
Se andiamo a vedere il valore medio, però, le cose cambiano e parecchio. Sempre i poveri tedeschi schizzano a quota 195.200 euro a famiglia, i greci a 147.800, gli spagnoli a 291.400, i francesi a 233.400, gli italiani a 275.200, i portoghesi a 152.900 e i ciprioti addirittura a 670.900. Insomma nei paesi che stanno fallendo le famiglie sono più ricche che nei paesi che stanno in salute.
Che significa? Ci aiuta a capirlo un’analisi svolta dagli economisti Paul De Grauve e Yuemei Ji pubblicata su Vox.
Il confronto fra il valore medio e quello mediano della ricchezza, come si può anche arguire dall’esempio fatto sopra, dice molto su come tale ricchezza sia distribuita. Una grande differenza fra i due implica che c’è una grande diseguaglianza nella distribuzione della ricchezza.
In Germania ad esempio la ricchezza media è 3,79 volte quella mediana: il valore più alto dell’eurozona. Ciò implica che la ricchezza in Germania sia concentrata su poche famiglie, molto più che nel resto dell’eurozona.
E d’altronde con le politiche seguite nel mercato del lavoro tedesco sarebbe stato strano il contrario.
I nostri due economisti hanno calcolato che il 20% più ricco dei tedeschi ha una ricchezza 149 maggiore del 20% più povero. Un primato, visto che la seconda classificata è la Francia, dove tale valore si ferma a 80, mentre noi italiani, e con noi gli altri Pigs, stiamo intorno a 10.
Quindi non è che le famiglie tedesche siano più povere di quelle del sudeuropa.
Semmai le loro famiglie risultano statisticamente più povere perché quelle benestanti hanno più ricchezza.
Per dirla in altro modo, a fronte dei finti poveri tedeschi, ci stanno i falsi ricchi dei Piigs.
Se poi andiamo a vedere i dati relativi non solo alle famiglie, ma all’intero sistema paese, quindi lo stato e le aziende, viene fuori che lo stock di capitale pro capite detenuto dai tedeschi è più basso solo di quello olandese, mentre Italia, Spagna, Irlanda, Grecia e Portogallo si collocano in coda.
Lo studio dei due economisti, insomma, restituisce un po’ di senso alla realtà statistica.
Ma c’è un’altra cosa che non dice e che si deduce leggendo il resto dello studio Bce. Nel computo della ricchezza netta, la Bce include anche i valori immobiliari che, ricordiamolo, in Germania sono fra i più bassi d’Europa, visto che il paese non è stato sfiorato dal boom dei primi anni del 2000.
Al netto di tali valori immobiliari, che pesano notevolmente nei Piigs (che infatti hanno avuto una rilevante crescita del mattone) le cifre cambiano e di molto.
Ve le risparmiamo.
Vi basti sapere che sarebbe meglio essere finti poveri tedeschi che falsi ricchi italiani.
Warfare/Welfare, andata e ritorno
Finora è stato un viaggio di sola andata quello che ha condotto dal warfare (guerra) al welfare (benessere). Una storia lunga un secolo, durante il quale le devastazioni delle guerre sono state più che compensate dall’incredibile aumento di benessere che ha riguardato i paesi avanzati. Nostro compagno, in questo lungo viaggio, è stato il debito, pubblico e privato.
E’ opinione comune fra gli storici che la prima guerra mondiale abbia interrotto la prima grande ondata di globalizzazione del mondo, iniziata dopo la fine del conflitto franco-prussiano, nel 1870, e durata fino alla crisi dell’estate del ’14, quando le grandi potenze si infilarono nella Grande Guerra. Fino ad allora la globalizzazione, spinta dallo sviluppo delle infrastrutture, aveva prodotto una crescita tumultuosa del commercio internazionale i cui benefici, tuttavia, venivano goduti solo da una piccola popolazione di rentier e da pochi uomini d’affari, che potevano contare su valute stabili e quindi prestavano volentieri i propri soldi agli stati. All’epoca erano molto in voga i titoli permanenti, ossia senza scadenza. Una volta iscritti nel gran libro del debito di questo o quello stato, i soldi del rentier producevano interessi sicuri, al riparo anche dall’inflazione che il mondo avrebbe patito solo durante e dopo la prima guerra mondiale.
La prima globalizzazione vide anche sorgere l’alba del welfare, prodotto culturale dei grandi moti sociali del XIX secolo. Fu Bismarck, nel 1892, a tratteggiare il primo sistema statale di pensioni per i dipendenti pubblici tedeschi. Un modo, spiegò, assai efficace per tenerli sotto controllo, prima, durante e persino alla fine della loro carriera. Molti altri stati seguirono l’esempio. L’idea di usare il welfare per attenuare le tensioni sociali viene da lontano.
In generale, tuttavia, gli stati dell’epoca dedicavano gran parte delle loro risorse alla politica espansionista, al Grande Gioco, che grazie alla leva del debito prosperava. Più tardi, ai primi del XX° secolo, si dedicarono con decisione agli armamenti. Il viaggio dal warfare al welfare era ancora all’inizio.
Anche in questa fase il debito giocò un ruolo fondamentale. La storia del mercato dei bond governativi a cavallo fra la fine del XIX° e la vigilia del conflitto meriterebbe un libro.
Con la guerra le finanze pubbliche dei paesi coinvolti esplosero insieme al sistema monetario. L’inflazione che ne conseguì decretò la fine del rentier, come ebbe a scrivere Keynes, e del ceto medio che viveva di pensioni e stipendi, ma non certo del mercato finanziario, che al contrario prosperò. La Gran Bretagna tramontava, la Francia aveva il suo daffare, la Germania e l’Austria erano piegate dall’iperinflazione, la Russia aveva fatto la rivoluzione e ripudiato il suo debito. Ma c’era un gran lavoro per i banchieri. Bisognava solo trovare nuove forme di impiego.
Il sistema finanziario trovò il suo nuovo baricentro a New York. La sbornia americana degli anni Venti, gli anni ruggenti del Jazz e della grande speculazione immobiliare in Florida, fu alimentata da risorse in libera uscita dall’Europa, specialmente dall’Inghilterra, che alla fine trovarono un’ottima allocazione nella borsa di New York. Wall Street produceva rialzi spaventosi spingendo anche i privati cittadini ad indebitarsi per inseguire la bolla.
Di nuovo il debito, stavolta privato, fu il grande protagonista della straordinaria crescita di ricchezza di quegli anni negli Usa, e, contemporaneamente, la causa della Grande Depressione che l’America prima e il mondo poi, sperimentarono dal 1929 in poi. Ma l’America non era ancora attrezzata per il Welfare, come si vide con chiarezza durante la crisi.
Solo gli amari anni ’30 indussero gli Stati Uniti a fare leva sulle cosiddette politiche keynesiane per uscire dalle secche della depressione. La bacchetta magica della spesa pubblica avrebbe sortito il miracolo della ripresa e, insieme, tenuto lontano il popolo dalle pulsioni totalitaristiche che stavano sconvolgendo parte dell’Europa.
Col New Deal gli americani misero in piedi strutture e politiche che ancora oggi fanno parte del patrimonio pubblico. Si decise, ad esempio, di fare in modo che ciascuno potesse avere una casa di proprietà e per riuscirci il governo creò, letteralmente dal nulla, il mercato finanziario immobiliare istituendo due agenzie, Freddie Mac e Fannie Mae, che avevano l’incarico di riuscire a fare arrivare il credito alle famiglie “comprandosi” i mutui dalle banche e rivendendoli alle famiglie stesse a tassi e condizioni agevolati. Il New Deal fu un’altra tappa importante del viaggio verso il Welfare.
Ma ci volle un’altra guerra per oltrepassare il punto di non ritorno. I trionfatori americani americani, esportatori netti di valuta e capitali, ebbero gioco facile a “suggerire” il modello inaugurato da Roosvelt negli anni ’30 ai paesi liberati. Liberati anche dal debito enorme accumulato durante la guerra, ancora una volta polverizzato dall’inflazione. Gli stati europei e il Giappone poterono ripartire, grazie agli aiuti americani, lancia in resta verso il sol dell’avvenire capitalistico. Il traguardo era il welfare che, nelle intezioni dei teorici, inglesi come giapponesi, doveva accompagnarti dalla culla alla tomba come un tenero abbraccio materno.
Il miraggio divenne realtà nel ventennio fra i ’50 e i 60, quando ci fu l’unica parentesi di crescita economica accompagnata da un basso livello di indebitamento. Anche perché si partiva sostanzialmente da zero e con i bilanci ripuliti. Gli stati occidentali misero in piedi programmi di welfare ambiziosi con lo scopo, fra gli altri, di garantirsi un’adeguata pace sociale proprio mentre imperava la guerra fredda. Il warfare “raffreddandosi” si stemperava verso un welfare pacioso e amichevole, che però cresceva al ritmo forsennato del rock and roll.
Il social spendig divenne una medaglia d’onore per gli stati. I dati Ocse mostrano che in Europa la spesa sociale è passata da una media del 10% del Pil nel 1960 al 15% del ’70. In quegli anni peraltro si incardinarono leggi e abitudini, quelli che oggi chiamiamo diritti, che produrranno i loro effetti negli anni a venire e che oggi hanno fatto salire la spesa media dell’Ue per il welfare al 25% del Pil. Una tendenza simile è visibile anche negli Stati Uniti e in Giappone.
I semi del Welfare piantati nel dopoguerra misero radici e nell’arco di un ventennio divennero una quercia robusta e famelica che doveva essere nutrita con dosi sempre maggiori di spesa pubblica. Per sostenere questi livelli di spesa gli stati dovettero tornare a indebitarsi assai al di sopra delle proprie possibilità.
In Italia le varie leggi di spesa incardinate negli anni ’70, fecero schizzare il debito pubblico al 90% del Pil a fine anni ’80, quando nei primi anni ’60 veleggiava sotto il 40%, per poi superare rapidamente il 100% e il 120 nel ’92. Dove siamo più o meno ancora adesso.
All’apice del suo successo, il Welfare innescò la sua crisi, ormai da molti ritenuta terminale. A livello teorico, la reazione contro le politiche keynesiane cominciò addirittura sul finire degli anni ’70 per raggiungere il culmine politico nei primi anni ’80, quelli di Reagan e della Thatcher. Lo Stato non è la soluzione, si disse. Semmai il problema. Ma per quasi trent’anni il social spending continuò la sua corsa forsennata, sempre a debito, in Europa, ma anche negli Usa e in Giappone.
La curva del Welfare imbocca la sua china discendente solo con la crisi del 2007, dopo essere stata pompata fino allo sfinimento da politiche economiche sempre più basate sul deficit. Il salvataggio (obbligato) del sistema finanziario dà il colpo di grazia alle finanze pubbliche. Solo pochi mesi fa il presidente della Bce Mario Draghi ha detto a chiare lettere che questo modello di Welfare non possiamo più permettercelo.
Siamo al punto che le ricche terre d’Occidente, ingrassate all’ombra del debito, devono abbandonare il paradiso del Welfare e non sanno più dove andare. Il sogno delle magnifiche sorti progressive si è infranto e adesso coltivano la tentazione di tornare indietro, avendo anche smarrito la memoria. Ma indietro c’è solo il Warfare.
Oggi si parla chiaramente di guerra economica. Ma il viaggio non è ancora terminato.
