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Caccia a ottobre (in) rosso per le banche europee
Sfoglio distratto le pagine che riepilogano il lungo intervento di Ignazio Visco alla conferenza interparlamentare che le regole del fiscal compact prescrivono per gli stati, pubblicata giorni fa, ma l’unica cosa che mi suggeriscono è che il giorno della resa dei conti per le grandi banche europee è ormai dietro l’angolo.
Dal 26 ottobre la vicenda bancaria tornerà prepotentemente d’attualità con la pubblicazione dell’esito del comprehensive assessment che la Bce ha svolto in questi mesi. E solo allora sapremo se ci sarà un conto da pagare, che si aggiungerà alla già lunga lista della spesa del nostro governo, o se invece potremo tirare il fiato.
Non è una questione di poco conto. Visco ha sottolineato che “i fabbisogni di capitale risultanti dall’esercizio di valutazione dovranno essere soddisfatti in primo luogo attraverso il ricorso a risorse di natura privata”. Il che implica che eventuali carenze di capitale dovranno essere colmate dalle banche stesse e non dallo Stato. In primo luogo, però. Ma cosa succederebbe se i privati non dovessero rispondere all’appello?
Il tema è assai controverso, ed è comprensibile che nessuno azzardi una risposta. Visco, al contrario, ostenta un certo ottimismo, che solo i fatti ci diranno se è di maniera oppure se è fondato. “Al di là dell’entità dei fabbisogni di capitale che risulteranno dall’esercizio, – spiega – che prende a riferimento la situazione in essere alla fine del 2013, va ricordato che importanti risultati sono stati già ottenuti nel corso di quest’anno, rafforzando le iniziative assunte negli anni precedenti. In Italia numerosi intermediari hanno operato in bilancio ingenti svalutazioni delle poste dell’attivo (per oltre 30 miliardi nel solo 2013, per quasi 130 dal 2008), accrescendo la trasparenza dei bilanci. Sono state realizzate operazioni di rafforzamento patrimoniale per quasi 40 miliardi, di cui oltre 10 nel corso del 2014. Grazie a questi interventi le banche potranno far meglio fronte alle eventuali necessità di rafforzamento risultanti dall’esercizio”.
Per una di quelle misteriose vie che intraprende il pensiero, sapere che dal 2008 le banche italiane hanno svalutato 130 miliardi di crediti e hanno rafforzato il patrimonio per 40 miliardi, mi fa venire in mente un vecchio film degli anni ’90 che con le banche non c’entra nulla: caccia a ottobre rosso, la storia di un sottomarino sovietico sulla pelle del quale Usa e Urss giocano l’ennesimo esercizio di quel conflitto profondamente scacchistico che è stata la guerra fredda.
Ripenso alla trama e mi accorgo che in effetti le banche europee somigliano pericolosamente a quel sottomarino: sono dotate di armi nucleari, ossia gli esotici strumenti finanziari nascosti nei loro bilanci, e viaggiano negli abissi misteriosi del sistema finanziario, il loro personalissimo mare, senza che nessuno sappia bene cosa tengono ben nascosto nei loro arsenali. Sostanzialmente spaventano tutti, trattandosi di armi di distruzioni di massa, a cominciare dagli stati che pure le ospitano più che volentieri.
Da questa prospettiva il lungo discorso di Visco smette di annoiarmi e diventa interessante. L’avvio della supervisione unificata in sede europea, e segnatamente all’interno della Bce, è prevista per il 4 novembre, quindi pochi giorni dopo il disvelamento del comprehensive assessment. Da quel giorno a Francoforte si installerà una sorta di torre di controllo che potrà sindacare, finalmente fuori dai circuiti nazionali, sullo stato di salute delle banche, 120 al momento, molte delle quali fanno parte della lista dell istituzioni sistemiche che il Comitato di Basilea ha redatto. In sostanza quest’autunno vedrà il primo vagito dell’Unione bancaria, che segna l’inizio di una nuova Europa dove l’unificazione della valuta di conto viene completata dall’unificazione della moneta più consistente delle nostre economie: la moneta bancaria.
Per capire la rilevanza di questo passaggio storico, basta sottolineare come fa Visco che “l’azione di politica monetaria (della Bce, ndr), la definizione dell’Unione bancaria, il tornare a discutere di quella di bilancio, a progettare, in prospettiva, un’unione politica hanno contribuito ad avviare il ripristino durevole della stabilità finanziaria dell’area dell’euro e più favorevoli condizioni di finanziamento nei paesi esposti alle tensioni”.
L’istituzione della supervisione unificata, tuttavia, è solo il primo passo. Gli altri due, tuttavia, sono già stati compiuti e aspettano solo di essere attuati. Quindi l’attivazione del meccanismo di risoluzione e, soprattutto il più controverso: l’attivazione del fondo unico di risoluzione.
Visco ci ricorda che il consiglio unico di risoluzione sarà operativo dal primo gennaio 2015, “quando avvierà l’attività di raccolta di informazioni e di collaborazione con le autorità di risoluzione nazionali per la definizione dei piani di risoluzione delle banche. Il Consiglio, in particolare, adotterà le decisioni di risoluzione – con la collaborazione delle autorità di risoluzione nazionali – per le banche vigilate direttamente dalla BCE e per i gruppi bancari transfrontalieri”. Ma solo dal primo gennaio 2016 saranno operative anche le regole previste per il fondo unico di risoluzione che dovrebbe essere alimentato da accantonamenti delle stesse banche. Salvo per il periodo transitorio, che poi è quello che inizierà dal 1 gennaio 2015.
Ed è qui che torna la domanda: da chi dovranno essere coperte eventuali carenze di capitale che dovessero essere acclarate a fine ottobre? E chi pagherà il conto di eventuali risoluzioni bancarie che dovessero rendersi necessarie a partire dal 1 gennaio 2015?
Visco si limita a ricordarci ancora che “restano da definire, rapidamente, importanti aspetti operativi del meccanismo. Si tratta, in particolare, delle modalità per rafforzare la capacità finanziaria del Fondo di risoluzione, soprattutto nei suoi primi anni di vita, dei meccanismi per la definizione dei contributi dovuti dalle banche”. E poi che “andrà assicurato il rapido completamento dei passaggi necessari per garantire il rispetto di questa scadenza e consentire all’Italia di partecipare fin dall’inizio del 2015 alla preparazione del meccanismo unico di
risoluzione”.
Ma soprattutto è sullo schema assicurativo dei depositi che si giocherà la partita politica più importante: “Uno schema unico di assicurazione dei depositi, anche attraverso la mutualizzazione delle risorse all’interno dell’Unione, consentirebbe di affrontare meglio eventuali episodi di crisi sistemiche, attenuando decisamente i rischi di instabilità finanziaria a livello locale”.
Ed è proprio sul concetto di mutualizzazione delle risorse che andremo a vedere le carte di questa nuova eurozona. Se l’accettazione della mutualizzazione passerà per la logica degli aiuti condizionati, prevedendo al tal fine un ruolo apposito del fondo Esm, sarà evidente che l’eurozona avrà compiuto un importante passo in avanti verso l’unione fiscale utilizzando surrentiziamente quella bancaria. E non servirà molto tempo per capire se sarà così.
Una volta conclusa la “caccia” alle banche europee, che molto presto sapremo se ben capitalizzate o no, conosceremo anche chi e come dovrà pagare l’eventuale conto che la Bce presenterà ai mercati allo scopo, nobilissimo, di ristabilire la fiducia. Se poi la caccia a ottobre rosso finirà col farci scoprire banche in rosso ciò non potrà che affrettare il processo di unificazione bancaria, magari passando da una massicia stagione di fusioni e acquisizioni, visto che “il funzionamento della vigilanza unica sarà tanto più efficace quanto più verranno superati i limiti derivanti da ordinamenti ancora in gran parte nazionali”.
Ristabilire la fiducia, unificare il sistema finanziario, dopo quello monetario, preparerà anche il campo per un’ulteriore evoluzione della finanza europea. Oltre a spezzare il legame ancora forte fra banche e debito sovrano, bisognerà pure affievolire quello fra banche e imprese, cosicché queste ultime, ancora troppo dipendenti dai finanziamenti bancari, imparino a reperire fondi sul mercato dei capitali, come succede negli Stati Uniti.
Conclusione: alla fine di questo percorso avremo un nuovo sistema finanziario europeo, integrato, unificato, centralmente regolato e controllato. L’unione fiscale o politica, a questo punto, sarà solo questione di tempo.
E neanche troppo.
L’Europa bancaria si allarga verso Est
Assai più degli economisti, che si perdono nelle astruserie dei loro modellini econometrici, i banchieri centrali hanno il raro dono della sintesi e della chiarezza. E soprattutto sono alquanto spudorati.
A differenza dei politici, che hanno il fastidioso contrappasso di doversi fare eleggere, i banchieri centrali hanno il raro dono dell’indipendenza, che consente loro (in teoria) di dire e fare ciò che ritengono opportuno. Più dire che fare, in realtà, atteso che nessuno che abbia un minimo di buon senso può davvero pensare che la Fed, per fare un esempio, se ne infischi di quello che dice Obama.
Epperò la libertà di dire è già un bell’asset. Tanto più adesso che va di moda la forward guidance, che significa dire al mercato ciò che farò in modo che lui, poverino, non si spaventi.
E poiché i banchieri centrali non hanno peli sulla lingua, finisce che leggere i loro numerosissimi interventi che tengono in giro per il globo è assai più istruttivo che frequentare politici ed economisti, che poi in fondo sono figli dello stesso padre: l’esercizio retorico.
Non che i banchieri centrali non usino la retorica. Au contraire: sono zuppi di retorica, a cominciare da quella delle buone maniere. E tuttavia alla fine hanno il pregio di farsi capire e di farci capire, cosa più importante.
Essendo avido lettore di banchieri centrali (povero me), mi è capitato perciò di imbattermi nell’intervento di Mugur Isărescu, governatore della National Bank of Romania tenuto in occasione del 15esimo international advisory board di Unicredit, alla presenza del nostro ex premier Romano Prodi.
Ma non è stato il parterre a convincermi che dovevo leggere il pensiero del governatore rumeno: è stato l’oggetto del suo discorso: “Relations between euro and non-euro countries within the Banking Union”, ossia la relazione che si andrà a determinare fra i paesi dell’eurozona, iscritti d’ufficio nella nuova Unione bancaria, e quelli della Ue fuori dall’euro ai quali la normativa dà la facoltà di aderire.
L’Unione bancaria ormai da un po’ è sparita dalle cronache. Di recente è accaduto soltanto che è stato completato l’iter normativo che ha dato vita al corpus di norme che vi riepilogo per sommicapi. Tutti e tre i pilastri dell’Unione bancaria, quindi supervisione, risoluzione e fondo di risoluzione, sono stati approvati e andranno in vigore molto presto. A fine ottobre di quest’anno partirà la supervisione unificata, successiva alla presentazione degli stress test, che faranno patire e non poco le banche europee. Quindi entrerà in vigore la normativa sull’autorità di risoluzione e da quel momento in poi inizierà ad alimentarsi il fondo di risoluzione con i denari delle banche, al quale potranno attingere i creditori di una banca che si deciderà di far fallire. Nel frattempo scatteranno procedure di bail in. Qualora una banca dovesse fallire i primi a pagare il conto saranno azionisti, obbligazionisti subordinati e via via fino ai depositi non assicurati.
L’Unione bancaria quindi è per adesso sparita dalle cronache, ma i suoi effetti saranno più che evidenti già dall’autunno.
Ma leggendo il nostro banchiere rumeno ho avuto la conferma del pensiero che in questi mesi ha alimentato una semplice convinzione: l’Unione bancaria sarà un’ottimo viatico per l’Unione fiscale.
Figuratevi la mia sorpresa quando ho avuto la conferma che il mio sospetto fosse sensato. “Ho sempre parlato a favore del progetto di unione bancaria – dice il governatore -. Io vedo l’unione bancaria come un sostituto di una controparte fiscale dell’unione monetaria, necessaria affiché quest’ultima funzioni propriamente”. E poiché “è difficilmente immaginabile che si possa avere consenso di un’unione fiscale, particolarmente nell’Europa di oggi , porsi l’obiettivo dell’unione bancaria ha il vantaggio di essere raggiungibile”. Di conseguenza, “sono a favore di un ingresso della Romania nell’Unione bancaria”.
Detto in altri termini, ai fini degli effetti pratici, l’Unione bancaria è un ottimo succedaneo dell’Unione fiscale, atteso che spezzando il legame fra debito sovrano e stati raggiunge l’obiettivo di centralizzare, al livello della Bce, il controllo sulla politica fiscale degli stati. E poiché tale obiettivo coincide di fatto con quello dell’unione fiscale “che è difficile raggiungere”, è sufficiente per un paese aderire all’unione bancaria per raggiungere lo scopo che tutti i banchieri centrali condividono: tenere sotto il controllo di un’entità sovranazionale i bilanci degli stati membri. Dell’unione europea, non della semplice eurozona.
Gli argomenti che il banchiere porta a sostegno dell’ingresso della Romania nell’unione bancaria, sottolinea, “valgono anche per i paesi fuori dall’euro, come la Polonia, l’Ungheria, la Repubblica Ceca o la Bulgaria”. Insomma, il nostro banchiere mi ha rafforzato la convinzione che l’eurozona, a dispetto delle dichiarazioni ufficiali secondo le quali non ci saranno ulteriori ingressi nei prossimi anni, si allargherà eccome, ma per via bancaria.
Per apprezzare il contributo del nostro banchiere è utile esplorare a volo d’uccello le condizioni macroeconomiche della Romania che negli anni fra il 2009 e il 2012 ha effettuato una sostanziale correzione degli squilibri accumulati al tempo della bonanza. Sicché nel 2013 il paese ha raggiunto una crescita del 3,5%, ha riportato il conto corrente a un livello più sostenibile, passando dal deficit a doppia cifra raggiunto nel 2008, all’attuale -1,1%, così come ha ridotto il deficit fiscale sotto la soglia del 3%. Che l’inflazione sia scesa all’1,55%, in qualche modo è anche una conseguenza di queste politiche.
Questi miglioramenti, sottolinea, sono la ragione per la quale la Romania ha sofferto meno delle altre economie emergenti, segnatamente il paragone è con la Turchia, le conseguene del richiamo di capitali che si è scatenato nella primavera del 2013, quando parve al momento che la Fed tirasse i remi in barca.
Ma ciò che è accaduto, nei paesi citati, è che in tutti è emersa la considerazione che i costi di adozione della moneta unica, che comunque faceva parte dei loro piani, sono apparsi, in conseguenza della crisi, maggiori dei benefici che tale adozione avrebbe portato. In particolare, spiega, il beneficio principale “ossia il costo di finanziamento più basso non è apparso più come scontato”.
Ciò in quanto “il setup istituzionale incompleto del progetto europeo in generale e dell’unione monetaria in particolare aveva fatto emergere una serie di vulnerabilità che la crisi ha messo in evidenza”. Insomma, i nostri parenti dell’est si sono accorti che non era tutto oro quello che l’euro faceva luccicare. E si sono fatti prudenti.
Come se non bastasse, le soluzioni individuate dall’eurozona per rimediare ai guasti della crisi, ossia la creazione del fondo Esm e la realizzazione dell’Unione bancaria, ha fatto risaltare, a fronte della sparizione del beneficio dell’euro (i bassi costi dei prestiti) gli enormi costi che ciò porta con sé.
“Il problema – sottolinea – non è soltanto lo sforzo finanziario che ciò comporta, ma anche la difficoltà, sul versante politico, di spiegare al pubblico che bisogna contribuire a un meccanismo che per il momento porta beneficio a paesi più ricchi del nostro”.
Difficile, insomma, spiegare a un rumeno che deve pagare le tasse per aiutare la Spagna.
Ebbene, atteso che “l’adozione dell’euro è nel lungo periodo interesse degli stati dell’Ue”, dice bisogna comunque tenere conto di alcune circostanze perché tali benefici diventino reali. Il primo dei quali è la consapevolezza che “la convergenza verso i criteri contabili definiti a Bruxelles è diventata assai meno importante della convergenza della ricchezza pro capite”.
Insomma, il percorso di integrazione monetaria con questi paesi dell’est si è fatto più complesso, da un punto di vista economico, istituzione e politico.
Tuttavia, spiega, la Romania è intenzionata a entrare nell’euro e poiché l’adozione nella moneta unica implica quella all’unione bancaria “aderire a tale unione è solo una questione di tempo”. “Questo è un argomento solido a favore di una rapida adesione all’Unione bancaria”.
Ma ce n’è anche un altro, assai più cogente delle semplici questioni di calendario. “Il sistema bancario domestico di molti componenti della Ue fuori dall’euro è dominato da banche che hanno il quartier generale in paesi dell’euro”.
Nel caso della Romania, per dire, le banche della zona euro pesano l’80% del totale degli asset bancari, e lo stesso vale per la repubblica Ceca e l’Ungheria, mentre il Bulgaria e Polonia la percentuale diminuisce leggermente al 70 e 60% rispettivamente.
Le sussidiarie di queste eurobanche sono talvolta sistemiche per i paesi ospiti, anche se magari i loro bilanci sono piccoli rispetto alle case madri.
Detta il altre parole, l’unione bancaria già c’è, in gran parte della Ue, a prescindere dalle regole approvate a Bruxelles. E al tempo stesso questi paesi dell’est “sono fortemente integrati nei mercati finanziari”.
“In tal senso non soprende che la Romania abbia abbracciato l’idea dell’Unione bancaria”. E infatti si poteva immaginare che sarebbe finita così. Entrare nell’euro 2.0, ossia nell’unione bancaria, prima che nell’euro 1.0, ossia quella monetaria, ha il gradevole pregio di poter essere deciso senza che si debba cambiar moneta.
Anche perché l’Unione bancaria dà il giusto incentivo alle banche per attuare un disindebitamento graduale, rafforzando il capitale e riconoscendo le perdite eliminando anche i rischi che possono provocarsi per il sistema a causa degli arbitraggi regolamenti fra una giurisdizione e u’altra. Ad esempio utilizzare le maglie più larghe della regolametazione finanziaria di un paese per lucrare rendimenti, attività impossibile in un contesto di regole condivise. E poi ci sono altri vantaggi che si possono ottenere, come l’accesso delle banche non euro ai fondi della Bce, che al momento viene mediata dalla banca centrale nazionale.
Date le premesse non stupisce che il nostro banchiere concluda in crescendo citando il nostro compianto Tommaso Padoa Schioppa, secondo il quale “la crisi genererà possibilmente gli strumenti di cui siamo carenti e ci porterà più vicino a una più compiuta Unione”.
La crisi come mezzo di governo della realtà.
L’unione bancaria come anticipazione dell’unione fiscale.
Tutto torna.
Dopo l’unione bancaria arriva quella previdenziale
E’ chiaro a tutti, sempre che la costruzione europea resista alle varie pressioni centrifughe, che dopo l‘Unione bancaria si avvicini a grandi passi l’Unione fiscale. Se così non fosse, basterebbe ricordare quante volte ce l’hanno ripetuto e, soprattutto, sottolineare quanti passi siano stati fatti in tal senso.
L’integrazione fiscale, però, è un fatto complicato, persino più di quanto lo sia stato integrare il mercato monetario. Bisogna cambiare i trattati, come non si stancano di ripetere i tedeschi, se si vuole arrivare davvero a una politica comune di bilancio, capace, ad esempio, di arrivare ad emettere i mitici eurobond, che gli sfiancati debitori europei vedono come il rimedio dei loro mali, e i creditori come un’ingiusta socializzazione dei debiti altrui.
Senonché parlare di modifica dei trattati in tempi di euroentusiasmo declinante somiglia all’auspicio di uno scommettitore d’azzardo più che a una seria probabilità politica: un modo elegante per gettare la palla in tribuna e cambiare discorso. Anche perché la crisi del debito europeo è tutt’altro che terminata.
Eppure vedete a volte basta intendersi sui termini. Cosa significa esattamente unione fiscale?
Può significare tante cose. Nella sua versione estesa la si potrebbe sostanziare con un bilancio pubblico europeo, gestito quindi da un governo europeo, con un suo ministro del bilancio che ha poteri invasivi sui bilanci pubblici degli stati membri, imponendo ad esempio regole comuni su aliquote fiscali o costi standard dei servizi pubblici, con meccanismi sanzionatori in caso di sforamenti o stabilizzatori automatici. Con un sistema siffatto alle spalle sarebbe di certo semplice emettere titoli di debito comuni, ma capite bene di che livello di cessione di sovranità stiamo parlando.
E tuttavia ci sono tanti modi indiretti per arrivarci. Uno, ad esempio, ce lo suggerisce la Banca d’Italia, nella sua ultima relazione, nel paragrafo dedicato alla delicata questione della fiscal capacity.
Per chi non lo ricordasse, a elaborare il concetto di fiscal capacity fu la Commissione europea, che a novembre 2012 presentò il rapporto intitolato “Un piano per un’Unione economica e monetaria più autentica e approfondita”, nel quale il presidente del consiglio europeo e quello della commissione Ue prospettavano alcune soluzioneiper rafforzare e sostanziare il processo di integrazione.
Lato monetario e finanziario, il pezzo forte era ovviamente l’Unione bancaria, con i suoi tre pilastri (supervisione, risoluzione, garanzia sui depositi), ma le questioni fiscali avevano un adeguato risalto.
In particolare i presidenti insistevano sull’opportunità di utilizzare pienamente gli strumenti già esistenti, in sostanza la normativa sul fiscal compact e la direttiva two pack, e proponevano anche la creazione di un’autonoma capacità di raccogliere risorse a livello di area euro (fiscal capacity appunto) per finanziare le riforme strutturali necessarie e insieme affrontare eventuali difficoltà dei paesi della zona euro.
Non quindi eurobond, che significa emissione di debito comune, ma una sorta di eurotax, chiamiamola così anche se è improprio, per dotarsi di fondi per uso comune, come ad esempio integrare gli schemi nazionali di assicurazione contro la disoccupazione. Poi ovviamente c’era anche la proposta di bilancio comune, con tanto di eurobond, ma in coda, insieme all’auspicio che si incoraggi una maggiore legittimazione democratica dei processi decisionali nell’Ue. Prima dei saluti, insomma.
Un anno dopo, quindi lungo tutto il 2013, Bankitalia nota che “la proposta della fiscal capacity non si è tradotta finora in azioni concrete, pur innescando un ampio dibattito sulle sue possibili funzioni, quali la stabilizzazione macroeconomica e il finanziamento di riforme strutturali e di infrastrutture con benefici, anche indiretti, per l’area nel suo complesso”. Poi sottolinea che “un tema in parte connesso con quello della fiscal capacity è la possibile creazione di un debito pubblico dell’area. E infine ci ricorda, molto graziosamente, che “molte delle funzioni di un bilancio comune possono essere svolte anche sotto un vincolo di pareggio”.
Vincolo che, lo ricordo ai non appassionati, è il cuore del fiscal compact entrato in vigore a gennaio 2013 e di cui noi italiani siamo stati fra i più vividi recettori, tanto da scriverlo (fra i pochi) in Costituzione.
Bankitalia riconosce che l’attivazione di una fiscal capacity sarebbe di grande utilità nell’area dell’euro in funzione anticiclica “per attenuare l’impatto degli shock che colpiscono con effetti asimmetrici i diversi paesi dell’area, ma andrebbe ridotto però il rischio che l’istituzione di una fiscal capacity autonoma dell’area dell’euro possa indurre forme di azzardo morale, ad esempio i governi potrebbero avere meno incentivi a perseguire le riforme strutturali, rafforzando il presidio delle regole europee”. Neanche la Buba lo avrebbe detto meglio. E poi ci sono i problemi politici che già conosciamo.
Ma, ricorda ancora Bankitalia, “un’autonoma fiscal capacity per l’area dell’euro potrebbe essere costituita sia attraverso un sistema automatico di trasferimenti agli Stati colpiti da eventi negativi, sia attraverso la condivisione di specifiche voci di spesa e di entrata”.
Detto in parole comprensibili, bisognerebbe costruire un meccanismo comune che individui e distribuisca le risorse a seconda le necessità collegate a precisi capitoli di spesa”. Quindi un meccanismo che pur non rappresentando un’Unione fiscale formale, che come abbiamo visto è complicato, mette in comune elementi economici della società socializzandone gli aspetti fiscali a livello europeo.
E qui sorge il primo problema. Qualche elemento scegliere? “Un naturale candidato, alla luce della sua funzione anticiclica dal lato sia delle entrate sia delle uscite, è il sussidio di disoccupazione. Tuttavia le notevoli differenze nelle caratteristiche dei mercati del lavoro dei paesi dell’area (ad es. la diversa incidenza della disoccupazione di lungo periodo) potrebbero rendere difficile evitare che alcuni paesi risultino sistematicamente beneficiari (o contribuenti) netti.
E allora che fare? Bankitalia ha la risposta pronta: “Non necessariamente la funzione anticiclica della fiscal capacity deve riguardare sia le entrate sia le uscite. Si potrebbe utilizzare anche uno schema pensionistico sovranazionale che, definito ad esempio in base al criterio contributivo, garantisca l’equità attuariale tra generazioni e l’assenza di trasferimenti strutturali tra paesi; in questo caso sarebbe soprattutto la correlazione della massa contributiva con il ciclo a esercitare una funzione di stabilizzazione macroeconomica”.
I soldi dei contributi, insomma, come un tutt’uno stabilizzante a livello europeo. I contributi dei paesi dove cresce l’occupazione stabilizzano quelli dove la disoccupazione cala.
Sembra fantascienza, ma è (pseudo)scienza.
E poi gran parte dello sforzo è già stato fatto.
I più vecchi e rotti alle cronache ricorderanno col sorriso quando, nel lontano 2003, il governo italiano dell’epoca, che incidentalmente guidava il semestre europeo, se ne uscì con la proposta di una “Maastricht delle pensioni”, ossia di una disciplina comune che armonizzasse una materia fonte di costanti e crescenti problemi per tutti, stante la notoria propensione all’invecchiamento delle nostre società. I più maliziosi notarono che scaricare su Bruxelles la patata bollente delle pensioni era anche un’ottimo modo per non perdere la faccia davanti ai propri connazionali dicendo loro – in sostanza – che bisognerà lavorare fino a 70 anni per avere mezzo stipendio di pensione.
Se ne discusse, ma poi non se ne fece nulla. Gli europolitici optarono per l’adozione di un meccanismo chiamato “coordinamento aperto”. In sostanza ogni stato era libero di fare come meglio riteneva, salvo poi risponderne a Bruxelles. Non c’era ancora la crisi, d’altronde.
Sicché di quell’idea rimangono solo scoloriti titoli di giornale, fra i quali però ho ripescato un pezzo dell’ottobre 2001 pubblicato sulla Repubblica dove per la prima volta si parla di Maastricht delle pensioni, prendendo a pretesto un documento redatto dall’Ecofin che fissava le linee guida delle riforme previdenziali a venire.
Il canovaccio prevedeva tra l’altro incentivi ai lavoratori più anziani per restare al lavoro, sgravi contributivi per favorire l’assunzione dei più anziani, omogenizzazione dei trattamenti tra le diverse categorie e tra i sessi. Tutta roba che oggi suona notevolmente familiare.
Da allora se ne è fatta di strada. Le linee guida redatte dall’Ecofin son diventate percorsi comuni i tutti i paesi euro. Sono stati scritti libri bianchi, verdi e rossi. Ma soprattutto la previdenza, specie anche dopo la crisi che ha distrutto milioni di posti di lavoro, si conferma essere il problema principale dei paesi dell’eurozona, e insieme una straordinaria risorsa.
Di conseguenza, come ci ricorda Bankitalia, è uno schema previdenziale comune il miglior esperimento di fiscal capacity che può farsi in tempi ragionevolmente brevi.
Si prepara l’unione fiscale, insomma, prologo di quella politica.
Ma per via previdenziale.
La deframmentazione dell’eurozona
Fra i tanti talenti che vado scoprendo nei nostri banchieri centrali quello più insospettabile è la loro eloquenza, cui si accompagna anche una robusta loquacità. Costoro amano parlare almeno quanto sono avvezzi a calcolare. E mi stupisco ogni volta della loro capacità di inventare, novare o anche semplicemente utilizzare parole sorprendenti a sostegno dei loro teoremi economici.
D’altronde perché stupirsi? Essendo l’economia una raffinatissima forma di retorica, è del tutto logico che i banchieri centrali, che dell’economia sono i riconosciuti sacerdoti, siano anche perfetti retori. Retori calcolatori, ma sempre retori. Quindi capaci di notevoli allocuzioni, che mi infliggo pressoché quotidianamente, perché, come diceva sempre la mamma, devo imparare dai migliori.
Sicché stavo leggendo uno speech di Benoît Coeuré, banchiere della Bce del 19 maggio scorso, (Completing the single market in capital) quando mi è apparsa sotto gli occhi una parolina magica: deframmentazione.
Subito mi si è richiamato alla memoria l’odioso cracracra che fa l’hard disk del mio pc ogni volta che lo deframmento, e se non bastasse il rumore, la lentezza disarmante delle sue prestazioni durante l’operazione che serve, persino gli informatici dilettanti come me lo sanno, a spostare i file sparsi casualmente nell’hard disk raggruppandoli in una parte concentrata in modo da diminuire il loro tempo di accesso e lettura, aumentando in tal modo la produttività del lavoro.
Il fatto che Coeuré si riferisse al sistema finanziario europeo e non a un hard disk non sposta una virgola. I linguaggi ormai sono totalmente omologati, piegati alla logica dell’efficienza, esattamente come le persone.
La frammentazione dell’eurozona, infatti, ha rischiato di mandare in crash l’eurozona esattamente come farebbe un hard disk pieno di buchi col vostro pc. Ed esattamente come accade anche a un hard disk, la deframmentazione dell’eurozona è un processo lungo e delicato, dove qualcosa può andar male e finire peggio e che perciò richiede attenzione e pazienza per essere condotta a buon fine.
Fine che, nel caso auspicato da Couré, è appunto il completamento del mercato unico del capitale, uno dei pallini dei nostri banchieri centrali. Che, sempre per usare la metafora informatica, equivale a una profonda formattazione dell’area. O, a volerla guarda in positivo, a un definitivo upgrade.
E allora vale la pena chiedersi con Couré: cosa stiamo cercando di ottenere con le deframmentazione del mercato europeo?
Anche qui, bisogna sfatare il mito di un’altra parolina magica che ci ha accompagnato nell’ultimo decennio: la convergenza. Abbiamo fatto tutto quel che poteva per convergere no?
Ebbene, abbiamo sbagliato obiettivo.
“Dobbiamo tenere a mente – spiega il nostro gentile banchiere – che la convergenza non è la stessa cosa dell’integrazione”, dice. “Abbiamo visto convergere i prezzi sostanziali nel primo decennio dell’euro solo per trovarci di fronte a una frammentazione finanziaria quando la regione è stata colpita dalla crisi”. Perciò, sottolinea “la convergenza è un processo benvenuto, ma non garantisce di per sé una profonda e resiliente integrazione”.
Non dovevamo cercare la convergenza, quindi, ma l’integrazione. Tale sottigliezza parrà a molti finemente sofistica, e in parte – retoricamente – lo è. Ma è parecchio sostanziale. “La convergenza – spiega – puà anche essere un segno di problemi a venire”. E ce lo dicono adesso?
Anche i banchieri centrali, evidentemente, hanno qualcosa da imparare e la lezione dello spread pare sia ormai stata acquisita. Addirittura, dice ancora “la convergenza può essere un indicatore di instabilità finanziaria e quindi di disintegrazione“.
Accantonata la convergenza, perciò, il nuovo sacro graal dell’eurozona è l’integrazione finanziaria, definita come una situazione dove non ci sono frizioni che discriminano un agente economico nell’accesso agli investimenti e al capitale. Che detto in parole nostre potrebbe tradursi come una situazione ideale in cui l’imprenditore italiano si indebita a tassi tedeschi e investe in Finlandia. Il migliore dei mondi possibili.
Ecco: per realizzare quest’ennesima eu-topia, non serve la bacchetta magica: è sufficiente finire di creare un mercato unico del capitale, esattamente come è stato fatto per le merci e i servizi. Il denaro definitivamente considerato come merce a livello eurozona.
Ovviamente siamo già avanti nel percorso. I capitali circolano liberamente, in barba alla spiacevole controindicazione che sovente ciò si accompagni a un aumento della disuguaglianza, e abbiamo persino una moneta unica che facilita i conteggi. La qualcosa in un’epoca dove il tempo è denaro è di per sé un vantaggio per il conto economico. Ma quello che fa la differenza, spiega Coeuré, è la qualità di questa integrazione, non l’intensità. E tale qualità si misura valutando il grado di qualità dell’allocazione delle risorse e della loro diversificazione.
La questione dell’allocazione deve fare i conti con quella della localizzazione dei debitori, ossia col posto dove abitano, che nell’eurozona frammentata in cui viviamo è più rilevante del loro merito di credito. Il nostro imprenditore italiano, perciò, farà fatica a indebitarsi a tassi tedesci, anche se è una degnissima persona. Ciò in quanto spesso le valutazioni delle banche sono influenzate dal rating dello stato in cui risiedono. Poveri noi, perciò. Ma anche se così non fosse, se cioé il rischio sovrano fosse zero in tutta l’area, “molte banche non sono strutturate per fare prestiti trans-frontalieri”. Basti considerare che tale quota di prestiti alle imprese non finanziarie non superano il 7,5% del totale.
La questione della diversificazione ha a che fare col rischio. L’eurozona non dispone di un sistema efficace di assicurazione cross-border, anche se, nota il banchiere, l’istituto Bruegel ha calcolato che la crisi del mercato dei capitali ha assorbito appena il 10% dello stock di pil dell’area a fronte dei due terzi dell’inter mercato negli Stati Uniti. E tuttavia c’è molto da fare qui da noi. E ancora una volta la parolina magica è integrazione.
Lo strumento principe di questa iintegrazione, ovviamente sarà l’Unione bancaria che dovrebbe provvedere a migliorare sia l’allocazione delle risorse che la loro diversificazione. Tale processo inoltre dovrebbe favorire anche l’integrazione delle banche retail, uno dei principali fattori di disintegrazione dell’area, facendo ripartire i processi di fusione e acquisizione che nei tempi della crisi si sono ridotti al lumicino: sono state compiute operazione per una decina di miliardi appena.
Il processo di integrazione bancaria dovrebbe servire anche a cambiare il volto dell’economia, tuttora bank-based ritagliando un ruolo nuovo e più pervasivo al mercato del capitale, che dovrebbe diventare lo strumento principe di funding delle imprese, al contrario di quello che succede adesso. All’uomo servirà l’evoluzione del sistema Target 2, che a giugno 2015 diventerà il nuovo sistema Target 2 S, ovvero la fase 3 del processo di unificazione finanziaria.
Malgrado tutto ciò, c’è ancra un vulnus, indibiduabile nella ancora carente attività di armonizzazione legislative all’interno dell’unione monetaria. Sulla materia sta lavorando la Commissione, ma nel frattempo toccherà alla Banca centrale dare una spinta all’evoluzione verso un più integrato mercato dei capitali dando un calcione al mercato degli Abs. Il famoso qualitative easing al quale sta lavorando la Bce e che ormai è vicino ad essere inaugurato, specie dopo il risultato delle elezioni europee.
Alla fine di tutti questi processi, conclude Coeuré, e se la deframmentazione andrà bene, avremo un autentico mercato comune dei capitali. A monte però bisogna che gli stati sistemino le loro finanze, sottolinea, visto che durante la crisi uno dei fattori peggiorativi è stato proprio la diversità delle posizioni fiscali.
Non illudiamoci perciò. Magari un giorno avremo mercati finanziari unici, dalla moneta alle banche al regolamento dei titoli, ma i debitori se la passeranno comunque male. “Un mercato unico dei capitali richiede non soltanto un’unione bancaria, ma anche un’unione fiscale ed economica”.
Chi dice che bisogna uscire dall’euro dovrebbe ricordarselo.
Super Target 2, ovvero euro 3.0
Mentre l’opinione pubblica europea si divide e si lacera dibattendo più o meno faziosamente di euro/sì-euro/no, nelle rarefatte alture della superburocrazia dell’eurosistema si piantano paletti geroglifici e sempre più solidi che, di fatto, rendono tale dibatitto un utile esercizio di stile politico, buono per le campagne elettorali insomma, ma ben lungi dalla realtà.
Nascoste fra le pagine più astruse della pubblicistica web, e paradossalmente in bella evidenza, si delineano gli scenari e gli obiettivi dei passi ormai prossimi a venire, che già quest’anno saranno compiuti per poter diventare operativi nel 2015, quando verranno ulteriormente raffinati e condotti a buon fine per il 2017, quando il nuovo sistema Target 2 S sarà ormai una solida realtà.
La S di Target 2 sta per settlement, ma per volgarizzare un po’ la questione, oltremodo noiosa, può essere utile considerarla come la S di super, visto che, di fatto, segnerà un evoluzione del sistema Target 2, ossia il sistema finora utilizzato per regolare la contabilità delle partite fra le banche dell’eurosistema in moneta di banca centrale.
Target 2 viene gestito dall’eurosistema, ossia dalle banche centrali nazionali che aderiscono all’euro, ed è assurto all’onore delle cronache dopo l’esplosione della crisi dei debiti sovrani, quando di fatto l’eurosistema ha funzionato come una camera di compensazione degli squilibri delle bilance dei pagamenti dei singoli stati dell’eurozona. Nella reportistica della Bce, gli squilibri Target sono stati utilizzati come misura degli squilibri interni dei singoli paesi, o, che è lo stesso, come un indice della frammentazione che tuttora affligge l’eurozona.
In pratica, così almeno la racconta la Bundesbank nel suo bollettino mensile di marzo 2011, man mano che la crisi degli spread faceva essiccare le fonti del finanziamento interbancario fra le banche dell’eurozona, le banche centrali nazionali compensavano emettendo proprie passività (quindi debiti) per saziare la sete di liquidità delle proprie banche commerciali. Tali passività corrispondevano a saldi negativi nella contabilità Target 2, a fronte dei quali si ergeva il potente attivo della banca centrale tedesca, conseguenza palese della circostanza che le banche commerciali tedesche avevano riportato i capitali a casa. Quindi non erano più le banche commerciali tedesche a prestare soldi alle banche commerciali del PIIGs, ma la Bundesbank, tramite l’eurosistema, alle banche centrali dei PIIGS, attingendo alla generosità della BCE che intanto apriva i rubinetti.
Man mano che la tensione dell’interbancario si rilassavano gli squilibri dei saldi Target 2 si riducevano.
Scusate la premessa, ma era necessaria per capire anche se per sommicapi cosa sia Target 2, sennò non si capisce cosa sarà Target 2 S.
Prima di arrivarci, però, serve un’altra sottolineatura. Sappiamo, perché ce l’hanno detto e ripetuto in tutte le lingue, che l’unione bancaria è l’evoluzione naturale dell’unione monetaria. Per questo l’ho chiamata euro 2.0. Ciò in quanto mette in comune la moneta bancaria disciplinando (o vorrebbe disciplinare) l’erogazione di crediti da parte delle banche più importanti dell’eurozona con l’obiettivo di spazzare il legame fra queste e gli stati nazionali. Parliamo delle famose 130 banche che verrano sottoposte ad asset quality review e più tardi a stress test.
Tutto ciò, viene detto, al fine di aumentare la fiducia sull’affidabilità delle banche europee, e quindi incoraggiare i prestiti. Che è sicuramente vero, ma non è tutta la verità. L’unione bancaria, come ho già detto, serve a creare un mercato creditizio comune, quindi sempre più integrato, dopo quello che faceva riferimento alla semplice moneta legale.
Cosa rimane, per completare l’integrazione dell’eurozona, dopo aver unificato la moneta legale e quella creditizia? Facile: la moneta finanziaria. L’espressione non è proprio una perla di precisione, ma credo renda bene l’idea.
Per capirlo dobbiamo scendere nei bassifondi della finanza.
Qui si agitano entità che nessuna persona normale incontrerà mai nella sua vita. Non direttamente almeno. Qualcuna abbiamo imparato a conoscerla, quando ci siamo trovati di fronte alle controparti centrali.
Ce ne sono altre che si chiamano Central securities depositories (CDSs). Queste entità si occupano di un passaggio molto importante nella vita della finanza: il settlement. O, detto con parole nostre, il regolamento del contratto.
Il settlement, infatti, consiste nel regolamento delle transazioni che intervengono fra due controparti. Quando due parti si scambiano un’obbligazione lo fanno tramite un contratto. Le entità che si occupano del settlement hanno proprio il compito di regolare questo contratto in base alle condizioni in esso contenute. Quindi il regolamento può consistere nella consegna di titoli o di denaro liquido, in un determinato tempo e in un determinato luogo.
A volte il regolamento prevede l’interposizione di un’altra entità, di solito una banca, che assume il ruolo di custode, ossia conserva i titoli che dovranno essere scambiati al momento del settlement.
Vengo al punto. Al momento ogni paese dell’euroarea ha la sua CDSs che agisce in regime di sostanziale monopolio, con le sue regole e i suoi costi. In Italia, ad esempio c’è (c’era almeno prima che la borsa si vendesse a quella di Londra) il Monte Titoli. Tutto ciò genera ulteriore motivo di frammentazione finanziaria in una zona che già di suo ne soffre parecchio. Per questa ragione è stata studiata l’evoluzione di Target 2 in Target 2 S.
In sostanza si tratta di unificare in un’unica piattaforma, gestita dall’eurosistema, ossia dalle banche centrali che aderiscono alla Bce, tutte le operazione di settlement dell’eurozona, che verranno quindi regolate con moneta di banca centrale proprio come avviene con i vecchi saldi Target 2. In tal modo, come nota la Bce nel suo ultimo aggiornamento sull’integrazione finanziaria, si otterranno benefici sul lato dei costi, dell’efficienza e persino alla stabilità finanziaria. E, aggiungo io, sarà anche più facile far fronte a eventuali scompensi emettendo moneta di banca centrale qualora se ne ravvedesse la necessità. Eventualità che certo non dispiacerà agli scommettitori di professione.
Come si vede, qualunque sia il passaggio (euro 1.0. euro 2.0, euro 3.0) gli argomenti a favore sono sempre gli stessi. Così come anche le conseguenze: cessione di prerogative nazionali a fronte di benefici sovranazionali. Creare un’unione sempre più perfetta, per citare Mario Draghi.
C’è una differenza però. Quando si trattò di entrare nell’euro 1.0 decisero gli stati. L’Unione bancaria (euro 2.0) è stata decisa dalla commissione Ue e approvata dal Parlamento europeo. L’euro 3.0, vedrà la luce (su base volontaria) esclusivamente grazie alle CDSs, 22 delle quali hanno già aderito. Come si può notare, più il processo si raffina, più si allontana dal comune sapere e dall’opinione pubblica che, come ho notato all’inizio, si è accorta solo dopo un decennio di cosa abbia significato l’euro 1.0.
Concludo con due dati di cronaca. Il primo è che fra gli aderenti del T2S c’è anche CDS della Bank of New York Mellon, una delle principali protagoniste del try party repo americano, che evidentemente ha i suoi buoni motivi per infilarsi nelle nostre beghe finanziarie.
Il secondo è che la data è stata fissata: il 22 giugno 2015 l’euro 3.0 vedrà la luce. Quel giorno inizierà la fase di go live, che darà inizio alla fase di transizione che terminerà nel 2017, quando il T2S sarà pienamento operativo.
Chissà che fine avrà fatto nel frattempo l’euro 1.0.
Weidmann, ovvero il primato della politica (della Buba)
Leggo ogni volta con piacere le sempre più frequenti esternazioni dei nostri banchieri centrali, in difetto di argomenti di un qualche interesse che provengano da coloro che dovrebbero esser deputati ad occuparsi del futuro comune, quindi i politici, e che invece si occupano pressoché in esclusiva del proprio.
Per dirla in altro modo, finché i politici continueranno a chiacchierare di sé, e il dibattito politico di conseguenza a incardinarsi sull’incarichificio a cui si è ridotta la politica nazionale, tanto vale occupare il tempo leggendo quelli che la politica – nel senso di polis – la fanno sul serio. Si capisce molto di più e si impara pure qualcosa.
Fra i miei banchieri centrali preferiti, per la sua inossidabile antipatia teutonica e il suo piglio franco e ruvido, primeggia Jens Weidmann, governatore della Bundesbank, del quale ogni uscita pubblica è fonte di grande curiosità (e timore) proprio in virtù del suo ruolo di sostanziale azionista di maggioranza della Bce.
Weidmann è quasi garanzia di una robusta polemica, specie in casa nostra. Quindi bisogna leggerlo per capire l’aria che tira e, soprattutto, quella che tirerà.
Ma bisogna leggerlo anche un altro motivo. Il banchiere centrale tedesco, infatti, non si perita affatto di evidenziare come fondamentale quello che molti osservatori, a casa nostra, lamentano come una grave perdita per il Paese: il primato della politica.
Quest’osservazione si deduce leggendo uno dei tanti interventi pubblicati dal loquace banchiere tedesco qualche settimana addietro (Of dentists and economists – the importance of a consistent economic policy framework) recitato a Karlsruhe, sede della Corte costituzionale tedesca, che proprio in quei giorni stava decidendo sulla sorte della causa contro l’OMT di Draghi che poi, come sappiamo, è finita sul tavolo della Corte di giustizia europea del Lussemburgo.
In questo lungo e articolato intervento Weidmann sottolinea il profondo e duraturo legame che lega (o dovrebbe sempre più legare) economisti e giuristi nell’elaborazione delle leggi, forte dell’ispirazione ordoliberale della sua Bundesbank, alla cui scuola (quella di Friburgo) Weidmann si richiama espressamente.
Peraltro che il potere politico “ufficiale” sia ormai un mero esecutore di decisione prese dai tecnici, giuristi in testa, è chiaro fin dagli albori della Comunità europea, che rivela la sua natura di organismo giuridico, e quindi politico, fin dalla sua istituzione.
In tal senso il primato della politica europea è assicurato dal suo essere sostanzialmente subordinato alla tecnica giuridica ed economica. Non a caso Weidmann cita, in epigrafe al suo intervento, una celebre battuta di Paul Samuelson: “Non mi importa chi scrive le leggi, se posso scriverne i contenuti economici”. O, per dirla con le parole di Weidmann, “per capire quanto possa essere fruttuoso lo scambio di idee fra economisti e giuristi si può esaminare un concetto che ha avuto una grande importanza della politica economica tedesca: quello della regolazione”.
Ed ecco l’eredità ordoliberale, che punta sulla competizione, “non nel senso classico, ma nel senso di una ordinata e protetta competizione”. Ritroviamo in queste parole la radice sempreverde del nostro mercantilismo. Ossia l’importanza dell’intervento dello stato nelle faccende economiche anche se solo per costruire le cornice di regole in cui la competizione deve svolgersi. La cosiddetta economia sociale di mercato, versione omeopatica dei vari socialismi che hanno attraversato il nostro continente negli ultimi centocinquant’anni.
I banchieri centrali, infatti, e Weidmann è l’alfiere di questa categoria, rivendicano con forza il primato della politica sui mercati. Cos’altro è se non politica l’affermazione secondo la quale le banche centrali non devono farsi condizionare dai mercati nelle loro decisioni?
Weidmann ha sottolineato tale punto di vista in un altro intervento, il 14 febbraio scorso, al tradizionale Schaffermahlzeit di Brema, nel corso di uno di quegli incontri che servono per parlare a nuora affinché suocera intenda.
Con l’occasione ha discusso anche della sentenza della Corte costituzionale tedesca sull’OMT, ribadendo le sue critiche alla Bce e avvertendo che la partita non è ancora chiusa e che “sarebbe saggio, per i policymaker, non basare sulle reazioni del mercati le proprie decisioni”.
I mercati, quindi, ossia il grande “avversario” di tutti coloro che rivendicano il primato della politica, scambiandola col primato della marchetta.
Ecco Weidmann ribadire esattamene lo stesso concetto.
E’ un caso?
Solo per i distratti. I banchieri centrali, in particolare quelli europei, lo abbiamo visto più volte, sono la punta avanzata di un progetto egemonico che basa sulla regolazione finanziaria (controllo dei mercati) e la market discipline (controllo di stati e banche commerciali) il suo dipanarsi. L’euro stesso è perfettamente coerente con questo disegno. E l’Unione bancaria un altro passo fondativo, come più volte è stato rivendicato dagli stessi banchieri centrali, di una più perfetta Unione, per dirla con le parole di Draghi.
Ciò spiega pure perché Weidmann abbia tranquillamente dichiarato in un’intervista alla FAZ che una patrimoniale, in caso di difficoltà è il male minore per salvare uno Stato. Vi sembra abbastanza politica, come affermazione?
A me sì. Così come è politico il principio del bail in, e la decisione, peraltro contraria a quella presa dalla politica ufficiale, di stressare i bond sovrani nella fase preparatoria della supervisione centralizzata come annunciato dalla Bce.
Quest’altro primato, che potremmo definire come primato della “buona” politica (in sostanza quella della Buba) sulla politica stessa, ossia su quella degli stessi governi e parlamenti, viene chiaramente delineato sempre nell’intervento di cui abbiamo parlato in apertura, quando Weidmann affronta la questione delle politiche fiscali.
“L’esperienza teorica e storica – dice – mostrano che finanze pubbliche in buona salute sono garanzie di una politica monetaria di successo, specie nelle unioni monetarie. Questa è una ragione per creare regole comuni di politica fiscale”. Senonché, le questioni fiscali hanno a che fare con decisioni redistributive. Il che, sottolinea il banchiere, “richiede una legittimazione democratica”. Sempre in omaggio al primato della politica. In questo caso quella tedesca, come sempre la Corte costituziona locale non ha mancato di rimarcare nella sua decisione sul fondo Esm.
Inoltre, “visto che i parlamenti hanno sovranità fiscale, e quindi far agire uno staff indipendente è difficilmente praticabile, è possibile solo fissare alcuni limiti, ad esempio un tetto all’indebitamento”. Vedi fiscal compact. O la regola del deficit al 3%.
Ma anche qui l’esperienza non conforta il nostro banchiere. La stessa Germania, osserva, ha violato le regole e la Commissione europea si è dimostrata troppo morbida, in passato, ma anche in occasione della crisi. Mentre Weidmann è convinto che “l’euro area può continuare a esistere nel lungo periodo solo se incorpora un principio chiave della regolazione: il principio di responsabilità”.
Ed ecco che tutto torna: il bail in, l’eventuale patrimoniale, i bond sovrani sotto stress, e tutto quello che richiederà la diffusione capillare del principio di responsabilità che, secondo Weidmann, è ciò che occorre all’eurozona per fare il salto di qualità.
“Per restaurare il principio della responsabilità – dice – abbiamo due possibilità: o spostiamo la sovranità fiscale a livello sovranazionale, creando l’Unione fiscale, o rafforziamo la responsabilità dei singoli stati includendo fra le eventualità anche quella che possano fallire senza causare il collasso del sistema“. Al contrario, conclude, l’attuale equilibrio fra responsabilità e controllo è sballato “ed è probabile crei altri problemi nel lungo periodo”.
Gli amanti del primato della politica, perciò, dovrebbero essere estimatori di Weidmann, visto che il banchiere affida una grande responsabilità al potere di governo e parlamenti, limitandosi a ricordare loro che farebbero meglio ad ascoltare economisti ed avvocati, se vogliono fare la cosa giusta. Anche, al limite, far fallire uno stato.
Da questo punto di vista, il primato della politica che Weidmann cerca di affermare è essenzialmente quello della Buba.
Politica perfettissima, quindi.
Infatti non prevede elezioni.
Cura irlandese (e cartolarizzazioni) per l’eurozona
Sarà perché l’Eurostat rilasciava i dati 2013 della produzione industriale, ma improvvisamente la lettura di un recente intervento di Yves Mersch, banchiere della Bce, nella quale mi stavo intrattenendo è diventata interessante. L’andamento declinante della nostra contabilità europea rimava perfettamente con ciò di cui discorreva Mersch a Dublino qualche settimana fa. Tema quantomai attuale: far ripartire la crescita nell’eurozona (Reviving growth in the euro area, Institute of International European Affairs, Dublin, 7 February 2014).
Lo so che ne parlano tutti, per non dire che ne parlano e basta. Ma la questione, anzi il coacervo di questioni che la crescita porta con sé, dovrà pur essere affrontata, prima o poi. E leggere Mersch risulta utile perché aiuta a capire le coordinate del problema, a dimensionarlo e a sapere cosa frulla nella testa dei nostri banchieri centrali che, in ultima analisi, piaccia o meno, sono diventati gli autentici timonieri dell’eurozona.
La domanda dunque è: come possiamo far ripartire una crescita sostenibile nella zona euro? La prima risposta è che “possiamo aspettarci solo una risposta limitata dalle politiche di stimolo della domanda”. Quindi i teorici della spesa pompata da debito faranno bene a disilludersi.”La politica monetaria rimarrà accomodativa per tutto il tempo necessario, ma non può risolvere i problemi: può solo comprare tempo”.
Il tempo è denaro, notoriamente, e per sua natura la Banca centrale ne fornisce in quantità illimitata.
Nel frattempo ci sono alcune cose che dovremmo sapere. Primo: la crescita pompata dal debito (debt-fuelled) degli anni pre-crisi non sarà più possibile: “Non ci possiamo aspettare di vedere un ritorno alla crescita di domanda aggregata del passato”, dice. Questo comporta che dobbiamo “guardare alla capacità produttiva potenziale dell’economia nel suo complesso”.
Vista deprimente, comunque, perché “la situazione non è incoraggiante”, dato che nelle stime della Commissione Ue tale crescita potenziale è passato dal 2,2% del periodo 2000-2007 a un miserello +0,9% nel quinquennio 2008-12.
A guidare la contrazione, spiega Mersch, è stata innanzitutto quella degli investimenti, la cui quota globale è diminuita del 15% nell’eurozona dal picco raggiunto nel 2008. Tale calo ha conseguenze chiare anche sul futuro della crescita.
Ciò viene riscontrato anche dalla debolezza del mercato del lavoro. Basti ricordare che il tasso dei disoccupati di lungo periodo è raddoppiato, dal 3 al 6%. La terza gamba della crescita, ossia i fattori totali della produzione “che essenzialmente catturano i progressi tecnologici di lungo periodo”, nella definizione di Mersch, sta messa un po’ meglio di come stanno capitale e lavoro, ma la situazione è comunque difficile perché “si trova in una situazione di trend declinante”. Tanto per cambiare viene da dire.
Tutto ciò per dire che all’eurozona serve una cura da cavallo. Se vi fischiano le orecchie non è colpa mia.
La cure di Mersch si basa essenzialmente su due direttrici: quella finanziaria, che passa dalla “riparazione” del mercato dei capitalei, frammentato prima dalla crisi e poi dalla mancanza di fiducia, e quella “reale”, ossia mercato del lavoro e dei prodotti.
La prima via, quella finanziaria, trova nell’Unione bancaria il suo pilastro costitutivo, come abbiamo visto più volte ripetere dai nostri banchieri centrali. Ma poi ecco che Mersch tira fuori un altro asso dalla manica che, ventilato qua e là nei mesi passati, sembra essere diventato uno dei probabili passaggi obbligati della Banca centrale europea: il rilancio delle cartolarizzazioni, il cui mercato europeo “si è virtualmente essiccato negli anni recenti”.
Sappiamo tutti che l’uso selvaggio e incontrollato di cartolarizzazioni è stato uno dei fattori scatenanti della crisi del 2008, in particolare nel mercato americano, che questi strumenti ha inventato e diffuso negli ultimi decenni. Per non dire poi che, in fondo, le cartolarizzazioni non sono altro che un modo di far circolare debiti nell’ipotesi assolutamente teorica che ciò serva a distribuire il rischio, annullandolo.
E tuttavia ai mali estremi, rimedi estremi, sembra dire Mersch, secondo il quale “vedo nelle cartolarizzazioni un importante strumento per consentire alle banche di gestire il rischio di credito associato alle piccole e medie imprese”. Perché quelle grandi dovrebbero rivolgersi sempre più al mercato del capitale, nelle rosse aspettative del nostro banchiere.
Per non fare gli sbagli del passato Mersch conta sui progressi della regolazione, fatti sulla scorta del disastro subprime americano. Forte anche del fatto che il tasso di default europeo degli Abs, fra il 2007 e il primo quarto del 2013 è stato intorno all’1,4% a fronte del 17,4 americano. Come dire: siamo più bravi e prudenti.
Ma ovviamente è il lato delle riforme strutturali quello che più interessa il nostro banchiere, il quale, visto che parlava a Dublino, non si è peritato di additare l’Irlanda come una buona pratica per l’efficienza con la quale ha superato la crisi (?)
Detto in altri termini, bisogna partire da un dato: “Il 45% degli investimenti fissi in Europa è concentrato in settore dove il governo ha una significativa influenza regolatoria e ciò implica che riforme strutturali possano generare un balzo significativo di investimenti” anche nelle economie deboli.
Inoltre, dati i trend demografici europei, servono chiare riforme previdenziali e del mercato del lavoro che consentano di prolungare il tasso di partecipazione al mercato del lavoro: quindi lavorare di più e in numero crescente, anche favorendo i flussi transfrontalieri. Le Germania cerca lavoratori, se interessa, visto che le previsioni Ocse la prevedono in declinante crescita sotto l’1% entro il 2020 proprio a causa della sua situazione demografica.
E di nuovo, “l’Irlanda e un esempio molto concreto di sistema funzionante”. Le riforme del mercato del lavoro hanno fatto riassorbire due punti di disoccupazione (dal 14 al 12% fra il 2012 e il 2013), ma soprattutto “l’Irlada sta implementando il giusto tipo di politiche che miglioreranno la crescita in futuro”. Talché l’Irlanda, che ha ancora diversi problemi, come riconosce lo stesso Mersch, sembra il campo ideale dal quale estrarre suggerimenti per gli altri paesi fragili, visto che l’Europa, dal 1990, si trova in una situazione in cui le necessarie riforme aspettano ancora di essere realizzate.
Ci hanno provato con l’euro, ma a quanto pare la frusta monetaria non è bastata.
Ora magari proveranno con le buone maniere.
La mitologia bancaria di Mr. Dombret
Siccome si delizia di mitologia, Andreas Dombret, banchiere centrale della Bundesbank, scomoda il celebre nodo di Gordio, tagliato con un colpo di spada da Alessandro Magno, come arguta metafora del viluppo che avvinghia le une alle altre banche commerciali e banche d’investimento. Un tema diventato di grande popolarità, dopo il patatrac del 2008.
Il taglio tuttavia, che poi sarebbe la separazione per legge fra le due banche, che ha precedenti storici illustri si dagli anni ’30 e tentazioni contemporanee assai celebri, sembra fatto apposta per ricordare un’altra storiella mitologica, conclude Dombret alla fine della sua lunga narrazione, andata in scena lo scorso 21 gennaio a Francoforte: quella di Ercole che recide la testa all’Hydra, salvo poi vederne ricrescere due.
L’Hydra di Dombret corrisponde all’instabilità finanziaria nei confronti della quale le varie crisi svolgono il ruolo di levatrici, avendo persino l’aggravante di non essere mai percepite per tempo. “Non sappiamo da dove arriverà la prossima crisi”, ha spiegato un didascalico Mario Draghi in una recente intervista al Neue Zurcher Zeitung. Però arriva. Sempre.
La circostanza che la spada alessandrina appartenga al nebbioso mondo della mitologia serve a Dombret a spiegare che la realtà, a differenza del mito, si nutre di sfumature e di indecisioni. La stabilità finanziaria non si ottiene con un colpo di spada che recide nodi tessuti dalla storia, quindi. I tentativi degli uomini, che non sono infallibili eroi mitologici, ma incarnazione dell’errore condannati alla provvisorietà, si riducono all’esercizio più o meno virtuoso dell’espediente tecnico che dice e non dice, ma indica. Pensate alle regole di Basilea III, spiega Dombret, o, meglio ancora, all’Unione Bancaria.
Il tema, com’è noto, è di stringente attualità. Le ultime cronache ci raccontano della profonda spaccatura che si è aperta fra l’Europarlamento e il Consiglio europeo sul faticoso compromesso raggiunto prima di Natale proprio dal Consiglio europeo che, pur emendandolo, ha sostanzialmente recepito l’altro compromesso, quello dell’Ecofin, che vede un ruolo crescente del meccanismo intergovernativo nel processo di risoluzione bancaria e un arco di tempo decennale per arrivare a dotare il fondo unico di risoluzione delle risorse di tempo necessarie a risolvere ordinatamente eventuali crisi, dovendo nel frattempo farsene carico le singole giurisdizioni statali.
L’Europarlamento, già all’indomani della decisione del Consiglio europeo, non aveva risparmiato le critiche; al meccanismo di risoluzione, giudicato troppo farraginoso; e alla costituzione “decennale” del fondo.
Sicché dall’inzio del 2014 i banchieri centrali hanno ricominciato una discreta opera di mediazione e moral suasion che ricalca grossomodo l’impostazione dell’europarlamento. L’obiettivo è arrivare a licenziare un testo condiviso entro fine febbraio, per dare tempo ai traduttori di preparare i materiali per le votazioni dell’ultima plenaria del Parlamento Ue prima della chiusura per elezioni. Ma quanto dicono i beneinformati, le distanze rimangono ancora ampie, specie sul punto dolente di chi debba mettere sul piatto i denari necessari a sostenere una eventuale risoluzione. Le voci dicono che la Bce avrebbe preparato una soluzione di compromesso, secondo la quale il costituendo fondo di risoluzione potrebbe essere autorizzato ad emettere obbligazioni garantite però dagli stati.
Aldilà delle soluzioni tecniche che verranno individuate, ammesso che lo saranno, è evidente che si è riproposta, sull’Unione Bancaria, la dicotomia stati/organismi sovranazionali che ha scandito la storia dell’europa negli ultimi sessant’anni. Tutto questo su una tematica – ossia la stabilità finanziaria – che è il principale motivo per il quale si è arrivati a concepire i tre pilastri dell’Unione bancaria.
Che fare allora? Dombret ce la racconta così: “Per avere banche più sicure dobbiamo fare in modo che incrementino il loro capitale, ed è quello che prescrive Basilea. E per evitare che il fallimento di una banca si contagi al sistema finanziario abbiamo bisogno di un meccanismo di risoluzione e a livello europeo questo meccanismo è in via di costruzione. Dal mio punto di vista queste misure sono più rilevanti, ai fini della stabilità finanziaria, che la semplice separazione fra i due tipi di banca”.
Anche perché, spiega, non è così facile separare con un tratto di penna una banca commerciale da una d’investimento, visto che negli anni tali rapporti si sono stratificati. E non è detto che, pur separandole, non si creino scompensi finanziari. Dombret fa l’esempio di Lehman Brothers, che pur essendo una banca d’investimento, senza rapporti di natura commerciale con le controparti, ha fatto scricchiolare il mondo dopo il crack.
Il sottotesto è chiaro. La questione della separazioni fra banca commerciale e banca d’investimento è un falso problema, più che altro mediatico. La stabilità finanziaria ha poco a che vedere con la Volcker Rule, che vieta il trading proprietario alle banche, o con le proposte europee della commissione Liikanen, che salva le banche universali divisionandole strettamente all’interno della struttura proprietaria. Il punto centrale, dicono i nostri banchieri centrali, è completare il processo di Unione monetaria con quello di Unione bancaria. E state pur certi che i banchieri centrali europei non lesineranno i loro endorsement, come ha fatto Benoit Couré appena pochi giorni dopo Dombret e Mario Draghi, nell’intervista di cui ho già parlato, nella quale, fra le tante cose che dice, giura che la Bce non farà sconti nell’attività di supervisione: “Le banche deboli devono chiudure”, ha detto senza mezzi termini.
Una posizione, quest’ultima, confermata dalle ultime indicazioni arrivate da Francoforte sulla logica sottesa all’asset quality review e, dulcis in fundo, da una recente intervista della responsabile del nuovo organismo di vigilanza europeo, Danièle Nouy, che ha detto a chiare lettere che le banche deboli devono semplicemente fallire. Quanto al rischio sovrano, “la crisi ha mostrato che non esistono asset sicuri”, ha spiegato la banchiera, ” e di questo dobbiamo tenere conto”. Ergo, viene confermato ancora una volta il sorpasso bancario delle regole fissate a livello europeo utilizzando l’espediente della vigilanza bancaria, tramite il quale la banca centrale si propone di utilizzare la disciplina di mercato per arrivare laddove nessun uomo era arrivato prima: la conquista di una stellare credibilità per le banche europee.
Quest’epopea potremmo raccontarla in chiave mitologica, come ha fatto Dombret.
Quando fu chiesto all’oracolo chi sarebbe stato il Re della Frigia, l’oracolo rispose che il primo uomo che fosse entrato in città a bordo di un carro trainato da buoi sarebbe stato re. Fu Gordio, un umile contadino, a entrare per primo nella città e perciò, come aveva ordinato l’oracolo, fu consacrato re.
Gordio regnò pacificamente, e durante il suo regno adottò un bambino, che chiamò Mida. Mida fu omaggiato dagli dei col dono di trasformare in oro tutto quello che toccava. Una sorta di banchiere centrale ante-litteram. E fu lui a decidere di consacrare il carro del padre agli dei, legandolo col famoso nodo che nessuno sapeva sciogliere a simboleggiare come nessuno avrebbe mai dominato l’Asia finché il carro fosse rimasto legato. Quando Alessandro, giunto sulla punta delle sue lance in Frigia, seppe della leggenda provò a scioglere il nodo e, non riuscendoci, si esibì nel celebre nodo.
Sembra storia di oggi: i regnanti (gli stati) e i loro figli adottivi (le banche centrali) sono finiti sotto l’attacco dell’incarnazione finanziaria di Alessandro Magno: la Bce. Già da un decennio la Banca centrale europea ha tagliato il nodo gordiano che bloccava il processo di integrazione europea. Le manca solo l’ultimo miglio.
Saranno loro, i banchieri centrali europei, se riusciranno, a conquistare l’Asia.
Il sogno della Buba: privatizzare le perdite per “socializzare” i guadagni
Non so voi, ma io son cresciuto sentendomi ripetere che da un cinquantennio, nelle cose economiche, non si fa altro che privatizzare i guadagni e socializzare le perdite. Ciò spiega perché sia cresciuto con una certa propensione all’irritazione che si riaccende ogni volta che vedo i miei redditi tassati oltremisura perché, a furia di socializzarle, queste perdite, ci stiamo perdendo tutti.
Privatizzare i guadagni e socializzare le perdite, a ben vedere, è stato il leit motiv della politica economica dell’Occidente contemporaneo. E se uno volesse dirla tutta, e uscire dall’ipocrisia, dovrebbe anche riconoscere che tale principio non ha funzionato solo per i grandi salvataggi bancari, ma è valso a tutti i livelli della società, dalle banche alla previdenza, passando per le imprese e il mercato del lavoro. Tutti, salvo rarissime eccezioni, hanno munto, chi più chi meno, la mammella pubblica. E chi dice il contrario sospetto sia un ipocrita, voglio sperare in buona fede.
Dal dopoguerra in poi, il neonato mercantilismo europeo ha spostato quote crescenti di ricchezza dal bilancio dello Stato ai soggetti privati della società. E anche questo non serve essere storici dell’economia per saperlo. Basta guardare come e quanto è cresciuta la spesa pubblica in rapporto al pil nel tempo. Una scelta assolutamente coerente con i bei tempi andati e con la logica dei due blocchi, e di certo incoraggiata dagli anni ruggenti del dopoguerra, quando gli stati avevano tutto da ricostruire e una gran voglia di farlo.
Finché l’economia girava, ossia per un ventennio circa, il costo di tale trasferimento è stato compensato dalla crescita del prodotto. Ma poi, aumentando i diritti (e le corrispettive elargizioni) e con essi l’appetito delle popolazioni, la privatizzazione dei guadagni ha fatto crescere il costo della socializzazione delle perdite. Sono esplose le spese statali. Con la conseguenza che è diventato sempre più difficile e costoso finanziarle.
La crisi del 2008, da questo punto di vista, ha toccato l’apice della socializzazione delle perdite. Salvare le banche imbottite di debito privato sostanzialmente insolvente, che avevano ampiamente privatizzato guadagni per un settennio, ha costretto gli stati e le loro banche centrali a caricarsi di una quantità inusitata di debiti mai visti in tempo di pace. E questo ha provocato una reazione. Fra i cittadini, che hanno dovuto pagare di tasca propria tali salvataggi, subendo durissime politiche di austerità. Ma anche fra gli stati.
Sicché ora vuole affermarsi un altro principio: privatizzare le perdite e socializzare i guadagni. Che detto così sembra fantastico ai nostri cittadini arrabbiati e ai nostri stati indebitati. Ma solo perché di questa rivoluzione copernicana si vede solo una parte, non tutto l’insieme.
Privatizzare le perdite e socializzare i guadagni: quale altro obiettivo si pone la battaglia per il bail in portata avanti dalla Bundesbank e ormai anche da quasi tutta l’Unione europea? Con l’avvertenza che i guadagni equivalgono a meno spese per i pagatori di tasse, non più soldi in tasca, e a una maggiore (presunta) stabilità finanziaria.
Ecco però che appena l’opinione pubblica sente parlare di bail in, vuoi perché tutto ciò che proviene dalla Germania in questo periodo storico puzza di fregatura, vuoi perché si pensa con terrore al proprio gruzzoletto, scattano, rabbiosissime, le polemiche.
Prima di arrabbiarsi però sarebbe saggio farsi una domanda: le perdite future delle banche devono essere pagate dalle nostre tasse o da chi ha interessi in quelle banche?
Prendetevi un po’ di tempo per rispondere e pensateci su. Perché questa è la domanda del futuro sulla quale si stanno accapigliando gli stati europei, che sta sotto la vicenda dell’Unione bancaria, e sotto quella ancor più delicata: ossia la possibilità che uno stato faccia default, o che si arrivi a prelievi forzosi per evitarlo. Tutti discorsi che vedono la Bundesbank in prima linea, e quindi, comprensibilmente, diventare il ricettacolo di un coacervo di antipatie. Fra i tanti difetti, la Buba ha pure quello di essere tedesca.
Ma che questa sia la vera domanda del nostro tempo, dovrebbe essere chiaro a tutti.
Proverò quindi, nel mio piccolo, a chiarire i termini della questione. Per farlo mi servirò di un recente intervento di Andreas Dombret, banchiere centrale della Bundesbank, dal titolo “Lo stato come un banchiere?”, recitato il 28 gennaio scorso a Francoforte presso l’Institute of monetary and financial stability.
Il punto focale è che viviamo un certa confusione, dice Dombret. Stato e mercato, per il tramite delle loro banche, sono sempre più interconnessi, e poiché entrambi hanno sofferto una crisi di fiducia, dal 2008 in poi, il risultato è che l’economia non decolla. Lo stato banchiere, vuoi perché direttamente esposto verso le banche, vuoi perché le banche hanno aumentato l’esposizione verso il debito sovrano, è un fattore di freno dell’economia, dice Dombret, oltre che una seria minaccia alla stabilità finanziaria.
“Il collegamento fra stati e banche – osserva – è diventato una sfida per la stabilità finanziaria, malgrado ciò sia la conseguenza di misure adottate proprio per assicurarla”. Un simpatico paradosso. Ma “confondere la linea fra il rischio sovrano e il rischio bancario – sottolinea – deforma l’economia di mercato e il nostro modo di pensarla”.
Ristabilire i confini richiede perciò “una maggiore connessione fra rischio e responsabilità”, perché “se lo stato si accolla una significativa quota di perdite in caso di default di una banca, le banche sono incoraggiate a prendere su di sé più rischi”. Il caro vecchio moral hazard.
Come se ne esce? “La mia opinione – dice – è che la soluzione debba essere trovata nel restituire allo stato il compito di disegnare le regole nelle quali il settore privato opera. Questo significa tornare al ruolo dei padri fondatori dell’economia sociale di mercato”. Ecco l’ordoliberalismo, la teoria fondativa della Bundesbank, potremmo dire.
Come si vede, in campo c’è una specie di rivoluzione culturale, che poi è insieme un salto nel passato e nel futuro. E nel futuro immaginato da Dombret c’è spazio per ciò che prima non sembrava possibile: ossia che le banche possano fallire senza che ciò comporti, se non in ultima istanza, il ricorso ai soldi pubblici.
Ciò richiede credibilità. Deve esistere, quindi, un modo per minimizzare i costi del salvataggi, da una parte, e deve esistere un sistema di norme che regoli i fallimenti.
Il primo punto, spiega Dombret, si può ottenere con la regolazione. Quindi le norme di Basilea III che, innalzando i requisiti di capitale per le banche, le rende automaticamente meno profittevoli, e quindi meno esposte al rischio. Il capitale costa di più di un bond subordinato, e quindi produce meno profitto, si potrebbe dire.
Il secondo punto è l’Unione bancaria. Il meccanismo di risoluzione, unito al fondo di salvataggio, che prima o poi verranno approvati (vedremo come), ma soprattutto il meccanismo di sorveglianza, già operativo e che ha già disegnato con molta chiarezza la visione delle cose della Bce. Per dirla con le parole di Draghi di qualche settimana fa: le banche devono poter fallire, se vogliamo restituire credibilità al mercato.
E qui torniamo alla domanda iniziale: chi deve pagare?
Il principio del bail in, nella visione della Bundesbank ma anche della Bce, scarica i costi dei salvataggi prima sugli azionisti, poi sugli obbligazionisti, quindi sui correntisti non assicurati. Quindi un’applicazione su larga scala di questo principio condurrebbe a un sicuro allontamento dei risparmiatori dalle banche, a meno che non siano disposti a correre il rischio di perdere i propri soldi.
E’ un male? Non lo so. So soltanto che spesso la pressione degli azionisti di una banca per avere profitti crescenti è stata una molla potente per incoraggiare il moral hazard, specie per le banche troppo grandi per fallire. Se costoro, che hanno guadagnano quando i tempi erano buoni, saranno chiamati a pagare si verificherebbe una chiara privatizzazione delle perdite.
Il principio del bail out scarica invece i costi dei salvataggi genericamente sul bilancio dello Stato. Socializza le perdite. E, in quanto tale, toglie ossigeno fiscale alla contabilità nazionale. Per salvare una banca, tanto per dire, si può esser costretti a tagliare altri servizi.
Se il problema lo poniamo in questi termini, il sogno della Buba (e della Bce) assume un altro significato.
Potrebbe persino diventare interessante.
Germania 1-Ue 0: avanza l’Europa (bancaria) tedesca
Sta vedere che dovranno ringraziare la Germania. Quelli, intendo dire, che hanno accumulato risentimento nei confronti dei tedeschi a causa di una distonia nella percezione, secondo la quale esisteva una sorta di patto scellerato fra Germania e Unione europea consumato sulle spalle dei PIIGS in nome dell’austerità.
La vicenda dell’Unione bancaria, ormai agli sgoccioli, dimostra sostanzialmente il contrario. L’accordo raggiunto dall’Ecofin, che dovrà essere ratificato fra oggi e domani dal consiglio dei capi di stato e di governo, si può leggere come una netta vittoria degli stati nazionali, di cui la Germania, volenti o nolenti si è dimostrata il campione, sulle autorità sovranazionali, a cominciare dalla Bce, che infatti ha fatto subito sentire la sua voce tramite Vitor Costancio, secondo il quale serve un processo di decisione più rapido per la risoluzione e un paracadute finanziario (backstop) assai più agile e sicuro di quello immaginato dall’Ecofin.
Che significa questo? Che in pratica la Germania ha ribadito con chiarezza che sono gli stati a decidere cosa fare delle loro banche, ovviamente a cominciare dalle proprie. Non la Bce (che comunque ha nella manica sempre l’asso della supervisione), non la Commissione, tantomeno il board di risoluzione che nascerà dalla costruzione del secondo pilastro dell’unione bancaria (SRM).
Quest’ultimo viene ridotto a un semplice anello di una catena che vede in cima il Consiglio europeo (prima assente dalle bozze normative), la Commissione Ue e le autorità di risoluzione dei singoli paesi, che partecipano al Board. Invece dell’implacabile Risolutore immaginato dai vari banchieri centrali, ossia una struttura assolutamente indipendente e “irresposabile”, ci troviamo di fronte a un bravo scolaro che prepara i dossier e elabora proposte che dovranno passare dalle forche caudine di mezzo mondo prima di essere approvate. E che una volta approvate saranno eseguite dalle autorità nazionali di risoluzione.
Capite bene perché la Bce ha fatto sentire la sua voce in tempo reale.
Dire che l’ultima parola sulla risoluzione spetta agli stati nazionali, seppure il tramite del Consiglio europeo o i propri organismi di risoluzione, significa tradurre nel linguaggio bancario il messaggio politico che ieri la Merkel ha ribadito senza peli sulla lingua, com’è suo costume: “Servono modifiche dei Trattati per avere un meccanismo vincolante per le riforme”. Tali riforme dovranno coinvolgere la Commissione, che però, ha sottolineato, “non dovrà dettare regole, ma deciderle d’intesa con gli stati”. Tanto per capire chi comanda.
Lo stesso principio ha guidato la decisione su chi debba pagare il conto della risoluzione, ammesso che mai si riuscirà a deciderne una.
L’accordo raggiunto prevede che alla fine, fra dieci anni e per gentile concessione tedesca, ci sarà il fondo dedicato richiesto a gran voce da Francia e Italia e dalla stessa Commissione europea. Il Fondo dovrebbe contare su almeno 55 miliardi, alimentandosi con i versamenti delle banche, che si tasseranno in quota crescente al crescere della rischiosità dei propri attivi (e in tal senso sarà interessante vedere come saranno valutati i titoli sovrani). C’è il rischio concreto, insomma, che verranno considerate più rischiose le banche che hanno in pancia titoli sovrani italiani piuttosto che tedeschi. Ma intanto dovranno vedersela sostanzialmente gli stati nazionali, che in compenso hanno accettato di anticipare al 2016 l’entrata in vigore della normativa sui bail-in. Questi ultimi, se non hanno i soldi da mettere nei salvataggi bancari, potranno sempre chiederli al fondo Esm, salvo però una messa sotto tutela alla spagnola. E’ il trionfo del Berliner consensus.
Di nuovo, dalla Germania arriva la conferma della supremazia del principio nazionale di fronte a quello sovranazionale. Il fatto che tale affermazione, che dovrebbe fare la felicità dei tanti che si sono scoperti nazionalisti negli ultimi anni, porti con sé che alla fine sia la nazione più forte a dettare la linea è una simpatica controindicazione. Vorrà dire che ameranno la bundesbank almeno quanto hanno odiato la Bce.
Il nazionalismo, oggi, significa auspicare sostanzialmente la costruzione di un’Europa tedesca. A cominciare dalla banche.
Alla faccia delle buone intenzioni.
Rimane il fatto che questo è solo il primo tempo di una partita più lunga che durerà per tutto l’anno prossimo, durante il quale si svolgerà l’attività preliminare della costituenda supervisione bancaria della Bce.
Dal canto suo la Banca centrale ha l’arma letale della market discipline, che già in passato ha dato grandi soddisfazioni a banchieri e regolatori (spesso le stesse persone). Le cerimonie barocche di Bruxelles rischiano di essere spazzate via al minimo accenno di sopraccigilio alzato da parte della Bce, specie in tempi di tapering.
La crisi dell’euro, “che non è ancora finita”, per usare le parole della Merkel, potrebbe essere la migliore alleata, come lo è sempre stata in passato, dei fautori del sovranazionalismo, costringendo i governi europei a bere calici amari come quello dell’Unione bancaria, che mai sarebbe stato riempito senza l’esplosione della crisi nel 2008.
E sovranazionalismo oggi significa innanzitutto auspicare la resa di Berlino all’accerchiamento neanche troppo dissimulato dei poteri forti di Bruxelles e Francoforte.
Comunque vada a finire questa partita, una cosa è chiara: per noi italiani sarà un insuccesso.
