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Le metamorfosi dell’economia: La fine dell’Egonomia

Come sia accaduto che l’economia, che è arte dell’amministrazione di risorse scarse, sia divenuta (pseudo)scienza della massimizzazione dell’utilità personale in un tripudio di egoismo materialistico è questione misteriosa che appassionerà di sicuro gli storici del pensiero e dello spirito, ma che qui poco rileva. Ciò che qui importa è partire da dove siamo – ovvero un’economia divenuta egonomia – per capire dove potremmo andare se davvero volessimo cambiare.

Prima di andare oltre, perciò, prendiamoci un momento e rimettiamo insieme le fila del discorso che abbiamo tessuto finora. Proviamo a tratteggiare i lineamenti del nuovo paradigma che si potrebbe mettere alla base del nostro vivere sociale e in armonia col quale riformulare i concetti economici che ordinano la nostra esistenza.

Se l’unica risorsa scarsa che abbiamo è il tempo, in quanto mortali, è evidente che la vita che ci rimane da vivere è insieme la costituente del nostro capitale e di conseguenza la moneta con la quale siamo chiamati a transare le nostre relazioni economiche con gli altri. Tutto ciò origina la nostra metamorfosi da economia intesa come gestione di beni (ormai non più) scarsi a economia intesa come gestione del tempo. Per parafrasare un vecchio scritto di Keynes, l’economista dovrebbe smetterla di occuparsi di come produrre il più possibile – per quello sono sufficienti dei bravi periti aziendali – e iniziare a riflettere su come impiegare meglio il tempo per quello che autenticamente ci riguarda, ossia il nostro benessere.

L’economia del tempo come vedremo, è profondamente diversa da quella dei beni. Tanto la seconda collega l’utilità alla quantità di beni di cui riesco a conquistare la proprietà, tanto la prima punta l’attenzione sulla qualità del tempo che mi resta da vivere, e quindi privilegia il possesso dei beni alla loro proprietà. E prima che mi tacciate di fantasie new age, preciso subito che la qualità della vita dipende anche dalla quantità di beni materiali di cui possiamo disporre, mentre la quantità di beni di cui possiamo disporre non è detto ci assicuri una buona qualità della vita. Molto dipende anche da come mi procuro questi beni.

In questa apparente contraddizione risiede il mistero della nostra soggettività, che si articola in una dimensione relazionale che l’economia dei beni – fortemente soggettivista – tende a sovraccaricare fino a trasformare il pensare economico in un’ossessione egonomica, dove il soggetto viene trasformato nell’onniproprietario, accumulatore compulsivo e cieco, impoverendone così la sostanza umana. Il famoso e malconosciuto uomo economico, ossia soggetto razionale massimizzatore dell’utilità. Un egonomista.

L’egonomista è costantemente ossessionato dalla ricchezza e dall’accumulazione e vive in costante guerra con qualcuno, schiavo di una logica acquisitiva che funziona come un gioco a somma zero. E’ un essere a-sociale, se non addirittura anti-sociale, avendo smarrito la connessione con gli altri che invece anima qualunque attività autenticamente economica, come gli antichi sapevano bene.

Non a caso la relazione principe che l’economia dei beni ha instaurato è quella fra debitori e creditori, ossia un rapporto regolato dai contratti e garantito dalla forza dello stato. Un rapporto antico quanto l’uomo, quello fra debitore e creditore, ma che la storia ha profondamente modificato rendendo il debito un bene come gli altri, da vendere e comprare, totalmente distaccato dalle persone che ci stanno dietro. Oggi i debiti si cartolarizzano.

Così anche la relazione fra debitore e creditore, notevolmente ricca di significato, nel tempo, ha finito con l’erodersi divenendo una povera rappresentazione di quello che doveva e poteva essere, ossia uno scambio di tempo presente con tempo futuro, il che presuppone fiducia dell’uno verso l’altro che sola sostanzia qualunque tipo di ricchezza economica. Di conseguenza anche il denaro, che nomina il debito, è diventato una merce come le altre. Un bene che si compra e si vende e dal quale bisogna sempre estrarre la massima utilità.

Diversamente soggettivista, l’economia del tempo non si basa sull’accumulazione, che in fondo è il travestimento del desiderio di immortalità che l’uomo cova quale antidoto contro la paura della morte, ma si basa su un ordinato decumulo, che vuol dire accettazione della fine del tempo, e quindi della morte. Nell’economia del tempo non ha senso cumulare capitali mentre ha senso impiegarli per fare qualcosa per e con gli altri. Perché nella redistribuzione del capitale – che è tempo futuro attualizzato – non si esprime altro che la nostra capacità di entrare in relazione con altri. L’avaro che tesoreggia, non a caso, viene sempre raffigurato come un solitario nei racconti dei poeti.

Diversamente soggettivista, l’economia del tempo individua come fonte di arricchimento socio-economico il tempo utilmente condiviso con altri, essendo l’altro, infine, il naturale compimento della nostra individualità. Ogni relazione economica infatti non è altro che una relazione. L’economia del tempo, perciò, giudica il lavoro come diritto dell’individuo a una sua compiuta espressione personale, ma nella relazione: lavorare significa fare qualcosa di utile per qualcun altro. A fronte del diritto individuale al lavoro, per conseguenza, esiste il dovere sociale di lavorare, così come a fronte di un retribuzione dignitosa, esiste il dovere di erogare una prestazione opportuna.

In questo riportare l’egonomia verso l’economia – che Aristotele definiva cura e custodia della casa, ossia del luogo dove viviamo, e quindi per estensione il mondo – dobbiamo tenere conto necessariamente delle strutture istituzionali che la storia ha edificato e dell’eredità culturale che siamo chiamati a gestire. Non si tratta di fare rivoluzioni, ma di perseguire un’evoluzione.

Questa evoluzione immagina uno stato che smetta di imboccare scorciatoie e inizi a fare quello che ci aspetti faccia uno stato evoluto: proteggere i cittadini e far pagare loro le tasse, studiando i modi più intelligenti per favorirne il benessere, evitando però di pensare di doverlo procurare. Il disastro delle contabilità pubbliche è lastricato di buone intenzioni e da molta cattiva coscienza.

Questa evoluzione immagina poi un settore privato che smetta di credere di esser lo stato, paghi le tasse e produca al meglio delle sue possibilità beni e servizi per averne profitto, che in fondo è quello che la storia gli ha detto di fare. E soprattutto occorre che smetta di credere di essere il luogo d’elezione dell’economia. Non tutto è né può essere mercato, visto che il peso dei mercati nell’economia del nostro tempo è relativamente basso.

Queste evoluzione, perciò, immagina l’affermarsi di un consorzio di persone libere capace di ergersi fra i due Moloch – lo stato e il mercato – che finora hanno tenuto in ceppi i cittadini utilizzando in modo dispotico lo strumento del denaro come surrogato dell’economia. Non più vaso di coccio fra i due vasi di ferro, questo consorzio, ma collante osmotico capace di servire entrambi senza esserne schiavo.

Dire che il mercato è importante ma non è l’unica cosa importante nell’economia di una società, vuol dire pure, riferendosi al lavoro, che aveva ragione Polanyi, quando diceva che il lavoro non dovrebbe essere un mercato. Ma poiché un mercato del lavoro esiste, questa evoluzione immagina che il lavoro possa anche essere oggetto di meccanismi di mercato, ma altresì che non debba essere il mercato l’unico luogo unico in cui fiorisce il lavoro. Il lavoro abita nelle persone per servire le persone, non nel mercato. Nel mercato si vende, se uno lo desidera. Ma nessuno deve essere costretto a vendere il proprio lavoro semplicemente per vivere. Spezzare le catene del lavoro cosiddetto subordinato è un dovere per chiunque abbia a cuore la libertà dell’individuo.

Ma soprattutto questa evoluzione immagina ognuno di noi finalmente libero dall’egonomia, rappresentazione economicistica dell’ossessione narcisistica di sé. Occorre tornare a occuparsi della propria casa – che è una casa comune – ma anche di chi ci abita. Quindi pensare a sé, ma sempre in rapporto con gli altri. Imparare di nuovo a custodire e condividere. Finirla con l’egonomia.

Tornare a fare economia.

(15/segue)

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Divagazioni statistiche: il trionfo dell’economia immaginaria

Dobbiamo a Polanyi la più sintetica rappresentazione del problema economico. L’economia, scrisse nella Grande Trasformazione, è tutta una questione di prezzi. E in effetti tutta l’epopea ottocentesca che culminò nell’epopea walrasiana non si propose altro che trovare il livello dei prezzi capace di individuare l’equilibrio generale del sistema.

Ma tale visione è necessariamente statica. Ciò che trascura, per quanto elemento centralissimo del discorso economico, è il tempo.

Ciò, malgrado il tempo sia di fatto l’unica risorsa davvero scarsa con la quale dobbiamo fare i conti.

Se l’economia si propone di studiare i prezzi, non può sottrarsi dall’analisi del fattore tempo, per la semplice circostanza che, come ebbe a scrivere Benjamin Franklin, che non era economista ma viveva l’economia, il tempo è denaro.

Di conseguenza, il denaro è tempo, e ne abbiamo piena contezza solo ricordando che il tempo è la variabile alla base, insieme al capitale, della matematica finanziaria, dove il prezzo, ossia il tasso di interesse, è solo uno degli elementi dell’equazione.

Ma c’è di più. Il tempo, per chi sia lavoratore dipendente, è il denominatore degli indici di produttività e insieme della misura del salario. E gli esempi potrebbero continuare.

Come premessa di questa rapida ricognizione sul rapporto che oggi il tempo intrattiene con l’economia, vale la pena ricordare uno scritto di Keynes del 1930 (“Prospettive economiche per i nostri nipoti”) dove l’economista inglese profetizzava che nel giro di un secolo il problema economico, inteso come produzioni dei beni necessari per la sopravvivenza, avrebbe potuto essere risolto. Ciò avrebbe aperto un’altra questione che, nella visione keynesiana, non era strettamente economica: il tempo libero. “Per chi suda il pane quotidiano il tempo libero è un piacere agognato: fino al momento in cui l’ottiene”, scrisse.

Il fatto che il tempo libero per Keynes non fosse un problema economico ci dice molto dell’epoca in cui visse, ancora non pervasa dall’economia com’è la nostra. E anche della sua eredità culturale, necessariamente ottocentesca. Però nulla toglie alla sua intuizione.

Pertanto, immaginando un futuro in cui il problema della produzione dei beni necessari sarà risolto con poche ore di lavoro, “l’uomo si troverà di fronte al suo vero, costante problema: come impiegare la sua libertà dalle cure economiche più pressanti: come impiegare il tempo libero che la scienza e l’interesse composto (il corsivo è mio, ndr) gli avranno guadagnato per vivere bene, piacevolmente e con saggezza”.

Avvertendo al contempo che “non esiste paese o popolo che possa guardare senza terrore all’era del tempo libero e dell’abbondanza”. E concludeva: “Se gli economisti riuscissero a farsi considerare gente umile, di competenza specifica, sul piano dei dentisti, sarebbe meraviglioso”.

Ottantacinque anni dopo è interessante, e forse utile, andare a vedere dove siamo arrivati, cominciando da un’evidenza chiara a tutti: nei paesi occidentali l’orario di lavoro si è drasticamente ridotto. Di conseguenza il tempo libero si è notevolmente ampliato, germinando un’economia del tempo libero che cresce in ragione proporzionale al tempo libero stesso. Poi ci sarebbe pure da osservare che gli economisti sono diventate piccole star, ma questo in fondo importa poco.

Importa, al contrario, che il tempo rimanga la costituente dell’economia sostanziale che però, nel nostro evo, si sta sempre più trasformando in un’economia dell’immaginario.

Per darvene rappresentazione plastica vale la pena utilizzare alcune statistiche prese di peso dalla contabilità americana. Ossia il dato sul valore aggiunto per settori del prodotto nel 2013 (ultimo anno con i dati completi) e poi una sua estrapolazione, ossia la spesa per arte e cultura.

Come ho già detto altrove, considero gli Usa un ottimo punto di osservazione delle tendenze globali, sia per il peso specifico della loro economia, sia per l’altrettanto peso specifico nella cultura globale.

Un primo dato, estratto dalle statistiche sul Pil, ci consente di apprezzare il peso specifico del settore “Arts, entertainment, recreation, accommodation, and food services”, che come ognuno può comprendere ha estremamente a che fare col tempo libero, visto che trae il suo sostentamento dal fatto che qualcuno compri i suoi prodotti. Un artista, come uno chef, senza mercato non ha dignità di fenomeno economico. Ma nessuno comprerà un quadro o una pietanza al ristorante se non ha il tempo (e il denaro) per fruirne.

Bene, nel 2013 questo settore ha prodotto un valore aggiunto di 621 miliardi di dollari, a fronte dei 619 miliardi del settore delle costruzioni, assai più del settore agricolo (226,6 miliardi), delle miniere, (439 miliardi) o delle utilities (276), quasi al livello dell’Information (779 miliardi).

Ce n’è abbastanza per dire a coloro che si ostinano ad inseguire la mitopoiesi dell’economia reale versus l’economia finanziaria, che il vero discrimine oggi è fra l’economia della realtà e l’economia dei sogni, ossia l’immaginario. Ma che tutto ciò componga l’economia è fuori di dubbio, già per il semplice fatto che se ne occupa la statistica.

Un dato isolato, tuttavia, ci dice ancora poco. Sicché mi sono ripescato una release del BEA del 12 gennaio scorso titolata icasticamente “Spending on arts and cultural production continues to increase”.

Il dato è riferito solo alla spesa per arte e cultura, quindi, non esteso ai servizi di accoglienza o ristorazione, che fanno molto tempo libero. Dalle statistiche sul Pil (anno 2012) leggiamo però che il sotto settore “accomodation and food service” pesa 439,5 miliardi di valore aggiunto. Mentre quello arts&entertainment 155,9.

Ma nell’altra release leggo che il valore aggiunto dalle arts and cultural production industries (ACP) è cresciuto del 3,8% nel 2012 arrivando a quotare il 4,3% del Pil, pari a 698,7 miliardi. Sottolineo che il dato, riferito al 2012, è classificato diversamente rispetto a quello delle statistiche del Pil. E questo spiega la differenza di dati.

In particolare, il dato della seconda release tiene conto dell’indotto, ossia del contributo che queste produzioni portano al sistema produttivo. La BEA definisce questo indicatore “Art and Cultural Production Satellite Account”, ACPSA.

Il suo output equivale al valore di tutti i beni e servizi prodotti e acquistati, ad esempio biglietti del cinema o servizi di design. A fianco dell’output c’è anche l’ACPSA employment, ossia la quantità di lavoro che tali attività originano.

Scusate la premessa noiosa, ma in statistica le definizioni sono tutto, ed è meglio intendersi sul significato prima di iniziare a sparare dati.

Un utilissimo grafico mostra l’andamento dell’ACPSA rispetto al GDP dal 1998 al 2012. E ovviamente è una curva crescente. Il valore aggiunto delle attività propriamente dette, intorno agli 80 miliardi nel 1998,  nel 2012 aveva superati i 155, lo abbiamo visto nella statistiche sul Pil, ma il valore complessivo, compreso l’indotto è passato da poco più di 400 miliardi ai quasi 700 di fine 2012. Particolarmente vasto è il contributo dell’indotto, a dimostrazione che l’economia dell’immaginario ha esiti assai concreti.

La crescita di questo settore in relazione al GDP è costante. Salvo che nel 2009, quando ci fu una lieve flessione. La crisi, notoriamente, ha un effetto regressivo sui sogni.

Così come è costante l’output finale prodotto dalle ACPSA e dall’indotto, che nel 2012 aveva superato gli 1,1 trilioni di euro, la metà circa dei quali frutto delle aziende core, il resto dall’indotto.

A livello di posti di lavoro, nel 2012 queste ACPSA impiegavano fra aziende core e indotto, 4,7 milioni di persone, un milione delle quali nelle industrie core. Interessante notare come, mentre l’occupazione nelle aziende core sia sostanzialmente stabile nel tempo, quindi dal 1998 in poi, quella nell’indotto abbia subito una decrescita dal 2008 per stabilizzarsi intorno al 2010. Sempre perché le crisi provocano brutti risvegli.

Se restringiamo la timeline notiamo un’altra informazione assai preziosa.

Riferito al 2012 osserviamo che il principale contributo all’output delle aziende core ACPSA, pari a 239,8 miliardi, è arrivato dal settore advertising: la pubblicità. E che il contributo più rilevante dalle aziende dell’indotto, con un output di 118,4 miliardi è stato il broadcasting: la televisione, la radio e il cinema.

Se guardiamo ai dati fra il 2007 e il 2012, notiamo che l’advertising ha subito un calo di valore nel 2009 – sempre perché la crisi… – ma poi si è ripreso e non si è più fermato. La stessa cosa è successa al broadcasting.

Sul versante dell’occupazione, l’advertising non ha più raggiunto il livello del 2009, così come è successo al broadcasting. Ciò significa che l’aumento di valore non ha originato posti di lavoro. Il miracolo della produttività americana.

In ogni caso il combinato disposto di questi due settori definisce meglio di ogni altro ragionamento l’economia dell’immaginario, che cresce senza soluzione di continuità.

Il tempo libero diventa il luogo in cui si orientano i bisogni. Che perciò diventano teoricamente infiniti.

Il tempo libero è diventato economicamente significativo.

Il tempo, libero o meno, torna ad avere a che fare col denaro, come diceva Franklin nel XVIII secolo.

Mi chiedo come Keynes commenterebbe questi dati.

(2/fine)

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L’Europa keynesiana (in salsa tedesca)

Riprendiamo, dunque, da dove eravamo rimasti, ossia dalla questione bancaria che questo 2014 vedrà grande protagonista delle cronache e delle preoccupazioni di noi tutti, se non altro per la semplice circostanza che le banche, ci piaccia o no, sono diventate l’architrave del nostro Stato e della periclitante costruzione europea.

Le banche, perciò, ovvero l’ennesima scommessa dell’eu-topia europea, che trova nel faticoso compromesso sull’Unione bancaria il magico ingrediente che dovrebbe addensare la frammentazione finanziaria dell’eurozona, in ultima analisi sociale, in amalgama digeribile per il delicato stomaco dei mercati.

Ma siccome le cronache sono ancora avare di notizie, in questo principio d’anno, rivolgiamoci alla storia che contiene nella sua memoria ovvietà che l’incultura del presente ha dimenticato a tal punto da ritrasformarle in dibattito politico. Scopriremo, ricercando, quanto sia profonda e avvinta nel passato più remoto la nostra tragicomica attualità che in fondo sogna da ottant’anni almeno – per non dire da almeno due secoli – lo stesso sogno: l’unità al prezzo dell’omologazione. Ovvero, il benessere diffuso al prezzo di un crescente dispotismo. Senza poi che nessuno – o solo pochi – si interroghi sul significato di tale benessere od osservi che tale dispotismo ormai, nel territorio europeo, si declina con lo strumento monetario. Difficile da capire ancor più che da gestire, ma che comunque sta diventando un notevole surrogato della vecchia politica di potenza degli stati.

Ecco un pezzo della nostra radice: “Riunire un gruppo di paesi, alcuni dei quali saranno in una posizione debitoria e altri in una posizione creditoria, in un’Unione monetaria allargata al mondo intero è senz’altro possibile. Viceversa, è impossibile, a meno che non abbiano anche un sistema bancario ed economico comune (corsivo mio, ndr), riunirli in un’unione monetaria che sia contro il mondo intero”, perché “”i membri in credito dovrebbero fare un prestito forzoso e non liquido dei loro saldi attivi a favore di quelli in debito”. Il fatto che tali parole, scritte da Keynes nel 1941 suonino attuali, mostra meglio di ogni ragionamento quanto siamo incagliati e, soprattutto da dove siamo partiti e dove siamo arrivati.

L’Unione bancaria soddisfa, keynesianamente, il requisito fondante di un’Unione monetaria e, soprattutto, permette di evitare, sempre keynesianamente, la circostanza che i paesi ricchi finiscano col dover prestare ai poveri per tenere in piedi la costruzione monetaria.

Questo svela un requisito del presente che rimane sovente sottotraccia nelle analisi: l’Europa di oggi deve moltissimo a Keynes. Ma a guardare bene, si potrebbe dire di tutto l’Occidente.

Innanzitutto nel presupposto: nell’intervento statale, esplicito o furbescamente camuffato od obliterato dalla sua sostituzione con un organismo di banca centrale, quale antidoto necessario al laissez faire contro il quale Keynes scaglierà nel corso della sua lunga carriera i suoi dardi più appuntiti. A ragione, diranno in molti. A controprova di quanto il keynesianesimo, nelle sue varie declinazioni, sia consustanziale oggidì nella nostra costituzione di europei e occidentali.

Checché ne dica la vulgata, infatti, Keynes non fu, o almeno non solo, spesa statale in deficit, che poi divenne popolare solo perché fu lo strumento degli stati per incoraggiare la deriva capitalistica camuffata dalla società dei consumi. Nel suo fondo l’economista inglese diceva solo una cosa: non si può fidarsi della mano invisibile in economia. Ergo: bisogna intervenire. Con ciò legittimando una supremazia, quella della politica sull’economia, che ha dato forma e foraggio all’epopea occidentale del dopoguerra.

Pensiero comune, peraltro.

A Friburgo, ai tempi di Weimar, per dirne una, maturavano i talenti dell’ordoliberalismo tedesco, che poi frutteranno nella dottrina dell’economia sociale di mercato che ha reso celebre la Germania del dopoguerra, proprio mentre Keynes confezionava la sua Teoria generale. Segno che la reazione alla mano invisibile, tentativo maldestro di celare la potenza dello stato nazionale dietro una vernice di ottimismo economico, era nell’aria: matura, per così dire. E nessuno più di Keynes, probabilmente suo malgrado, è stato associato a tale movimento.

In tal senso non possiamo non dirci keynesiani.

Questa parole sulla necessità di un’Unione bancaria per dare corpo a un’Unione monetaria Keynes  le scrive nel 1941, dicevo, e più precisamente in un documento del 15 dicembre intitolato “Proposte per un’Unione monetaria internazionale”, uno dei tanti papelli che andarono ad alimentare la proposta inglese sui tavoli di Bretton Woods, che poi finì com’è noto. Il meccanismo di clearing fondato su una moneta unità di conto internazionale proposto da Keynes per trovare finalmente una soluzione alle costanti crisi delle bilance dei pagamenti fu accantonato perché la potenza egemone, l’America, una moneta l’aveva già e non aveva nessuna convenienza a metterla in comune, rinunciandoci.

Ma l’Europa non dimenticò la lezione. Una decina di anni dopo, la clearing house di Keynes delineò la fisionomia di uno degli esperimenti meglio riusciti della nascente Comunità europea: l’Unione europea dei pagamenti. Ancora una volta lezione keynesiana, ma a metà, giocoforza. Gli stati nazionali europei preferirono affidare al welfare – quindi alla redistribuzione politica del reddito – il ruolo di integratore sociale, esattamente come oggi mettendo all’indice il welfare rischiano il risultato opposto, ossia disintegrare la società usando il pretesto del suo costo ormai immane.

E qui entra in gioco l’entità sovranazionale, della quale Keynes era un grande estimatore, da bravo inglese che aveva bene assorbito la lezione imperiale e sperava ingenuamente di insegnarla anche agli americani.

Costoro però, assai più sensibili alla roba che alla seduzione del pensiero astratto, sapevano con l’istinto del predatore che l’impero – il loro – era già nelle cose. Non abbisognava certo dei calcoletti di uno studioso inglese, malgrado le rassicurazioni costanti di costui circa la convenienza reciproca, quindi angloamericana, a far funzionare la sua clearing house. “La banca (la clearing house, ndr) deve essere posta sotto una direzione angloamericana – scrisse -. Potremmo richiedere che la sede centrale sia situata a Londra e il consiglio direttivo si riunisca qui e a Washington”. S’intravede la preoccupazione dell’economista, anzitutto inglese,  di “dare continunità storica all’area della sterlina”, nonché preservare “la tradizionale libertà di Londra come piazza finanziaria”. Preoccupazioni affatto aliene agli Usa, che infatti non abboccarono.

L’entità sovranazionale era per definizione il miglior antitodo contro la prepotenza statale (non inglese). La Bri, ad esempio, pervicacemente difesa in sede di contrattazione a Bretton Woods, quando gli americani volevano chiuderla, e che poi diventerà il contabile dell’Unione europea dei pagamenti, dopo esserlo stata negli anni ’30, quando si trattava di commercializzare le riparazioni tedesche, e oggi la scrittrice delle regole bancarie che tanto fanno affannare le autorità.

Ma soprattutto il principio che più stava a cuore di Keynes era quello della compensazione multilaterale, che peraltro l’esperienza dell’UeP dimostrò funzionare egregiamente, a certe condizioni. La prima delle quali, ovviamente, era la cessione di sovranità.

Tale principio ha una radice ancora più profonda. Ed è lo stesso Keynes a mostrarcela sempre in uno scritto del 1941, dell’8 settembre stavolta, intitolato “Il problema degli squilibri finanziari globali”. Lettura consigliata, perché Keynes mostra in poche pagine come il problema delle bilance squilirate dei pagamenti abbia trovato nel ventennio occorso fra le due guerre, ogni soluzione immaginabile trovandosi ogni volta sbagliata. Fra questa vale la pena citare quella dell'”uso della deflazione, e peggio ancora di “deflazioni competitive per forzare un aggiustamento dei livelli dei salari e dei prezzi, al fine di spingere o di attrarre il commercio verso nuovi canali”, che oggi richiama alla memoria la recente strategia mercantilistica tedesca.

Tanto per dire che torniamo sempre alle origini.

Fu proprio la Germania di allora, infatti, a trovare il principio che illuminò Keynes. “Dopo i tentativi e gli errori precedenti – scrive – il dottor Schacht inciampò per disperazione in qualcosa di nuovo che aveva in sé i germi di un buon accorgimento tecnico (..) e permise a una Germania impoverita di accumulare le riserve senza le quali non avrebbe potuto imbarcarsi nella guerra. Il fatto che tale metodo sia stato usato al servizio del male non deve impedirci di vedere il vantaggio tecnico che offrirebbe al servizio di una buona causa”. Il meraviglioso pragmatismo inglese.

Il dottor Schacht era quel Hjalmar Schacht, bancario tedesco di cultura americana che stabilizzò il marco dopo la tremenda iperinflazione di Weimar e finì a presiedere la Reichsbank, la banca centrale tedesca di Weimar, dove rimase fino al 1930, tornandovi tre anni dopo, quando Hitler divenne cancelliere. Nel 1934 fu nominato ministro dell’economia e da quella posizione organizzò il suo personalissimo New deal alla tedesca, peraltro nei suoi risultati assai più efficace di quello americano, realizzando un keynesianesimo ante litteram: quindi spesa pubblica per creare posti di lavoro, obbligazioni statali destinate a circolare all’interno della Germania (Mefo) e, soprattutto, il meccanismo della compensazione dei crediti con i debiti, tramite il quale la Germania finì con l’annullare il suo debito estero. Il principio era molto semplice: le importazioni da un paese venivano pagate con merci tedesche, non con denaro.

A queste compensazioni bilaterali, la Germania sostituì una compensazione multilaterale che agiva pienamente già nel ’41, quando Keynes scriveva il suo documento. Schacht aveva già abbandonato la vita ministeriale e al suo posto era arrivato in più conosciuto Walther Funk. Fu proprio in quel periodo che riprese vigore il dibattito sulla Großraumwirtschaft, l’economia del grande spazio di cui i teorici tedeschi discutevano già dagli anni ’30 (Ai più curiosi suggerisco la lettura del saggio di Paolo Fonzi “La «Großraumwirtschaft» e l’Unione Europea dei Pagamenti: continuità nella cultura economica tedesca a cavallo del 1945”, in Ricerche di storia politica, nr 2, 2012, pp. 131-154, il Mulino).

I successi militari della Germania hitleriana, infatti, avevano riesumato una discussione che sembrava confinata nell’alveo accademico. C’erano ampi territori da sfruttare e strumenti tecnici da realizzare per favorire il commercio fra il Reich e i territori occupati. L’idea perciò di creare e organizzare forme di integrazioni sovranazionali di livello regionale parve agli economisti tedeschi il miglior modo per garantirsi le forniture e le risorse economiche necessarie a proseguire la guerra. La Großraumwirtschaft, peraltro, riprendeva suggestioni del secolo precedente, quando dopo la vittora di Sedan (1870) la Germania si fece sedurre dall’idea di un’area economica integrata a forte egemonia tedesca.

Il 1940, anno in cui la vittoria finale nazista sembrava ormai imminente, Goring conferì a Funk l’incarico di progettare questo “spazio economico” europeo a guida tedesca. Si formò un gruppo di lavoro al quale ovviamente presero parte anche i banchieri della Reichsbank, l’antenata della Bundesbank, al quale si diede l’incarico di promuovere l’unificazione europea con l’obiettivo finale di arrivare a un’unificazione monetaria e doganale. Vale la pena ricordare che già nei primi anni ’30 era fallito a Ginevra il tentativo di realizzare un’Unione doganale europea, col risultato, assai avversato dai francesi, che se ne creò una fra l’Austria e la Germania.

I punti salienti del piano tedesco del ’40 prevedevano la formazione di un sistema di clearing centralizzato, il progressivo alleggerimento dei controlli valutari, formazione di un sistema di cambi fissi in Europa. Tutte questioni che diverranno di stringenti attualità nell’immediato dopoguerra, come abbiamo visto. Ma lo sono anche oggi.

Il punto saliente, che ci ricollega al presente, è che il progetto prevedeva che l’area integrata fosse a due velocità. Nel primo cerchio stavano i paesi “affini”, quindi la grande Germania, la Boemia e la Moravia oltre al governatorato generale (parte della Polonia, la Danimarca, la Norvegia, l’Olanda, il Belgio il Lussemburgo e forse la Slovacchia). Quindi un cerchio esterno, all’inizio escluso da meccanismo di clearing e dall’Unione monetaria, dove dovevano stare i paesi del sud est europeo.

Oggi diremmo, i paesi dell’euro A e quelli dell’euro B.

Anzi, lo dicono in tanti, immaginandola come l’unica soluzione ai guai della moneta unica. E tanti hanno ricominciato a parlare del clearing keynesiano quale strumento tecnico utile a pareggiare gli squilibri Target 2.

Potremmo fermarci qui, ma vale la pena fare un altro paio di esempi per mostrare come a tali radici corrispondano comportamenti attualissimi. Prediamo l’Ltro, il piano di rifinanziamento delle banche deciso dalla Bce che ha prestato mille miliardi alle banche all’1% per tre anni.

Nel 2011, quando fu deciso, si disse che era un’idea dell’ex governatore Trichet. Ma gli storici ci dicono che tale modalità di intervento, collegato però alla fissazione di investimenti produttivi da parte delle imprese, era stato delineato da Keynes già nel 1930 proprio per abbassare i tassi di lungo termine. E in effetti quella era l’idea della Bce. Ma poi è finita che le banche hanno iniziato a fare carry trade con i soldi della Bce, e alle imprese sono arrivati solo gli spiccioli.

Abbiamo già visto il debole che Keynes, negli anni ’30, nutriva per le pratiche mercantilistiche, oggi quanto mai attuali. Ma che dire della Tobin Tax? “L’introduzione di una sostanziosa imposta governativa su tutte le transazioni finanziarie potrebbe rivelarsi la riforma più praticabile di cui disponiamo per mitigare il predominio della speculazione sull’impresa”, scriveva Keynes nel capitolo 12 della sua Teoria generale.

Tasse sulla finanza e sulla rendita, deciso interventismo statale (diretto o tramite le banche centrali), clearing dei saldi delle bilance del pagamenti, unioni sovranazionali economico-monetarie, e quindi bancarie: l’Europa keynesiana.

Ma in salsa tedesca.

Le nuove pensioni, ovvero l’eutanasia del rentier

Ogni tanto mi capita di incontrare un vecchio amico o un ex collega giunto felicemente all’età della pensione. I più fortunati, quelli che godono di buona salute, mente lucida, buone relazioni e una rendita pensionistica decente mi sembrano letteralmente il ritratto della felicità. “Finalmente posso fare quello che mi pare”, è la cosa che gli sento dire più spesso. E il primo pensiero che mi ispira è un benevolo “beato te”, insieme all’augurio di un post-pensionamento più felice e lungo possibile. Il secondo è che quelli come lui appartengono a un genere in via d’estinzione. Ossia coloro che vanno in pensione a un’età in cui non si sia del tutto decrepiti e con una rendita (ad avercela) che non sia di sussistenza.

Tecnicamente il pensionato vive di rendita. Come i rentier di una volta ha accumulato un capitale, frutto del suo lavoro, e lo ha investito in un titolo permanente garantito dallo Stato: il bond previdenziale. Tale investimento produce una rendita che una volta veniva calcolata con un sistema assai vantaggioso per l’investitore (il retributivo) e adesso molto meno (il contributivo). A differenza dei grandi rentier di un tempo, che potevano contare su vasti patrimoni come d’altronde quelli di oggi, il pensionato assomiglia più al piccolo rentier di un secolo fa, quando i sistemi previdenziali erano ancora agli albori, che comprava un titolo permanente a tasso fisso dallo Stato dopo aver faticosamente risparmiato una vita e viveva dell’interesse, potendo contare su un sistema di prezzi alquanto stabile, almeno fino alla prima guerra mondiale, quando tutto crollò.

Il sogno di vivere di rendita, tuttavia, non è mai tramontato. E non è un caso che una delle grandi conquiste del XX secolo sia stata l’estensione di un diritto (campare di rendita, ossia fare quello che ci pare), una volta riservato solo alle élites e ai borghesi più o meno grandi. E poco importa che le pensioni pubbliche fossero una trovata della Germania di  Bismarck per assicurarsi vita natural durante la fedeltà dei dipendenti pubblici. Una volta che le pensioni si estesero in tutti i paesi sviluppati, si è persa persino la memoria del retropensiero quasi reazionario che le aveva originate.

Poi arrivò Keynes che nel suo libro “La Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta” del 1936, sviluppando pensieri già contenuti in uno scritto di dieci anni prima intitolato “Laissez faire and communism”, auspicò l’eutanasia del rentier come rimedio alla scarsità del capitale e quindi al freno dello sviluppo dell’economia. Una volta che i rentier si fossero estinti, per il semplice fatto che non viene reso più conveniente detenere capitale improduttivo, la situazione generale del sistema economico non poteva che giovarsene.

Con la nuova riforma delle pensioni, maturata negli ultimi vent’anni, l’eutanasia del pensionato/rentier è diventato una realtà. Almeno per gran parte dei futuri pensionati, che con molta fatica riusciranno a vivere di rendita con le loro pensioni. Sempre che riescano ad averne una.

Se guardiamo al caso italiano, il bilancio dell’Inps ci dice con chiarezza che l’equilibrio generale della previdenza pubblica viene sostanzialmente garantito dalla gestione positiva del fondo dei lavoratori parasubordinati. Quindi i precari. La normativa invece ci dice che, in media, coloro che andranno in pensione dopo 40 anni di contributi o 66 anni di età, avranno una rendita, agli attuali tassi di sostituzione, pari a circa il 50-60% dell’ultimo stipendio. Questo ad oggi, visto che la normativa prevede revisioni periodiche di tali tassi e un sostanziale allungamento dell’età pensionabile, talché chi oggi si trova nel mezzo della propria vita rischia seriamente di non poter lasciare il lavoro prima dei 70 anni. Peggio ancora va ai più giovani, che a furia di lavori trimestrali una volta sì e una no rischiano di non riuscire mai a raggiungere la quota magica dei 40 anni di contributi e potranno lasciare il lavoro solo per vecchiaia, con una rendita miserrima.

A livello globale la questione non si discosta di molto. Organismi internazionali  come l’Ocse e il Fmi non risparmiano allarmi sulla sostenibilità dei sistemi pensionistici, complici il basso tasso di natalità e la risicata crescita economica. Lo stesso fanno le banche centrali. Anche perché gli attuari calcolano che da qui al 2040 la speranza di vita dei pensionati si allungherà sino a 88 anni per gli uomini e a 92 anni per le donne. L’eutanasia del pensionato/rentier, di conseguenza, sarà “keynesianamente” vissuta come una dolorosa necessità per garantire la sostenibilità di quei bilanci pubblici cresciuti nei decenni anche in nome di politiche keynesiane. A volta la storia economica coltiva un perfido senso dell’ironia.

Rimane la questione di cosa farne di questa pletora di anziani a mezza pensione da qui a trent’anni. Nel primo dopoguerra, quando l’eutanasia del rentier non era ancora stata ancora teorizzata ma praticata grazie all’iperinflazione, si videro intere masse di popolazione letteralmente alla fame. Dopodiché ci fu un’altra guerra.

Sta a vedere che stavolta al fronte ci andranno le pantere grigie.