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La pace impossibile fra debitori e creditori

Salgo su una macchina del tempo, gentilmente messa a disposizione dal Fmi, e mi ritrovo nel 2012, a scrutare dall’alto di una statistica le due armate dei debitori e dei creditori globali ergersi l’una di fronte all’altra come colossi e le immagino a guardarsi in cagnesco, sospettando ogni sorta d’intrigo, odiandosi persino, pur sapendosi indispensabili ognuna per l’altra.

Mi chiedo come mai il totale delle posizioni nette degli investimenti esteri dei creditori conteggiate raggiunga il 16% del pil mondiale, mentre quella dei debitori superi il 18%,  ma non ho il tempo di approfondire perché la vertigine di queste commensurabili, e insensate, quantità di denaro è meno importante della loro titolarità. Sapere chi sono, i debitori e i creditori, aiuta molto più a comprendere il problema che non la semplice quantificazione del dare e dell’avere.

Nel 2012 il Giappone da solo sommava più del 4% di questi crediti, che sommati a quelli di Cina e Germania, porta le NIIP di questi tre paesi a più della metà del totale. Il resto se lo dividono la Svizzera, Hong Kong, l’Arabia Saudita, Singapore e la Norvegia, mentre la voce “altri” totalizza un altro 2% circa.

Lato debitori, la parte del leone la fanno gli Stati Uniti, con circa il 6% del pil mondiale di NIIP negativa, quasi alla pari col gruppo “altri”.

Dopo gli Usa la palma di peggiore situazione estera ce l’ha la Spagna, seguita dal Brasile, a sua volta molto esposto verso la Spagna. Poi ci sono l’Australia, la Francia, l’Italia, il Messico e la Turchia.

A fronte di questi due aggregati, si verificano situazioni di singoli paesi che soffrono di squilibri rilevanti, relativamente alla dimensione della loro economia. Fra i creditori, il caso più eclatante è quello di Hong Kong, la cui NIIP è positiva per oltre il 250% del pil, mentre Singapore sta poco sotto, un filo sopra la Svizzera. L’Arabia Saudita sta intonro al 100%, mentre nella classifica a due cifre troviamo il Giappone, il Belgio, l’Olanda, la Germania e la Cina. Positivi, ma assai meno eclatanti, le posizioni nette di Russia, Malesia e Corea del Sud.

Fra i debitori primeggia la Spagna, con una NIIP negativa per quasi il 100% del Pil, peggio persino della Polonia e della Turchia. Gli Stati Uniti, sempre nel 2012, avevano un deficit di circa il 15% del Pil, migliore di quello dell’Italia, ma peggiore di quello di Thailandia, Francia, Canada e India.

Risalgo sulla mia macchina del tempo e faccio un salto nel 2013. Ma solo per scoprire che gli squilibri sono peggiorati. Gli attivi sono aumentati a Hong Kong, a Singapore, in Giappone, in Germania e in Cina. I passivi sono peggiorati in Spagna e in Polonia, in Messico e in Brasile, negli Stati Uniti e in Italia, e sono migliorati solo di poco in Turchia e in Australia. Questi ultimi due, nel corso del 2013, hanno subito notevoli svalutazioni, e questo certo li ha aiutati.

Nell’eurozona, peggio della Spagna, hanno fatto solo Grecia, Portogallo e Irlanda che però, nota il Fmi, hanno invertito il trend al contrario di quanto accaduto per gli iberici che dovranno migliorare significativamente il conto corrente per riuscire nell’impresa. Per la cronaca, i tre che hanno “svoltato” stavano fra il 110 e il 120% del Pil di NIIP negativa.

Lato creditori osservo che i trend sono cambiati anche qui di poco. Certo, Hong Kong non registra più il 350% del pil di NIIP positiva com’era nel 2007, ma sta più vicina a 300 che a 250. La Cina è stabile e il Giappone ha pure guadagnato qualche punto percentuale. Anche i grandi creditori dell’eurozona sono stabili: Germania, Olanda e Belgio, esattamente come la Svizzera.

Poiché è irragionevole attendersi grandi cambiamenti nello spazio di un solo anno (e non c’è da augurarseli, atteso che implicherebbero sconvolgimenti gravi), m’imbarco di nuovo sulla mia macchina del tempo e arrivo fino al 2019, dove arrivano le proiezioni del Fmi.

Scopro che, fra i debitori più gravi, sempre ammesso che continui la correzione in atto, l’Irlanda dovrebbe arrivare a una NIIP negativa pari al 40% del suo pil, più o meno al livello del 2007 prima della crisi. Per allora Grecia e Portogallo dovrebbero essere ancora con un -80% del Pil di NIIP e la Spagna dovrebbe essere a -60%, a livello della Turchia, che si prevede peggiorerà, come anche l’Australia.

Fra i creditori, Hong Kong dovrebbe “fermarsi” a una NIIP positiva per il 200% del Pil Cina e Giappone si prevedono stabili al livello attuale, mentre la Germania si prevede migliorerà significativamente superando il Giappone. Quindi anche nel 2019 i magnifici tre, Cina, Giappone e Germania, continueranno a pesare più della metà della massa creditoria globale.

Stanco e un po’ deluso, abbandono la mia macchina del tempo, ormai inutile. Capisco che siamo destinati a invecchiare, a meno di capovolgimenti globali, in questa condizione, dove grandi creditori e grandi debitori, sempre gli stessi, tengono in scacco il mondo con i loro crediti/debiti irredimibili che generano enormi quantità di capitale fittizio.

Queste partite, che mai troveranno la pace del pagamento, sono destinate al contrario a creare tensioni e fibrillazioni, imponderabili, ma, di sicuro, potenzialmente catastrofiche, con ciò negandosi il fine autentico della finanza (dal latino: finis), ossia dilazionare i debiti in vista del pagamento, e trasformandola invece in una diabolica macchina che tali debiti rende infintamente commerciabili e sostenibili.

I due colossi continueranno a guardarsi in cagnesco.

La pace fra loro è assolutamente impossibile.

Il fallimento del riequilibrio globale

I primi tre terribili anni dei tremendi anni Dieci del XXI secolo appaiono, osservati da un grafico del Fmi, la migliore descrizione possibile di un fallimento. Gli squilibri dei conti correnti delle principali aree economiche sono diminuiti, ma quelli globali no. Al contrario: sono andati distribuendosi verso le economie più periferiche, dove sono persino peggiorati, raggiungendo in alcuni casi il livello del 2011, l’anno in cui suonarono tutti i campanelli d’allarme possibili, con l’eurozona preoccupata per le sorti della sua moneta e l’Italia sull’orlo del precipizio dopo la crisi del debito sovrano europeo.

Lo stesso Fondo monetario, nel suo ultimo external report di luglio, osserva sconsolato quest’evoluzione, tanto più notabile in quanto propedeutica al momento in cui le straordinarie facilitazioni monetarie inizieranno a venir meno, con la crescita del prodotto globale ancora sotto il suo livello potenziale. L’output gap previsto per il 2014, ammesso che tale rilevazione statistica abbia un senso, ossia la differenza fra pil potenziale e pil reale, rimane elevato su scala globale, segnando un -1.9%, persino maggiore di quanto non fosse nel 2011 e solo in lieve miglioramento rispetto al 2013 (-2,1%). E poiché la crescita rimane l’unica variabile capace di scardinare la tremenda stagnazione deflazionaria che incombe sulle economie avanzate, il Fmi non può che volgere lo sguardo verso le economie di Usa e Uk, che nel 2013 hanno dato segnali di un certo rinvigorimento, che però prelude alla fine delle politiche monetarie espansive. E questo è un problema collaterale.

Rimane il fatto che, nonostante tutta la fatica compiuta in questi anni, il risultato è che “le economie emergenti rimangono vulnerabili a shock finanziari, compreso un riprezzamento del rischio di credito o un nuovo innalzamento del premio sul rischio sovrano”. I rischi, e con loro gli squilibri, insomma, si sono annidati laddove è più complicato o meno interessante scorgerli. Ma ciò non vuol dire che siano meno pericolosi, visto i legami commerciali e finanziari che esistono fra queste economie e quelle avanzate.

Poi c’è un altro problema che giova sottolineare. Il picco di squilibri, raggiunto nel biennio 2006-7, si è corretto in gran parte, fra il 2008 e il 2009, a causa del crollo dei mercati, che hanno fatto dimagrire gli asset, da un parte, e ridotto gli scambi fra i paesi del mondo, oltre che dal declino del costo delle commodity. Nel 2010 gli squilibri, in coincidenza con i primi segnali di normalizzazione dell’economia,  sono tornati a crescere, e da quel momento in poi sono rimasti pressoché costanti diminuendo solo marginalmente e in maniera diseguale. Nell’eurozona, per fare un esempio, sono migliorati grazie soprattutto al crollo della domanda interna dei paesi in deficit. Il che non è esattamente un buon viatico per il futuro.

Fra i paesi in surplus – anche un surplus fuori misura è uno squilibrio – gli asiatici, Cina e Giappone in testa, hanno visto diminuire i loro attivi, salvo la Corea del Sud, che invece ha aumentato l’eccedenza, e altrettanto è accaduto a Germania e Olanda, mentre gli esportatori di petrolio, ossia gli altri grandi creditori, hanno subito andamenti più volatili. Fra i paesi debitori, spiccano gli Usa, che hanno diminuito il deficit esterno del conto corrente dal 6 al 2,3% nel 2013, pure se al costo di un notevole peggioramento della posizione netta degli investimenti esteri, ormai in deficit per il 27% del Pil dal -15% del 2010, e prevista in peggioramento di un ulteriore 5% nei prossimi cinque anni. Ciò vuol dire che il debito estero lordo americano ha raggiunto la non invidiabile quota del 160% del Pil.

Il peggio però è che al “miglioramento” americano e cinese, dei rispettivi deficit e surplus, ha finito col corrispondere il peggioramento della situazione estera di paesi che sono periferici, ma poi neanche tanto. Fra quelli in surplus, oltre alla Corea del sud, hanno visto crescere il surplus, rispetto al 2011, la Germania (malgrado il miglioramento sul 2012), la Svezia e persino l’Euroarea nel suo complesso, il cui surplus, peraltro, non ha mai smesso di crescere dal 2011. Esattamente come è successo alla Svizzera.

Fra i debitori, è molto peggiorata la posizione estera del Messico, dell’Indonesia e della Gran Bretagna, ormai verso un deficiti del 4%. Il Canada è tornato sostanzialmente al deficit del 2011, mentre il Brasile lo ha pressoché raddoppiato. Tutti gli altri Brics, a parte l’India, scontano un sostanziale peggioramento. Il Sudafrica è arrivato a un deficit del 5,8%, la Turchia sfiora ormai l’8%, mentre la Russia, pressata dalle note vicende internazionali, ha visto praticamente dimezzare il suo surplus.

In Europa vale la pena segnalare che la Germania ormai è stabilmente sopra l’8% e la Francia stabilmente in deficit per circa l’1,4%. Migliorata la Spagna e anche l’Italia, unico paese del gruppo considerato a essere passato dal deficit a un piccolo surplus.

Sulla sostanza di tali movimenti, il Fmi ha pochi dubbi: “In generale i movimenti del conto corrente nel 2013 appaiono correlati più a cambiamenti delle domande interne piuttosto che ad evoluzioni della domanda estera, con un contributo della politica fiscale”. Gli stati messi a dieta, insomma, hanno corretto alcuni squilibri, che però – di fatto – sono stati scaricati su altri. “In prospettiva globale – conclude il Fmi – il saldo aggregato delle economie in surplus e delle economie in deficit è rimasto eccessivo nel 2013”. Il riequlibrio, insomma, è stato un sostanziale fallimento.

In questa temperie maturerà la resa dei conti.

Diplomazia dei prestiti esteri: Italia nella morsa franco-tedesca

C’è, nella narrazione delle cronache diplomatiche, un costante pudore riguardo alle corrente più profonde che legano un paese a un altro. Pronti a spiare dal buco della serratura, scrutando persino maniacalmente i sopraccigli dell’uno o dell’altro premier, o le pettinature delle first lady, i giornalisti fanno costante opera di ablazione sui motivi più autentici, perché derivano dalla storia, in ragione dei quali le diplomazie compilano le loro agende.

Eppure se si avesse voglia di scrutare i fatti prosaici, gli investimenti di portafoglio per dirne uno, si scoprirebbe che la diplomazia delle cronache e quella, più sottile ma altrettanto pervasiva, del denaro sovente seguono percorsi paralleli, per non dire coincidenti.

Faccio un esempio. Il nostro neonato premier ha concluso il suo primo giro di visite estere, incontrando, nell’ordine, Hollande (15 marzo), la Merkel (16 marzo), e poi tutti insieme appassionatamente nel Consiglio europeo (20 marzo), concedendosi un siparietto a tre prima del summit.

Il mainstream informativo ha congetturato sulla circostanza che la visita ad Hollande fosse propedeutica a quella con la terribile cancelliera per arrivare a una posizione comune (“cambiare verso all’Europa”) forti delle comune radice latina. E giù le solite veline.

La diplomazia dei prestiti, invece la racconterebbe così: Renzi è andato da Hollande perché l’Italia (dopo l’Olanda, ma capite bene la differenza) è il paese verso il quale si concentra la quota più rilevante di investimenti di portafoglio francesi.

Per la cronaca, secondo i dati del Fmi, a metà del 2013, tali investimenti francesi in Italia quotavano 301,291 miliardi di dollari, il 12% del totale degli investimenti di portafoglio francesi nel mondo (pari a 2.583 mld di dollari). Sottolineo che di questi 301 e passa miliardi ben 279 sono investiti in obbligazioni. I più svegli avranno già capito quali.

Ce n’è abbastanza per giustificare una prima visita al proprio “azionista estero” di riferimento?

La Merkel subito dopo, va da sé. In fondo i tedeschi (secondo semestre 2013) avevano investimenti di portafoglio in Italia per 214 miliardi di dollari, un filo sotto quelli francesi.

Quanto al siparietto italo-franco-tedesco prima del vertice, somiglia a una di quelle barzelletta con un italiano, un francese e un tedesco. La diplomazia dei prestiti ci racconta infatti che l’Italiano deve 301 miliardi ai francesi, che però ne devono 371 ai tedeschi, visto che la Francia (dopo il Lussemburgo, ma questa è un’altra storia) è il secondo partner degli investimenti di portafoglio esteri tedeschi.

Perciò l’italiano va dal francese per chiedere sostegno a chi a sua volta viene sostenuto da quello nei confronti del quale l’italiano chiede sostegno. Una barzelletta, appunto. Ed è in questa commedia del genere “io lo so che tu lo sai che lei lo sa” che si consuma la cronaca politica.

La diplomazia dei prestiti ci racconta anche un’altra amena storiella. Ossia quella che si ricava scrutando l’andamento dei prestiti francesi all’Italia dell’ultimo decennio.

Chi frequenta la storia sa bene che l’Italia intrattiene con la Francia un rapporto privilegiato almeno dai tempi di Cavour. E sa bene che la diplomazia dei prestiti non è certo una mia invenzione, ma un genere, purtroppo poco frequentato dagli storici di professione. In un certo senso la Francia, da più di cent’anni ha un atteggiamento diciamo “paterno” nei nostri confronti.

Con l’arrivo dell’euro l’Italia è diventata destinataria della grande generosità francese, replicandosi un po’ quello che ha fatto la Germania con la Spagna.

A voler pensar male, viene quasi il sospetto che il mitico asse franco-tedesco abbia trovato una sua saldatura nel dividersi pacificamente alcune zone d’influenza – la Francia l’Italia, la Germania la Spagna – rafforzando i legami già esistenti col denaro facile.

Vi do solo alcuni dati. Nel 2001 gli investimenti esteri francesi in Italia ammontavano a 73,5 miliardi. Con l’arrivo dell’euro, appena tre anni dopo, nel dicembre 2004, erano già 233 miliardi, per crescere senza sosta fino al top di 336 miliardi a fine 2009. Due anni dopo, a fine 2011, erano crollati a 254. Un bel dimagrimento. Ma poi la nostra riconosciuta responsabilità ha fatto ripartire i prestiti fino al livello attuale.

La cosa divertente è che se guardiamo gli investimenti esteri di portafoglio tedeschi in Francia le cifre sono soprendentemente simili e al tempo stesso divergenti. A gennaio 2001 erano 74 miliardi di dollari. Cominciano a crescere con l’arrivo dell’euro e due anni dopo erano raddoppiati a oltre 155 miliardi.

Con la crisi però le cose cominciano a divergere. Mentre l’Italia vede scomparire i suoi prestiti esteri (mal comune a tanti PIIGS), specie quelli franco-tedeschi, la Germania aumenta la sua esposizione verso la Francia, che esplode proprio con l’inizio della crisi. D’altronde è notorio che il debito francese piace alla gente che piace.

Infatti la crisi degli spread alla Francia le fa un baffo. Magari perché hanno giovato alla bisogna i 272 mld che la Germania aveva investito oltralpe a fine 2009, che diventano 295 nel 2010, 301 nel 2011 e addirittura 371 nel 2013. La Francia è diventata la nuova Spagna dei tedeschi.

Solo che la Francia non è la Spagna, e la storia è lì a testimoniarlo. Difficilmente i tedeschi potranno far con la Francia la voce grossa, godendo i francesi di un inestimabile spread politico sul quale contano i PIIGS per frenare il dispotismo euro-asiatico.

Ed ecco qui il nostro premier neonato che va da Hollande e poi dalla Merkel, ossia dal suo creditore francese che è debitore del suo altro creditore tedesco e prova a uscire dal cul de sac nel quale ci ha infilato un quarantennio di politiche scellerate. Ma che solidarietà possiamo aspettarci da una Francia che sta praticamente quasi peggio di noi? Secondo voi Hollande sarà portato a dare ragione a Renzi o alla Merkel?

In fin dei conti, quello che diplomazia dei prestiti svela, con disarmante chiarezza, è che noi italiani siamo debitori per oltre 500 miliardi, la gran parte investiti in nostri titoli di stato, all’asse franco-tedesco.

Che ormai non è più un asse, ammesso che lo sia mai stato.

Per noi è una morsa.

(2/segue)

Leggi la prima puntata

Un futuro “luminoso” per lo shadow banking

A conclusione di questa miniserie sullo shadow banking si può dire che abbiamo acquisito alcune informazioni tecniche, ma soprattutto sistemiche. Che poi sono quelle che ritengo più interessanti.

Abbiamo scoperto, ad esempio, che le banche ombra hanno prosperato negli ultimi decenni contrabbandando l’illusione di essere riuscite a creare dei titoli totalmente privi di rischio (risk free). E non tanto perché ciò fosse la realtà, ma perché veniva percepita come tale. Ma tutto ciò che hanno ottenuto è stato di aver spostato il rischio dal singolo titolo a tutto il sistema. La logica del risk free ha condotto a quella del systemic risk.

Bell’affare.

Abbiamo scoperto che gli strumenti di questo spostamento planetario del rischio sono stati la pratica della cartolarizzazione e l’esistenza di mercati finanziari sempre più liquidi e profondi, frutto di un trentennio di liberalizzazioni dei movimenti di capitale, che hanno incoraggiato le banche (prima) e altre entità finanziarie (poi), a spingere il pedale sullo shadow banking per fare intermediazione creditizia in maniera sempre più profittevole. Sempre spostando il rischio a livello sistemico (in finanza avere più rendimenti implica correre più rischi).

La catena del credito, allungandosi, generava altro credito (quindi debito) arrivando a diluire tutti i titoli in una sorta di piscina finanziaria (wholesale funding) dove questa cartaccia veniva percepita come cash (liquidità) e da dove tutti attingevano per alimentare le proprie transazioni e fare soldi con gli spread.

Così siamo arrivati alla crisi.

Quando tutti si sono svegliati dal bel sogno di un mondo senza più rischio finanziario, hanno capito che al contrario il mondo rischiava il collasso finanziario. Gli stati, a cominciare dagli Stati Uniti, hanno dovuto stendere una rete di protezione senza precedenti nella storia per evitare il crollo dei mercati dei capitali che, dai vertici della catena, le banche, si sarebbe trasferito alla base (la fonte della liquidità) creando un’ecatombe.

Nella storia americana, ha ricordato Daniel K.Tarullo, componente del board della Fed in un discorso a Washington del novembre scorso (“Shadow banking and systemic risk regulation”), il crollo sperimentato dallo shadow banking fra il 2007 e il 2008 “ha ricordato simile fughe disordinate dai depositi bancari non assicurati nelle crisi di panico finanziario che hanno afflitto le nazioni fra la fine del XIX e i primi anni del XX secolo”.

All’epoca i depositi bancari non erano assicurati, e quindi le corse agli sportelli (deposit runs) erano frequenti.

“I più drammatici – ricorda Tarullo – furono i bank runs dei primi anni ’30, che culminarono nel bank holiday del 1933”, quando le banche furono chiuse per tre giorni alla fine dei quali fu varato l’Emergency banking act, un insieme di norme che si proponeva di mettere al sicuro le banche, prevedendo fra le altre cosa la fondazione della Federal Deposit insurance corporation (FDIC), che assicurò tutti i depositi bancari fino a un certo importo.

Il paragone di Tarullo ci dice una cosa molto semplice: per salvare le banche, negli anni ’30, servirono leggi straordinarie e una garanzia di sistema. Poiché la crisi dello shadow banking ricalca quelle vicende, servono rimedi simili, se si vuole mettere in sicurezza un sistema che, volenti o nolenti, dovremo tenerci per i prossimi 80 anni almeno.

La parolina magica stavolta è: regolazione.

Il problema invece è: servono tante regole diverse quanto sono i soggetti che operano nello shadow banking.

Perché è chiaro: una cosa è avere a che fare con un broker, un’altra con una SPEs (special purpose entity), un’altra ancora con un mutual fund, o magari con una controparte centrale.

Le banche invece si somingliano tutte. E peraltro sono già ben regolate (fin quando non trovano l’inganno che fa fessa la legge, come è stato grazie anche allo shadow banking).

I partecipanti allo shadow banking, invece, sono numerosi e assai diversi per missione, strumenti utilizzati e fisionomia. Un vero rompicapo per il regolatori.

Rimane il problema che questo universo muove tuttora un sacco di soldi. “Le banche e i broker-dealer al momento prendono in prestito circa 1.600 miliardi di dollari, molti dei quali dai fondi monetari (money market fund) attraverso il tri-party repos. In cambio le banche e i broker-dealers usano i reverse repo per recuperare più di 1.000 miliardi per finanziare i loro prime broker e altri clienti”. E “malgrado il volume di queste attività sia diminuito considerabilmente fin dalla crisi – sottolinea – c’è ogni ragione per credere che tale volume di attività potrà crescere non appena le condizioni economiche miglioreranno”.

Insomma, il futuro dello shadow banking è alquanto “luminoso”.

Senonché, i precedenti hanno insegnato che è anche alquanto pericoloso. Tarullo insiste perciò sui progressi effettuati sul versante della regolazione dal 2008 in poi. Ad esempio alzando i requilisiti di capitali o fissando indici di liquidità, in applicazione ai principi di Basilea III.

Vi risparmio i tecnicismi, perché penso ne abbiate abbastanza dopo questi tre post. Quello che conta è capire il principio: più regolazione significa rendere più difficile prendere a prestito o dare prestiti. Significa strozzare la catena dell’intermediazione creditizia. Un po’ l’effetto che provoca la crisi, ma stavolta in condizioni di salute.

Per darvi un’idea, prima della crisi le banche di clearing, che si interpongono fra i contraenti nel tri-party repo, fornivano il 100 per cento del credito intraday. Oggi appena il 30% e si va verso il 10%. “Il tri-party repo – spiega Tarullo – avrebbe sofferto un crollo su larga scala se non fosse intervenuto il settore pubblico”.

Progressi, perciò, ce ne sono stati. Ma non a sufficienza. “Prima della crisi queste entità (dello Shadow Banking, ndr) erano fuori dalla regolamentazione – conclude Tarullo -. I processi stabiliti grazie alla Dodd-Frank Wall Street reform e al Consumer protection act hanno provveduto a assicurare che il perimetro della regolazione fosse esteso anche a tali istituzioni. Ma noto che il rischio sistemico associato ai finanzamenti a breve nel Wholesale funding non è ancora stato contemplato nelle norme adottate finora. Per questo serve un piano più comprensivo di riforme”.

Fin qui Tarullo, del quale bisogna apprezzare la buona volontà e l’ingenuità. L’eterno dilemma fra regolazione e sregolatezza, infatti, è una delle costanti del sistema capitalistico (inteso come mercato dei capitali) e la saggezza popolare insegna che fatta una legge si trova sempre un inganno.

Ma come tutti i dilemmi anche questo è figlio di un inganno.

L’esigenza della regolazione, infatti, nasce da due circostanze: prima di tutto che ci sia libertà di movimenti del capitale. Poi che ci sia abbondante capitale.

Sul primo punto non troverete nessun banchiere centrale (ossia un regolatore) che oggi vi dica che i movimenti di capitale devono essere controllati. Al contrario.

Quanto al secondo punto, basta leggere l’ultimo rapporto sulla stabilità finanziaria del Fmi (ottobre 2013) che dedica un box proprio al wholesale funding. Alla fine della sua disamina il Fondo dice una cosa precisa: “Il WF può essere spiegato come una risposta all’innovazione finanziaria (che di solito è il frutto della reazione alla regolazione, ndr) e alla creazione di un eccesso di risparmio nel settore corporate di alcuni paesi e nell’aumento delle riserve di alcuni paesi emergenti”.

E’ l’abbondanza di risparmio, quindi del credito, quindi della liquidità, a generare la domanda di un suo impiego remunerativo.

Se pensate che siamo anche società che invecchiano, e che quindi vedono crescere sempre più la propria quota di risparmio a vantaggio dei cosiddetti investitori istituzionali, a cominciare dai fondi pensione, avrete chiaro perché questa mole di risparmio, alla costante ricerca di rendimenti, sarà la vera benzina dello shadow banking. 

Tutto questo mentre le banche centrali continuano a pompare soldi nel sistema finanziario per non farlo crollare.

Come vedete, è tutt’altro che un dilemma. Regolatori e liberalizzatori vogliono esattamente la stessa cosa: fare soldi coi soldi.

Non usciremo dallo Shadow banking finché non capiremo questo.

(3/fine)

L’età della disuguaglianza

La disuguaglianza nella distribuzione della ricchezza è ai suoi massimi storici, scrive il Fmi nell’ultimo numero del suo magazine.

Negli Stati Uniti, nel 2012, il 10% dei cittadini più ricchi possiede il 50% della ricchezza nazionale “un livello mai visto sin dagli anni ’20”, sottolinea l’articolo per dare la giusta dimensione storica del fenomeno.

Gli anni Venti, lo ricordo, furono quelli ruggenti del boom creditizio, cui seguì lo sboom deflazionario degli anni ’30.

Come se non bastasse, il Fmi cita uno studio dell’Ocse secondo il quale la disuguaglianza è aumentata, negli ultimi tre anni, assai più che nei dodici anni precedenti al 2010. A dimostrare che la crisi funziona benissimo a dare a chi ha già tanto e a togliere a chi ha poco.

Ma sbaglierebbe chi pensasse che è un fenomeno transitorio. Che, vale a dire, passata la crisi tutto tornerà come prima.

L’età della disuguaglianza non è un semplice incidente di percorso.

Al contrario, è il prezzo che le economie avanzate stanno pagando, e pagheranno anche in futuro, per aver seguito una precisa strada, quella che ancora oggi costituisce il mainstream economico del nostro tempo: la liberalizzazione dei capitali e, a seguire, il consolidamento fiscale, che come tutti sanno è stata una precisa conseguenza di tale pratica.

A tale considerazione è arrivato anche il Fmi.

“Numerosi fattori – scrivono gli autori dell’articolo – hanno contribuito a questa crescita (della disuguaglianza, ndr). L’evoluzione tecnologica, che ha dato vantaggi a chi lavora con i computer e l’information tecnology, e l’evoluzione della produzione industriale che si è spostata dai lavoratori poco qualificati a quelli molto qualificati”, con la conseguenza che l’aumento della domanda per i secondi ha depresso i redditi dei primi.

“Ma le nostre ricerche recenti – aggiungono – hanno scoperto altri due fattori che hanno contribuito a far crescere la disuguaglianza. Il primo è stato l’apertura del mercato seguita alla liberalizzazione dei movimenti di capitale. La seconda è l’azione politica dei governi tesa ad abbassare i propri budget”.

Il tanto declamato consolidamento fiscale.

L’austerity, insomma, ha cancellato una delle funzioni della spesa pubblica, ossia il suo carattere redistributivo.

Che questo trend sia ormai divenuto un fatto storico lo dimostrano anche due grafici elaborati dagli autori.

Nel primo si vede che la curva che misura l’andamento della liberalizzazione dei capitali cresce insieme alla curva che misura il coefficiente di Gini, ossia l’indice che misura la diseguaglianza.

Quest’ultimo si misura nell’intervallo fra zero (massima uguaglianza) e 1, nessuna uguaglianza. Alla fine degli anni ’80 l’indice di Gini misurava circa 0,40. Nel 2010 aveva già superato 0,45. E dopo è ancora peggiorato.

Allo stesso tempo la curva che misura l’indice di liberalizzazione dei capitali è sempre cresciuta, passando da un valor di circa 0,8 all’1,5 di fine 2010.

“L’indice di Gini – scrivono – è cresciuto di circa l’1,5% dopo l’inizio della liberalizzazione e del 2% dopo cinque anni”.

Questo per gli amanti delle costruzioni empiriche.

“Ci sono molti canali attraverso i quali l’apertura del mercato dei capitali impatta sulla diseguaglianza – scrivono -. C’è la prova che l’impatto della liberalizzazione sulle differenza salariali è alta nelle industrie che dipendono dai finanziamenti esteri”. Che in un mondo il cui il capitale è globalizzato signifca praticamente tutte.

Il consolidamento fiscale ha aggiungo benzina al fuoco.

Il combinato disposto fra tagli di spesa e aumenti di tasse, chiesti a gran voce per abbassare i deficit pubblici ha avuto un effetto diretto sulla disuguaglianza.

“Negli ultimi trent’anni – scrivono – ci sono stati 173 episodi di consolidamento fiscale nelle 17 economie da noi considerate. C’è la chiara evidenza che il declino dei budget pubblici è stato seguito da un aumento della disuguaglianza”.

In particolare, “il coefficiente di Gini è aumentato dello 0,2% due anni dopo un consolidamento fiscale e dell’1% dopo otto”.

Quindi gli effetti di un consolidamento fiscale sulla disuguaglianza durano anche nel medio-lungo periodo. Specie se il consolidamento avviene durante un periodo di recessione che, aumentando il rapporto debito/pil rende necessario un ulteriore consolidamento.

Che è esattamente la situazione in cui ci troviamo noi e mezzo mondo.

La conclusione dei due autori è molto salomonica. Capitali liberi e deficit sotto controllo portano molti vantaggi, ma hanno lo svantaggio di aumentare la disuguaglianza. Da qui l’invito ai governi a studiare bene le propri azioni per provocare effetti redistributivi, pur nei vincoli che abbiamo detto. Principalmente promuovendo l’educazione scolastica per alzare il livello di skill dei lavoratori.

Fin qui il Fondo monetario.

Se volessimo fare una capatina in casa nostra, però, potremmo leggere uno studio recente della Banca d’Italia dedicato proprio al tema della disuguaglianza del reddito in Italia. Il paper è particolare perché è stato costruito sulla base delle sole dichiarazioni del redditi.

Alcune cose è facile immaniginarle. Tipo che al Sud la diseguaglianza è assai più alta che al Nord (indice di Gini  a 0,4 medio al Sud a fronte di 0,37 medio al Nord), che ci sono profonde differenza fra centri urbani (più sperequati) e province, o che è aumentata parecchio dal 2010 in poi. Altre vale la pena sottolinearle.

In particolare Bankitalia scrive che “gli anni duemila sono stati interessati da una sostenuta crescita dell’indebitamento delle famiglie e delle imprese. Nel 2010 i prestiti alle famiglie in rapporto al reddito erano pari al 65%, 30% in più rispetto al 2000; il debito delle imprese in rapporto al Pil era superiore all’80%, in marcato aumento rispetto al 2000”.

Un altro effetto della liberalizzazione dei capitali.

Negli anni 2000, infatti, in Italia sono affluiti un sacco di soldi dall’estero, segnatamente dai paesi forti dell’euro. “Il maggiore ricorso al credito da parte del settore privato – nota – potrebbe aver influenzato la distribuzione del reddito”.

Se poi andiamo a vedere alcuni grafici, notiamo alcune cose:

1) La quota di reddito detenuta dal 10% più ricco in Italia ha sfiorato quota 35% nel 2007 per poi stabilizzarsi poco sotto, intorno al 33%, il più alto dal 1975. Nei primi anni ’80 era poco sopra il 25%, dopo cioé la grande redistribuzione che si è consumata nella seconda metà degli anni ’70. Da quel momento in poi la quota di reddito dei più ricchi cresce costantemente;

2) la quota della rendita, sul totale dei redditi, è più che raddoppiata dagli anni ’80 ad oggi. Questa rendita non comprende i redditi da capitale, classificati a parte che comunque sono leggermente cresciuti. Cresciuta altresì la quota del lavoro autonomo.

Quindi, nel caso nostro, la liberalizzazione dei capitali ha, di fatto, favorito innanzitutto la rendita. Il reddito da impresa si è addirittura ridotto.

Concludo con un’ultima notazione. L’Ocse ha rilasciato l’ultimo report dedicato alle pensione dove, fra le altre cose, mette in evidenza che nel nostro paese le condizioni diseguali di lavoro possono condurre a una futura generazione di pensionati che saranno poveri in canna.

La differenze di ricchezza, insomma, sono destinate ad aumentare, anche perché all’orizzonte non si vede nessun tipo di retromarcia sulle politiche che le hanno determinate.

L’indice di Gini, insomma, è destinato a crescere.

La disuguaglianza non è più un incidente della storia.

E’ la Storia.

La Fed ci penserà 2,3 trilioni di volte prima di chiudere i rubinetti

Fra il dire e il fare c’è di mezzo un mare di denaro. Più o meno quello che potrebbe andare in fumo in mezzo mondo una volta che la Fed deciderà di tirarsi fuori sul serio dalla generosa politica monetaria che ormai porta avanti da cinque anni.

Il problema è che tanta generosità ha finito col far crescere ancor di più la montagna di debiti che ormai arbitra il nostro destino, e tirarsi fuori da queste obbligazioni non sarà facile, né semplice.

E, soprattutto, non sarà gratis.

Abbiamo già analizzato la quantità di disastri che potrebbe provocare la tanto ventilata (e poi altrettanto smentita) exit strategy americana. Quello che finora ci mancava era una stima dei danni. Ma era solo questione di tempo.

Infatti pochi giorni fa il Fondo monetario internazionale ha rilasciato il suo ultimo Global financial stability report che, non a caso, dedica un capitolo proprio all’annosa questione americana, ossia come smettere di far debiti senza poter smettere di farne.

“Condurre gradualmente – scrive il Fondo – la transizione verso tassi di interesse più elevati potrebbe essere positivo per la stabilità finanziaria, perché i rischi associati ai bassi tassi e l’accumulazione di eccessi possono essere ridotti”.

Senonché, il problema è che questi rischi non solo non si sono ridotti (e perché mai avrebbero dovuto ridursi?), ma “continuano ad accumularsi, includendo il deterioramento  delle condizioni di credito delle imprese non finanziarie e la ricerca di rendimenti di fondi pensioni e assicurazioni, oltre ad un aumento della duration dei portafogli”.

Tutto ciò rende improbabile che la normalizzazione monetaria non finisca col causare qualche disastro. 

Nel migliore dei mondi possibili, prospettivi di un rialzo dei tassi a breve dovrebbero condurre a un’ordinata ricalibrazione dei portafogli, che porterebbe con sé il riprezzamento di tutti i rischi. Se la liquidità sostiene questa “riconversione” non ci sono problemi, specie se, come dovrebbe essere, il contesto economico non è avverso.

Senonché queste condizioni ideali non sono molto probabili in un mondo drogato da anni di bonanza monetaria, che reagisce con estremo nervosismo anche solo a un annuncio di normalizzazione.

Sicché il Fondo si è trovato ad elaborare alcuni scenari, che prevedono la possibilità che la correzione delle condizioni di credito non sia così ordinata come dovrebbe, ma porti con sé perdite importanti nei portafogli mondiali, gonfi come non mai (compresi quelli delle banche centrali) di obbligazioni denominate in dollari e quindi pesantemente esposti al ribasso dei corsi provocato da un rialzo dei tassi. Senza contare le vendite forzate di asset che tali perdite potrebbero portare con sé, che avrebbero un ulteriore effetto crash sui mercati finanziari.

La peggiore di queste simulazioni prevede un aumento di 100 punti base sui tassi dei titoli decennali. Scelta non casuale. Le politiche di quantitative easing, infatti, hanno finito, fra le altre cose, con l’allungare la duration degli investimenti, visto che i tassi bassi, e la relativa fame di rendimenti che hanno provocato, hanno finito con l’orientare gli investitori sulle scadenza più lunghe.

Di conseguenza il grosso del rischio si è spostato su questa classe di titoli.

Ebbene, un incremento di 100 punti base sui titoli decennali americani provocherebbe perdite fino al 5,6% del portafoglio globale dei bond.

Una robetta da 2.300 miliardi di dollari, 2,3 trilioni.

“Ovviamente – sottolinea il Fondo – l’impatto di queste perdite dipende da varie condizioni”. E di sicuro i vari gestori, siano essi banche o fondi pensione, si staranno già posizionando in tal senso.

Ma i tassi più alti potrebbero essere anche la miccia capace di far esplodere la bomba delle banche-ombra.

Lo shadow banking, infatti, usa molto l’indebitamento a breve per indebitarsi sul lungo. La qualcosa potrebbe finire di mettere sotto stress il sistema finanziario, vuoi perché un rialzo dei tassi costringerebbe le banche ombra a disfarsi di asset, vuoi perché potrebbero diventare fonte di contagio sistemico.

Per uscire dal cul de sac nel quale si è infilata con le sue stesse mani, dice il Fmi, la Fed dovrà affidarsi “a una strategia ben ponderata di comunicazione”.

C’è da scommetterci che ci penseranno.

Almeno 2,3 trilioni di volte.

La medicina amara del Fmi per l’Ue

Il destino dell’Eurozona è scritto in un documento di 67 pagine che il Fondo monetario internazionale ha rilasciato in questi giorni. Si intitola “European Union: Financial System Stability Assessment”, e contiene alcune osservazioni che riepilogano con rara efficacia cosa sia stato finora il processo di integrazione europeo.

L’analisi inizia con l’individuare le cause della crisi, che sono da ricercarsi nella “innovazione finanziaria, la deregolamentazione, e la vigilanza troppo soft che hanno portato alla crisi finanziaria globale”. “L’Europa – aggiunge – è stata afflitta e probabilmente colpita più dura,emte rispetto ad altre parti del mondo a causa della sua dipendenza tradizionale dalla finanza basata sulle banche e a causa dell’alta leva finanziaria da queste utilizzata”. Per giunta “‘l’assenza di un sistema europeo di gestione delle crisi ha amplificato la crisi”.

Se la diagnosi è chiara, la prognosi lo è altrettanto: “Preservare la stabilità finanziaria in un ambiente del genere, con paesi altamente interconnessie attraverso notevoli esposizioni transfrontaliere, richiede un quadro sovranazionale di sorveglianza”. Detto in parole comprensibili, bisogna puntare sullo sviluppo delle istituzioni comunitarie, articolando gli interventi secondo una scaletta ormai ben nota a tutti: sorveglianza e ricapitalizzazioni bancarie, per cominciare, fino ad arrivare a politiche fiscali integrate.

“Le iniziative politiche intraprese – osserva il Fmi – hanno contribuito ad allentare le pressioni, ma la fragilità e le sfide rimangono”. A cominciare dalle banche, che “dovranno affrontare le conseguenze del rallentamento economico sulla qualità dell’attivo, previsto in deterioramento, mentre la domanda rimane debole e la crescita del credito è diventata anemica in tutta la regione”.

In effetti se guardiamo i grafici, osserviamo che i prestiti bancari nei paesi più importanti sono in forte rallentamento. Nei paesi più esposti, come Spagna e Italia, sono diventati addirittura negativi negli ultimi due anni. In Gran Bretagna, dopo il crollo del 2008, sono leggermente cresciuti, probabilmente grazie alle politiche accomodanti della Banca centrale inglese, ma rimangono sempre in zona negativa. Si salvano solo la Francia, che comunque ha visto diminuire la crescita dei prestiti dal +7% di ottobre 2011 a poco più del 2% di un anno dopo, mentre in Germania, l’unico paese in cui i prestiti bancari sono cresciuti dal 2010 in poi, non si va altre un povero 1% di aumento.

Che le banche europee siano diventate sempre più diffidenti nel concedere credito, lo dimostra anche la curva che misura l’esposizione estera intra-eurozona dal 1999 in poi. La curva trova il suo picco nel 2008, quando la crisi esplode, e poi decresce drammaticamente. I prestiti, in particolare, crollano nei confronti dei paesi periferici dell’eurozona, i famosi PIIGS,  mentre mantengono un aumento costante nei confronti dei paesi emergenti dell’eurozona.

Tale situazione ha un effetto diretto sui tassi di interesse sui nuovi prestiti a istituzioni non finanziarie, quindi aziende e famiglie. In Spagna i tassi sono ormai sopra il 5%, in Italia intorno al 4,5%, mentre in Germania non superano il 3%, poco meno della Francia.

Risolvere questa situazione, che nasce da squilibri strutturali profondi, non sarà facile né semplice. Il Fondo individua alcune mosse fondamentali, che passano dalla ricapitalizzazione delle banche e dalla loro ristrutturazione (dal 2007 il numero degli istituti è diminuito del 5%), all’aggiustamento dei debiti dovrani, che deve essere garantito dall’EFSF e dall’ESM da rendere operativi prima possibile. Ciliegina sulla torta: “Common fiscal and monetary backstops are essential”. Tradotto: servono meccanismi di garanzia europei sui debiti, sovrani e non, dell’eurozona.

Cosa significhi, in pratica, tutto ciò dovrebbe essere chiaro. Affinché il sistema finanziario europeo trovi il suo equilibrio, bisgnerà allargare sempre più la sfera di influenza delle autorità sovranazionali rispetto a quelle nazionali. La costruzione europea, per reggersi in piedi, dovrà prevedere ampie cessioni di sovranità, non solo monetarie, ma anche fiscali.

S’avanza il dispotismo Euro-asiatico.

Con la benedizione del Fmi.

Il Fondo monetario prevede un biennio in chiaroscuro

L’ultimo rapporto del Fondo monetario sull’economia internazionale, scritto in occasione del meeting dei ministri delle finanze e dei governatori delle banche centrali del G20, che si è tenuto a Mosca la settimana scorsa, è un delicato esercizio di stile. A fronte dei noti squilibri internazionali che hanno provocato, scrive, la peggiore crisi dal dopoguerra, il Fondo non può far di più che affidarsi scaramanticamente al genio dei mercati e cavarsela con il più classico degli espedienti. Una roba tipo: le cose vanno meglio, ma potrebbero peggiorare.

D’altronde, sarebbe ingeneroso chiedere di più alle previsioni economiche. E’ interessante però leggerle perché, al di là di ciò che dicono sul futuro, aiutano a capire lo stato del presente.

A livello sistemico, ormai l’economia si è quadripolarizzata. Gli attori sono gli Stati Uniti, il Giappone, l’Eurozona e i paesi emergenti. Ognuno di questi attori presenta luci e ombre, che si ripercuotono sull’outlook globale. Il Pil del mondo, tuttavia, è previsto in crescita dal 3,2% del 2012 al 3,5% del 2013 e al 4,1% del 2014. Il grosso della fatica, tuttavia, la faranno gli emergenti, la cui crescita è prevista al 5,5% nel 2013 e al 5,9% nel 2014. L’Eurozona dovrà fare i conti con un 2013 in recessione (-0,2%) e un 2014 con un risicato +1%, mentre gli Stati Uniti si prevede spunteranno un +2% quest’anno e un +3% l’anno prossimo. Persino il Giappone è previsto faccia meglio della zona Euro, con un +1,2% quest’anno e un +0,7 il prossimo. L’Italia rimane fanalino di coda, con un -1% quest’anno e un povero +0,5% l’anno prossimo.

Fin qui le buone notizie, chiamiamole così. Perché su questo scenario di crescita col freno a mano – la Cina, tanto per dire si prevede stabile intorno all’8% e l’India intorno al 6% – incombono tali e tante incognite che dovremmo brindare a champagne se tali risultati si verificassero.

A parte le incognite politiche, le elezioni italiane piuttosto che quelle tedesche, che il Fondo non trascura di menzionare, sono le grandi questioni macroeonomiche – che pure politiche sono – a preoccupare gli esperti del Fondo. Non a caso il paper si intitola “Global prospects and policy changelles”. Perché è vero che i mercati finanziari sono alle prese con un mini-boom, ma è vero altresì che ci sono ancora rischi rilevanti di nuovi sconvolgimenti. Perciò è necessario che ognuno faccia i propri compiti a casa.

L’eurozona, ad esempio, dovrebbe procedere speditamente verso una autentica unione economica e monetaria, per dare alla politica monetaria la capacità di trasmettersi davvero all’economia reale. Finora le trovate della Banca centrale sono servite a dare ossigeno ai mercati finanziari, ma tali stimoli si sono trasmessi con estrema lentezza al tessuto produttivo. Da qui la crescita al lumicino.

Se poi andiamo a vedere nel dettaglio, scopriamo che gli squilibri di cui soffre l’eurozona sono tutt’altro che sistemati. Le partite debitorie/creditorie dell’eurosistema delle banche centrali, ad esempio, vedono un costante aumento dei crediti tedeschi a fronte di un pressoché simmetrico aumento dei debiti di Spagna e Italia a cui corrisponde un allargamento dei corrispondenti spread. Da qui l’esortazione del Fondo a risolvere gli squilibri nei settori pubblici e privati e a mettere in campo politiche per aumentare la competività. Che in un’area monetaria unica significa svalutare i fattori della produzione, lavoro in testa.

Se andiamo negli Usa, a fronte di alcuni segnali positivi, come quelli che arrivano dal settore immobiliare che secondo il Fondo “è sano”, rimane aperta la madre di tutte le questioni: quella fiscale. Sui mercati pesa come un macigno l’incognita del tetto del debito e soprattutto quella dell’andamento di tale debito in futuro.

E lo stesso vale per il Giappone. Il varo dei piani di stimolo e la politica monetaria accomodante non potranno sopire a lungo i timori dei mercati. “In generale – scrive il Fondo – i paesi avanzati dovranno ridurre l’incidenza dei fattori connessi all’invecchiamento e alla salute sui propri bilanci”. Facile a dirsi.

Se guardiamo agli emergenti, la loro forza (i crediti) sono basati sulle debolezze degli altri paesi (i debiti), ma a ben vedere c’è il rischio che non si tratti di forza, ma di debolezza ben mascherata. Agli emergenti il Fondo raccomanda di ripensare lo spazio fiscale, per rilancia la domanda interna e gli investimenti, e di tenere gli occhi ben aperti sulla crescita del credito, pompata dagli afflussi netti dai paesi avanzati. Il rischio di bolle, aumentato dalle politiche monetarie espansive dei paesi avanzati, incombe sugli emergenti tanto quanto (se non di più) sugli altri. 

La conclusione è quasi sconfortante: “Gli squilibri globali si sono ridotti notevolmente, ma le vecchie sfide sono rimaste senza risposta”. Peraltro, nota il Fondo, molti di questi squilibri si sono corretti solo perché sono crollate le domande interne nei paesi in difficoltà, come è successo in Italia, e perché è aumentata la produttività, grazie al calo del costo del lavoro. 

Ciò illustra con chiarezza che la strada è già segnata per metà Europa. Nei paesi in difficoltà, quindi anche il nostro, le politiche di austerità favoriranno l’aggiustamento del mercato del lavoro. Quindi i cittadini avranno salari più bassi per migliorare la competitività. Ciò provocherà minori consumi e meno import, mentre le nostre aziende (cambio permettendo) potranno esportare di più, contribuendo così a correggere gli squilibri con l’estero. A fronte di tale situazione “deflazionaria” nell’Europa del Sud, tuttavia, dovrà irrobustirsi la domanda interna dei paesi emergenti e della Germania, visto che non è pensabile che gli Usa, alle prese con i propri problemi fiscali, ce la facciano a lungo da soli a tirare la carretta della ripresa mondiale né ci si può aspettare granché dal Giappone.

Il biennio in chiaroscuro previsto dal Fmi illustra una cosa: in un sistema quadripolare come quello attuale più che un equilibrio di forze si realizza un equilibrio fra massime debolezze.

Ed è già chiaro chi pagherà il conto.

Caccia grossa alle riserve cinesi

Ci siamo già occupati del fenomeno del boom di riserve accumulate dai paesi emergenti in concomitanza con l’esplosione degli asset finanziari nei paesi cosiddetti ricchi. Quello che non sapevamo, ma che abbiamo scoperto leggendo un interessante paper diffuso pochi giorni fa dal Nber, è che gli accademici stanno già ragionando su come tale stock di riserve possa influenzare il futuro del sistema monetario.

Il titolo stesso dello studio è assai eloquente: Il futuro della liquidità internazionale e il ruolo della Cina. Prima di addentrarci nel dettagli, vale la pena anticipare una conclusione. Lo status di potenza creditrice raggiunto dalla Cina nell’ultimo decennio ha condotto il Paese a diventare un serio candidato al ruolo di pietra angolare del sistema finanziario globale. O, per dirla in altro modo, i debiti dell’Occidente rischiano di consegnare all’Oriente copia delle chiavi del futuro. Questo suggerisce la teoria economica. In pratica la partita sarà assai più politica, come dimostra l’annuncio dell’avvio dei dialoghi per creare uno spazio economico-commerciale fra Usa e Ue fatto prima da Obama e poi da Barroso proprio poche ore fa.

Il paper riepiloga un simposio tenutosi a Pechino fra il 30 ottobre e il primo novembre 2011, quindi alcuni dati sono un po’ obsoleti. Ma il succo non cambia. Secondo l’autore dello studio, Alan M.Taylor, il mondo rischia una terza crisi monetaria, sul modello di quanto accadde nel 1930, quando la sterlinà abbandonò il gold standard, e nel 1971, quando gli Usa sganciarono il dollaro dall’oro. Ciò anche perché la notevole integrazione finanziaria raggiunta, che purtroppo si è scoperta essere associata con una grande turbolenza, sta facendo crescere in maniera esponenziale la domanda di riserve. Ed è proprio questa domanda che rischia di far collassare l’equilibrio monetario attuale basato sul dollaro.

Il punto di partenza è il cosiddetto paradosso di Triffin, dal nome dell’economista che l’ha formulato nel 1960. Ossia la circostanza che se la moneta di uno Stato viene usata come valuta di riserva mondiale, lo Stato in questione dovrà fornire agli altri stati moneta sufficiente per soddisfare la loro domanda di valuta di riserva, causando quindi un deficit della bilancia dei pagamenti, in particolare sul conto corrente. Se la domanda di riserva cresce esponenzialmente, in pratica, rischia di saltare il banco. Può accadere che gli altri stati non abbiano più voglia di sostenere gli squilibri della bilancia dei pagamenti dello stato-moneta con la conseguenza di una crisi valutaria prima e sistemico-monetaria poi. E’ già successo, e potrà succedere, nota Taylor. 

La prima questione è misurare la domanda di riserve. Dal 1990 al 2010 (tempo monitorato dalla ricerca) il rapporto Riserve/Pil nei paesi avanzati si è attestato intorno al 4%. Nei paesi emergenti tale rapporto è schizzato al 20%: il quintuplo. In valori assoluti, lo stock di riserve globali è passato dai 200 miliardi di dollari a circa 12.000: si è moltiplicato per 60. Da dove è arrivato tutto questo denaro? E soprattutto, dove è finito?

Cominciamo dalla seconda domanda. La lettura dei grafici pubblicati nello studio mostra con chiarezza che fino a metà 2005 lo stock di riserve dei paesi emergenti era più basso di quello dei paesi sviluppati. Poi avviene il sorpasso. Da quel momento la curva schizza in alto e continua a crescere, salvo una breve flessione fra il 2008 e il 2009.

Quindi sono i paesi emergenti a mettere fieno in cascina per i più svariati motivi, ma sostanzialmente per una buona ragione: anni e anni di crisi hanno insegnato agli emergenti che è meglio non fidarsi. Avere riserve da spendere aiuta eccome in caso di crisi valutaria o di aumento dell’import, cosa che di solito accade quando un paese si sviluppa ai tassi dei Bric. A tale conclusione è giunto di recente anche il Fmi (ne abbiamo parlato nel post Il capitalismo finisce in riserva).

Sapere da dove vengono questi soldi è ancora più facile. Dal 1990 in poi, quindi dopo la caduta del muro di Berlino, il livello di attività e passività in valuta in relazione al Pil dei paesi sviluppati è cresciuto a ritmi straordinari. Tale rapporto quotava poco più di 1,5 nel 1990 e ormai ha superato quota 5. Quindi i soldi arrivano da qui, dai Grandi Consumatori.

Il grafico successivo racconta un’altra storia interessante. La domanda di riserve detenute dai quattro Bric si impenna verticalmente fra il 2009 e inizio 2011. La paura della Grande Crisi la fa quasi raddoppiare. In pratica i Bric si riempiono di dollari proprio mentre l’America ne stampa a più non posso per allentare la morsa del credit crunch. Ciò che provoca la crisi (lo squilibrio della bilancia dei pagamenti americana)  allo stesso tempo la nutre. Di nuovo il paradosso di Triffin. Tale asimmetria, alla lunga, potrebbe generale un “dollari panic” disastroso, per l’America, ma anche per i Bric che vederebbero evaporare il valore di quanto hanno a riserva.

Come se ne esce? Lo studio vede un paio di scenari. Uno, chiamiamolo autarchico, in cui gli squilibri esteri si risolvono nel modo più traumatico. Un controllo più fitto sui movimenti di capitale, e quindi sulla finanza per come si intende oggi, capace sostanzialmente di far crollare il rischio di turbolenze, farebbe diminuire la fame di riserve, ma al costo di “esternalità negative” capaci di riportare l’orologio del commercio internazionale indietro agli anni ’30. Questo dice lo studioso.

O sennò bisogna fare in modo che la Cina entri nel grande gioco, infilando la sua moneta (rectius le sue riserve) nel grande calderone. Serve una riforma del sistema monetario internazionale nella quale, sostanzialemente, la Cina ceda riserve in cambio di posizione, con il Fmi nel ruolo di grande ciambellano. Perché è partita la caccia proprio alle riserve cinesi? Facile rispondere anche a questo. Nel 2000 le riserve cinesi erano poche centinaia di miliardi di dollari, ora sfiorano i 4.000 miliardi, quando la Russia, che è la seconda per riserve, non arriva a 500.

La morale della storia è che per mantenere lo status quo e insieme sciogliere il  paradosso di Triffin gli americani dovranno diventare un po’ cinesi e i cinesi dovranno diventare più americani.

Casualmente l’Europa si trova proprio in mezzo.

Cercasi India disperatamente

Sapete tutti di Cindia, fortunata crasi giornalistica di Cina e India, ossia la pangea economica a venire destinata a cambiare le sorti del pianeta. Si che lo sapete. Non passa semestre che qualcuno non vi dica che il pendolo del mondo si è spostato a Oriente, nel magico ed esotico mondo delle tigri asiatiche, del dragone cinese e, last but not the least, del pachiderma indiano.

Fedeli alla consegna che ci siamo dati di rimuovere un po’ di mitologia sui Bric e i loro satelliti, siamo andati a vedere le carte, approfittando dell’ultimo staff report sull’India rilasciato dal Fondo monetario internazionale. Un centinaio di pagine che fotografano lo stato generale del subcontinente e che ci auguriamo leggano tutti i seguaci dell’Oriente, se non altro perché sorga in loro il sospetto che l’India che dicono arriverà si basa sugli auspici assai più che sui fondamentali.

Il Fondo esordisce dicendo che l’economia indiana è andata rallentando significativamente dopo la rapida ripresa post crisi del 2008. E le previsioni parlano di crescita col freno a mano tirato anche per i prossimi anni a causa di alcune ragioni interne.

In cifre, il fondo nota che nel 2012 la crescita è stata del 6,5% ( era l’8,4 fra 2010/11 e il 10% nel 2006) e si prevede scenderà al 5,4 quest’anno per poi tornare al 6% nel 2013. Ciò a fronte di una produzione industriale crollata dagli 8,2 punti del 2011 ai 2,9 dell’anno scorso.

Nel periodo 2004-2011 la crescita media dell’India era stata dell8,3%, trainata, da bravo Bric, dall’export. Ma tanta fortuna ha generato un aumento della domanda interna  di cibo, elettricità, acciaio e trasporti, e in generale di infrastrutture, di fronte alla quale il Paese si è trovato drammaticamente impreparato, come si è visto, nota il Fondo, nel blackout del luglio 2012 che ha spento mezza India.

Servono quindi investimenti robusti per stare al passo dell’India che dovrebbe germinare Cindia. Il problema è che, pure se si riuscisse a far decollare gli investimenti (l’India gareggia con l’Italia per scandali e corruzione), bisognerebbe tenere conto degli ampi deficit fiscali, che ancora affliggono il Paese, e dell’inflazione a due cifre. “Una risposta comune alla bassa crescita – scrive il Fondo – è adottare politiche fiscali controcicliche”, ossia espandere la spesa pubblica. “Ma tali politiche – nota ancora – sono inappropriate per l’India. L’alta inflazione comporta che ci sia solo un piccolo spazio per tagliare i tassi, mentre il deficit fiscale, previsto all’8,7% del Pil nel 2013, mostra che sia prioritario controllare la spesa pubblica piuttosto che espanderla”.

Il quadro macroeconomico, d’altronde, non è semplice. Le esportazioni crescono più delle importazioni (309 mld di dollari previsti nel 2013 a fronte di 499 mld di import) e il saldo corrente della bilancia dei pagamenti è in costante rosso (-78 mld previsto per il 2013 e il 2014). C’è un deficit fiscale (con un debito estero in crescita costante, dal 18,7% del Pil del 2011 al 20,4 e 21,7 dei due anni successivi), l’inflazione è alta, più o meno sopra il 10%, e i bond a dieci anni pagano in media, nel 2012, l’8,2%.  Ciò spiega perché il Fondo parli di “vulnerabilità esternea causa del deterioramento della bilancia dei pagamenti”. Questo a fronte di un rapporto debito/Pil intorno al 66%.

Che fare allora?  Il Fondo auspica un consolidamento fiscale unito a un controllo dell’inflazione per rafforzare la posizione sull’estero. Allo stesso tempo che si rimuovano gli ostacoli strutturali agli investimenti, affrontando i problemi connessi all’energia (il governo sta pensando di togliere i sussidi ai carburanti) e alle materie prime. Poi servirebbero riforme per l’agricoltura, la scuola, il mercato del lavoro, la sanità, per ridurre i rischi finanziari e promuovere la solidità delle banche pubbliche.

Cercasi India disperatamente.