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Anno 2060: la rivincita dei Pigs (forse)

Confesso che non mi sarei mai interessato al lungo periodo, che l’anagrafe mi suggerisce fuori dal mio arco di esistenza, se la Bce non ne avesse trattato nel suo ultimo bollettino di giugno, dove analizza gli esiti dell’ultimo Ageing Report pubblicato dal gruppo europeo di lavoro che se ne occupa.

Per chi non lo conoscesse, l’Ageing Report si propone di analizzare l’andamento delle finanze pubbliche in relazione a quello della demografia, che sappiamo essere particolarmente avversa nell’eurozona. E ne trae alcuni ammaestramenti che potrebbero, o sarebbe meglio dire dovrebbero, essere di giovamento ai responsabili delle politiche economiche.

Chiaramente lo scopo del gioco non è tanto descrivere come sarà il mondo fra più di quarant’anni, che pure i sapienti burocrati di Bruxelles sanno essere esercizio spericolato. Bensì provare a svolgere delle previsioni sulla base di ciò che sappiamo adesso. E non sto parlando solo dei dati disponibili, ma anche e soprattutto delle tecniche econometriche che tali dati trasformano in congetture futuribili, una volta che gli esperti si siano accordati su altre previsioni ancora. Ossia le stime di crescite del Pil, degli andamenti demografici, dei mercati del lavoro, eccetera.

Non c’è bisogno di sottolineare quanto questo esercizio statistico abbia il fiato corto. Basta ricordare che viene revisionato ogni tre anni conducendo com’è prevedibile a risultati assai diversi. Quel che qui conta rilevare è che tali congetture, per quanto spericolate, diventano poi argomento di discussione nei tavoli dove si decidono le politiche. L’Ageing Report, da questo punto di vista, è il trionfo del possibile sulla realtà. Per dire: sulla base di queste previsioni vengono formulati gli obiettivi di medio termine (OMT) previsti dal patto di stabilità e crescita del 2005.

Detto ciò, mi ha incuriosito, leggendo il box della Bce, notare come l’ultimo Ageing Report, a differenza di quello del 2012, sia particolarmente benigno nei confronti dei Pigs. I paesi fragili dell’eurozona, cui l’Italia partecipa di tanto in tanto, sono quelli che le previsioni ipotizzano meglio attrezzati per affrontare le sfide del futuro, pur sotto la pletora di cavet che l’esercizio sussume.

Sicché mi consola pensare, pure se magari non ci sarò più, che nel 2060 la nostra spesa pensionistica sarà tollerabile, o che il nostro mercato del lavoro sarà parecchio migliorato. E in questa riscossa, tardiva ma meglio che niente, leggo il giusto contrappasso per l’ultimo quasi decennio che abbiamo patito e per quelli che ancora dovremo patire. Se nel lungo periodo si starà meglio, nel breve, mi par di capire dovremo ancora fare i conti con i soliti problemi.

Non solo noi, ovvio. E’ tutta l’Europa che “deve far fronte a una sfida demografica”, nota la Bce. “Il tasso di dipendenza degli anziani, ossia il rapporto fra le persone di età pari o superiore a 65 anni e quelle in età lavorativa, dovrebbe quasi raddoppiare nell’area dell’euro, passando da circa il 29 per cento attuale a
oltre il 50 per cento nel 2060”. Ciò in sostanza significa che sempre lavoratori dovranno farsi carico di sempre più anziani. Quindi “se non verranno intraprese le opportune riforme strutturali, l’invecchiamento demografico avrà implicazioni negative per la sostenibilità delle finanze pubbliche, in particolare sul lungo periodo”.

Ma poiché nel lungo periodo saremo tutti probabilmente morti, come ebbe a celiare un noto economista del passato, potremmo pure disinteressarcene, a ben vedere. Se non fosse che tale avverso andamento demografico avrà impatti sulla crescita del Pil potenziale e sulla sostenibilità fiscale, riguardando, in ultima analisi “anche la politica monetaria”. Il che spiega la ragione dell’interesse della Bce.

Ogni cosa, come si vede, può riportarsi alla politica monetaria. Tutte le strade, perciò, portano alla Bce.

E che ci dice la Bce?

Ci dice che “i costi totali dell’invecchiamento demografico nell’area dell’euro dovrebbero aumentare
nell’orizzonte di proiezione, nonostante la presenza di notevoli differenze tra paesi”, passando dal 26,8 al 28,3% del Pil.

Ma il grafico che la Bce illustra ci dice anche altro. Ossia che salvo il Portogallo, dove i costi del welfare sono previsti in aumento nel 2060 rispetto al 2013, negli altri paesi fragili il peso fiscale di pensioni, sussidi, scuola e sanità, diminuirà. Persino in Francia, che è tutto dire.

Al contrario i paesi oggi forti, inizieranno a soffrire sul serio. La Germania, per dire, che adesso sta sotto il 25% si avvicinerà pericolosamente al 30, come l’Olanda, mentre Austria, Belgio e Finlandia l’avranno superato.

Se fossi greco, poi, leggerei con sollievo che l’andamento del mercato del lavoro intravede lì il più corposo calo della disoccupazione dell’intera area, nel 2060, con la Spagna a un’incollatura, mentre noi italiani, per anni all’indice, potremmo pure vantarci di avere il miglior calo di spesa pensionistica dopo Lituania a Francia.

Senonché, nota la sempre prudente Bce, a differenza dell’Ageing Report del 2012, quello attuale conta su più ottimistiche ipotesi macroeconomiche e demografiche, piuttosto che su progetti di riforma, atteso che all’orizzonte se ne vedono pochini.

E questo, in fondo, è il problema. Un altro grafico, che scompone il peso delle riforme sulla variazione della spesa illustra che senza riforme pensionistiche, l’esito finale sarà molto diverso. con l’aggiunta che “vi sono anche rischi connessi all’inversione delle riforme pensionistiche adottate”, che la Bce guarda con particolare preoccupazione, atteso che le proiezioni non sono state fatte a politiche invariate, come nel precedente report, ma sulla base delle riforme annunciate.

Riforme a parte, il nuovo Ageing Report si affida a previsioni più favorevoli, di conseguenza “soggette
a significativi rischi negativi”. In particolare l’ipotesi che la “crescita della produttività totale dei fattori (PTF),
scesa sensibilmente durante la crisi, riprenda a salire a un tasso dell’1 per cento sul lungo periodo appare ottimistica per diversi paesi in assenza di sostanziali riforme che favoriscano la crescita”. Anche perché la storia ci dice che nel periodo 1999-2012 la PTF è cresciuta in media dello 0,7%, con tassi nettamente inferiori in diversi paesi, fra cui il nostro.

Insomma: il gruppo di lavoro ha intravisto un futuro appena più roseo di come potrebbe essere secondo la Bce. E il fatto che i Pigs ne escano bene porta con sé una preoccupante controindicazione: questi paesi potrebbero pensare che il peggio è passato.

E ciò spiega la conclusione della Bce: “Aarebbe fuorviante interpretare le nuove proiezioni sui costi dell’invecchiamento come un’indicazione che gli sforzi di riforma dei paesi siano meno urgenti”.

Memento mori.

Il QE, la Bce e la tosatura light del risparmiatore

Con meravigliosa domanda retorica la Banca centrale europea si chiede se davvero il quantitative easing finisca con lo scaricare sulle spalle dei risparmiatori il costo delle scelte della politica monetaria.

Quanto c’è di vero, si chiede la Bce, nella tesi di un esproprio ai danni dei risparmiatori?

Domanda retoricissima, perciò, simile a quella che si fa l’oste quando si interroghi sul proprio vino, e tuttavia tremendamente attuale se persino ai piani bassi dell’informazione era sorto il sospetto che il QE nascondesse un lato oscuro.

Sicché, sentendomi (per pura megalomania) chiamato in causa mi sono fatto un dovere di leggere il tomo che accompagna la sintesi.

Lettura utilissima, perché pregna di analisi e di istruttivi raffronti storici che vi racconterò nel prosieguo del nostro discorrere, anticipandovi qui soltanto un pezzetto delle conclusioni: “Lo studio dimostra che non è la banca centrale a determinare nel lungo periodo i rendimenti dei risparmi in termini reali, ossia al netto dell’inflazione”.

“Nel medio periodo – osserva – il tasso di rendimento sugli investimenti in termini reali dipende soprattutto da quanto sia innovativa e giovane l’economia, dalle condizioni delle strade e di altre infrastrutture, dalla flessibilità del mercato del lavoro e da quanto siano propizie alla crescita le politiche pubbliche. È l’economia reale che genera rendimenti reali”.

Dal che deduco che noi italiani siamo messi maluccio.

Lo studio conferma che “per tutti i risparmiatori dell’area dell’euro la debolezza dell’economia dell’area e il basso livello dei tassi di interesse che ne deriva è una questione seria. Quando i rendimenti sono esigui, risparmiare la somma voluta richiede molto più tempo”.

Attenzione: quindi il livello dei tassi bassi deriva dall’economia, la Bce ne prende semplicemente atto, facendo il suo lavoro di banca centrale.

Quest’ultima infatti “influenza i tassi di interesse nominali, ossia senza considerare l’inflazione. Ma i rendimenti sui risparmi in termini reali – sostengono gli autori – dipendono da fattori concreti quali l’innovazione, la demografia e i mercati del lavoro”.

Sempre peggio, mi dico.

Ciò implica che “solo nel breve periodo – uno o due anni – la politica monetaria può influire in misura limitata sui rendimenti in termini reali”. Quindi per un paio d’anni qualche danno comunque il piccolo risparmiatore li subirà.

Ma tranquilli: “Questo breve orizzonte temporale non è determinante per gran parte dei risparmiatori”, così almeno stabiliscono gli autori, che concludono spiegando come “la politica monetaria non può indicare la via d’uscita dalla fase di debole crescita economica e, quindi, di tassi di interesse contenuti per i risparmiatori”.

Se i tassi sono negativi, insomma, la colpa non è di chi fissa i rendimenti nominali, ma dell’economia debole, ossia pigra e deflazionaria.

Spiazzato di fronte a questa inusitata inversione gnoseologica, mi convinco che la Bce abbia ragione: non subirò alcune tosatura a causa del QE. Se non per un paio d’anni.

Al limite una tosatura light.

Le Assicurazioni europee non rassicurano

Non è che mi diverta questo cercare il pelo nell’uovo, sollevare timori e additare rischi, quando il mondo intero, e l’Europa in particolare in quanto ultima arrivata, balla sul Titanic del QE.

Però, vedete, mi ci tirano per i capelli. Specie quando mi accorgo che alcune mie malfondate intuizioni hanno finito col trovare spazio nelle argute analisi di persone assai più intelligenti di me. Della qualcosa dovrei forse compiacermi, se non fosse che spero sempre di sbagliarmi, quando vedo nero.

E invece no: di fronte al dilemma salvare banche o assicurazioni, la BCE ha scelto le banche. Ma mica lo ha fatto per cattiveria. E’ solo una questione di tempi. Le banche, a differenza delle assicurazioni, hanno una struttura patrimoniale che le espone costantemente al rischio di trasformazione e di duration, mentre le assicurazioni, specie quelle che agiscono sul ramo vita e delle polizze, hanno tempi assai lunghi.

Ciò le rende più capaci di sopportare rendimenti bassi dei propri investimenti. Ma ciò non vuol dire che, in un ambiente come quello in cui viviamo adesso, dove i rendimenti obbligazionari sono negativi per i tempi medio-lunghi, tale robustezza non abbia a risentirne.

E infatti il Fmi, nel suo ultimo Global financial stability report parla proprio di questo. Concentrandosi in particolare sul mercato assicurativo europeo, che deve vedersela con rendimenti negativi dei bond governativi, ossia quella classe di asset sulla quale il settore assicurativo investe parecchio.

Giusto per ricordarvelo: siamo nella situazione nella quale in Germania i bond governativi hanno rendimenti negativi fino alla scadenza di sette anni, con un decennale che spunta pochi punti. E in una situazione simile a quella tedesca si trovano la Svizzera, la Finlandia, l’Olanda, l’Austria, il Belgio e la Francia. Persino l’Italia, di recente, ha venduto in asta un bot annuale praticamente a zero.

Sicché, mentre i giornali applaudono il crollo degli spread, è indice di buon senso ricordare che non esistono pasti gratis. Ciò che i governi risparmieranno sugli interessi dei loro debiti, lo pagheranno i risparmiatori, nella forma di rendimenti pressoché negativi sui loro investimenti finanziari, a meno di non voler rischiare l’osso del collo con investimenti assai rischiosi, e indirettamente le assicurazioni, che comunque gestiscono sempre soldi dei risparmiatori.

Perciò invece di raccontarvi dei prodigiosi progressi del mercati finanziari e valutari e delle promettenti prospettive del settore bancario, dopo l’avvio del QE di marca BCE, preferisco dedicare questo approfondimento al nostro settore assicurativo, chissà perché sempre trascurato dalle nostre cronache bancocentriche.

Bene. Cominciamo dal titolo che il Fmi dedica a questo approfondimento che dice già tutto: “Assicurazioni europee sulla vita: un modello di business insostenibile in un ambiente di bassi tassi”.

Chiaro no?

Sempre il Fmi scrive che “il corrente ambiente di tassi bassi, che il QE esacerberà, pone una sfida severa all’industria assicurativa europea del settore vita. La pratica dell’industria di sottoscrivere accordi di lungo termine, a volte superiori ai trent’anni, senza asset di corrispondente durata ha provocato un gap di duration negativo. Inoltre tali accordi prevedevano ritorni generosi (agi investitori, ndr) che sono insostenibili nel contesto di bassi tassi di oggi”.

E fin qui siamo alle linee di principio. Che però sono assai concrete.

Il Fmi, infatti, cita un recente lavoro dell’EIOPA (European Insurance and Occupational Pensions Authority) secondo il quale più della metà delle assicurazioni europee sta garantendo ai suoi investitori un rendimento che supera quello dei bond governativi locali a dieci anni, incorrendo in negativi spread da investimento”. Aggiungo, solo per amore della cronaca, che lo studio dell’EIOPA risale al 2013, quindi precede di parecchio l’attualità, che vede rendimenti ancora più bassi rispetto a due anni fa.

I paesi che soffrono insieme di ampi disallineamenti di duration e spread negativi sugli investimenti “sono particolarmente sensibili a un ambienti di tassi bassi”. E per una volta nella classifica degli inguaiati non troviamo l’Italia o la Grecia, ma la Germania e la Svezia, che pesano insieme il 20% del totale dei premi lordi sottoscritti nel 2013 e soffrono di entrambi i problemi segnalati. Ma sono in buona compagnia: nel gruppo dei fragili troviamo anche l’Olanda, la Francia, la Polonia e altri.

Sicché, sempre l’EIOPA, stavolta nel 2014, ha condotto alcuni stress test sull’industria assicurativa, che certo hanno avuto meno visibilità di quelli fatti dalla BCE sulle banche, ma sempre perché l’informazione è bancocentrica.

Peccato perché ce ne sarebbe da scrivere. A cominciare da quello che nota il FMI: “Gli stress test mostrano che il 24% degli assicuratori non sono in grado di raggiungere il 100% del loro solvency capital ratio richiesto in uno scenario alla giapponese”. Rassicura di più la circostanza che ci vorranno fra gli 8 e gli 11 anni prima che l’industria “incontri seri problemi” anche se “tale valutazione sembra ottimistica visto ce adesso i tassi sono molto più bassi di quanto fossero al momento degli stress test”.

Ne deriva che le assicurazioni di taglia media “si trovano di fronte ad alti e crescenti rischi di stress. Il fallimento di una di queste può provocare una perdita di fiducia”, e il resto del film potete immaginarlo da soli. Anche perché “la mancanza di uno schema di protezione o di un set di regole uniche per l’intera Ue magnifica il rischio di distruzione del mercato”.

Sta a vedere che adesso dopo la supervisione bancaria unificata dovremo mettere mano a quella assicurativa.

Questi tormenti si esasperano ricordando che il sistema assicurativo è pesantemente interconnesso con l’intero sistema finanziario europeo, visto che le assicurazioni sono spesso collegate alle banche e che gestiscono una robetta da 4,4 trilioni di asset.

Ed ecco che il rischio bancario, uscito dalla finestra del QE, rientra dalla finestra delle assicurazioni.

Ma questo non ce lo dicono tutti i giorni.

Il QE europeo, ovvero il trionfo dell’egemonia monetaria

Mi ritrovo a navigare, come voi sperduto, nel vasto mare dell’informazione economica con le correnti che mi spingono a volte verso fiumi impetuosi che mi sovrastano, lasciandomi spossato, tal’altre lungo angusti rigagnoli che però nascondono tesori, piccole perle che hanno il potere di illuminare la mia vista da naufrago, onnubilata dall’acqua.

Mentre nuoto, ancora incerto sulla ragione e soprattutto la destinazione, mi piovono addosso notizie di spread europei che collassano insieme alla quotazione della moneta unica, ormai vicina alla parità col dollaro, mentre dalla terra greca si paventano sconquassi come più o meno accade ormai da un lustro. All’orizzonte vedo sorgere un timido arcobaleno, però, che la decisa azione della Bce ha reso persino più colorato di com’è solitamente in natura, con i telegiornali e gli istituti di statistica a spargere ottimismo, che male non fa, pure se non è detto che faccia bene.

Mi convinco per simpatia che non solo va tutto bene, a parte le bizze dei greci che qualcuno raddrizzerà, ma che soprattutto andrà tutto bene. Il QE di Supermario ha già raggiunto il suo obiettivo evidente: ristabilire la fiducia e svalutare l’euro, che comunque male non fa, come ci ricordano i giornali confindustriali, anche se non è detto che faccia bene.

Decido persino di non scriverne più di QE, atteso che tutto quello che c’era da dire e ricordare credo di averlo già fatto.

Ma poi mi capita sotto gli occhi uno speech di Peter Praet, componente del board della Bce, (“Public sector security purchases and monetary dominance in a monetary union without a fiscal union“) e capisco di essere finito in uno di quei rigagnoli di cui vi dicevo prima. Uno di quei posti angusti da dove però puoi guardare l’insieme, solitamente trascurato dalle cronache.

Le riflessioni di Praet mi fanno tornare in mente un post che avevo scritto tanto tempo fa, nel quale senza saperlo avevo invocato un concetto a che a quanto pare esiste davvero nella teoria del central banking, quello di monetary dominance. Nella mia ignoranza (mai sentito prima) avevo parlato invece di egemonia monetaria, riferendola alla logica dell’agire della nostra banca centrale che, proprio perché priva di uno stato alle spalle, deve far leva sul rispetto di alcuni principi essenzialmente monetari per la sua politica. La logica dell’egemonia monetaria si confronta con quella della moneta egemone che caratterizza ad esempio gli Stati Uniti, dove c’è una perfetta saldatura fra stato e banca centrale pur nella diversità dei ruoli.

Figuratevi la sorpresa quando, leggendo Praet, mi sono accorto che il miglior risultato che il QE ha ottenuto, aldilà degli spread declinanti e della fiducia crescente e al netto della Grecia, è stato sui principi: la Bce di fatto con la sua decisione ha segnato il trionfo del principio della monetary dominance. Quindi il suo personale.

Tale principio si basa sull’assunto che una banca centrale debba prendere le sue decisioni in totale indipendenza senza altro riguardo che al suo mandato, quindi nel caso della Bce legato all’obbiettivo di un’inflazione al 2%, senza curarsi né della financial dominance, ossia delle conseguenze che ciò avrà sulle banche e il sistema finanziario, né tantomeno della fiscal dominance, ossia l’esigenza che può avere uno stato di rivolgersi alla sua banca centrale per finanziarsi, per la semplice ragione che uno stato alle spalle la Bce non ce l’ha.

Il trionfo dell’egemonia monetaria, che è un modo totalmente nuovo (anche se ricorda il vecchio gold standard ottocentesco) di concepire il central banking, conferma che l’eurozona è il luogo dove l’internazionalismo monetario si sta facendo i muscoli, e perciò è assai utile seguire il ragionamento di Praet, pur nella consapevolezza che mai e poi mai la moneta egemone cederà la sua supremazia senza combattere.

Vi riassumo qui i tratti salienti.

L’unione monetaria europea senza unione fiscale è possibile in teoria, dice il banchiere, “ma richiede requisiti che assicurino una monetary dominance più stringente”.

Ciò in quanto in una unione monetaria la politica monetaria, che è a sua volta unica, genera dei link con i budget fiscali dei diversi stati. Il perché è evidente: guadagni o perdite dell’attività della banca centrale vengono distribuiti a tutti governi, pure se in quota parte. Quindi se la Bce comprasse titoli di stato di un paese membro ne condividerebbe il rischio con gli altri paesi, il che è semplicemente vietato dai trattati. Ecco: la monetary dominance implica l’indifferenza dell’autorità monetaria nei confronti dei paesi le cui banche centrali (a loro volta teoricamente indipendenti) sono a loro volta azioniste della Bce. La difesa della moneta è lo scopo principale del gioco.

Perché tale monetary dominance sia effettiva occorre ovviamente che la Bce sia credibile anche e soprattutto nei confronti delle autorità fiscali. E infatti per evitare tentazioni di fiscal dominance, l’Ue ha costruito il suoi vari fiscal compact che di fatto imbrigliano i governi nazionali in una matrice di parametri alla quale non possono sfuggire a pena di sanzioni.

Ma monetary dominance significa anche un’altra cose: significa che la banca centrale può farsi carico della politica monetaria ma non di quella creditizia.

Nella distinzione che ne ha fatto Marvin Goodfriend in uno scritto del 2011 “una autentica politica monetaria esiste solo quando la banca centrale acquista e vende bond governativi. Quando invece la banca centrale si impegna in operazioni che implicano rischi di credito, e quindi coinvolge il settore privato, sta facendo politica creditizia a in ultima analisi fiscale”.

Ma “la nozione che un bond governativo non porti con sé rischio può esistere solo in un contesto in cui ci sia pieno consolidamento fra il bilancio della banca centrale e quello dell’autorità fiscale”. Detto in parole comprensibili, una banca centrale può monetizzare un Treasury, e in questo senso è sicuro.

Il problema è che in una unione monetaria senza unione fiscale, un asset del genere non esiste. Nessun titolo degli stati è risk free perché la Bce non può monetizzarlo e perché, nella logica della monetary dominance, uno stato può tranquillamente fallire. L’unico titolo risk free dell’unione europea sono i debiti della Bce, perché emessi da se stessa e quindi infinitamente monetizzabili. Il che dovrebbe farci capire chi comandi davvero in Europa.

Tali considerazioni, che a molti parranno filosofiche, hanno condotto a decisioni molto concrete sia per l’ideazione che la realizzazione del QE della Bce.

Se vi verrà voglia di leggere Praet scoprirete che la decisione presa dal board è assolutamente coerente con questa visione, dove una banca senza stato, che adesso può anche contare su una unione bancaria e su un sistema coordinato di regole fiscali per gli stati, di fatto surroga l’autorità politica pur dicendo il contrario. Nel senso che la politica dell’Ue è la monetary dominance, innanzitutto.

Vi risparmio i dettagli e salto direttamente alle conclusioni: “La decisione del consiglio dei governatori ha dimostrato che siamo (la Bce, ndr) senza vincoli nella nostra capacità di ottemperare al nostro mandato, potendo far pieno uso di tutti gli strumenti di politica monetaria legali ed efficaci di cui disponiamo”.

“Questa – sottolinea – è un’asserzione di monetary dominance, coerente con i principi del Trattato di Maastricht”.

Ma attenzione, avverte: il successo dell’euroarea dipende dal fatto che tutti gli stakeholder facciano la loro parte.

Ripenso ai politici greci mentre Praet recita le sue ultime parole famose: “La Bce non esiste nel vuoto”.

E sento improvvisamente il vuoto dentro di me.

L’irresistibile (de)crescita della Cina

Mi torna in mente una certa pubblicistica in auge nell’Italia degli anni ’70, quando si magnificavano i tassi di crescita delle economie sovietiche, leggendo le ultime riflessioni della Bce, contenute nel suo ultimo bollettino economico, sull’economia cinese.

Ieri come oggi, anche se con sempre meno fervore, gli osservatori guardano all’economia cinese con invidia più o meno benevola, dimenticando, oggi come ieri, quanto sia più facile far crescere il prodotto in un paese sostanzialmente autoritario e ad economia pianificata. Dove, per dire, il livello degli investimenti pubblici ha ampiamente superato il 40% del Pil. Salvo poi accorgersi che il gigante aveva i piedi d’argilla.

Penserete che sono dettagli. Ma purtroppo non è così. L’economia cinese ha perso gran parte del suo slancio, dopo la crisi del 2008, e lo stimolo interno, garantito dagli investimenti pubblici, ha solo parzialmente compensato il cambiamento del clima internazionale e pure al prezzo di ampi squilibri interni che hanno aperto una visibilissima crepa nel gigante asiatico.

Lo dimostra il fatto che il prodotto sia in costante rallentamento, e la Bce vede ulteriori rischi al ribasso, e che inizino a far capolino anche quei fenomeni che lasciano presagire sviluppi inconsueti e imprevedibili per un paese come la Cina.

Valga come esempio la “serie di casi di insolvenze o pericolo di insolvenza sulle emissioni obbligazionarie e su altri prodotti finanziari”, che, aggiunge la Bce, “”sono senza precedenti in Cina” e segnalano “l’intensificarsi delle tensioni nel settore finanziario”.

E sarebbe strano il contrario. La ragione è presto detta: il livello di prestiti interni, e quindi di debiti, a imprese e amministrazioni locali, è crescito dal circa il 130% del pil nel 2004 a oltre il 200% nel 2014. Una montagna di debito, più o meno celata, peraltro concentrata nel settore immobiliare e delle abitazioni in particolare, che nel 2014,  “ha registrato un brusco rallentamento che ha fatto aumentare le scorte e diminuire i prezzi degli alloggi”. Problema aggravato dalla circostanza che l’immobiliare ha ricadute su alcuni comparti dell’industria pesante, come ad esempio quella dell’acciaio.

“Riscontri aneddotici – sottolinea la Bce – mostrano che i costruttori, in particolare le imprese più piccole, si trovano a dover avviare azioni di consolidamento o di ridimensionamento dell’attività. Anche i corsi dei beni utilizzati nelle costruzioni sono diminuiti e l’inflazione calcolata sull’indice dei prezzi alla produzione in Cina è negativa dai primi del 2012, il che esercita pressioni sui margini di profitto di una serie di comparti dell’industria pesante”.

L’alto debito, inoltre, limita “la capacità delle amministrazioni locali di mantenere il ritmo sostenuto di investimenti infrastrutturali osservato alcuni anni fa”.

In sostanza, non è più sostenibile l’idea di pompare il Pil con le costruzioni, essendo di molto diminuito lo spazio di manovrabilità fiscale. Quindi dovremo abituarci a una Cina dove il Pil decrescerà a meno che l’economia internazionale non le restituisca quello slancio sulle esportazioni che le ha garantito il successo nei primi anni del 2000. E neanche è detto che basti.

L’alternativa, che la Bce sottolinea, è che la Cina metta in campo anche lei le sue brave riforme strutturali. A cominciare da quelle che hanno a che fare con la liberalizzazione del mercato dei capitali, ossia il nuovo Eldorado contemporaneo dei finanzieri internazionali.

Alcuni progressi, in tal senso, sono stati fatti. La Bce ricorda, non a caso, il lancio del programma pilota Shangai-Hong Kong Stock connect. Ma anche alcuni azioni di riforma del sistema finanziario e di riordino del sistema previdenziale, mentre rimangono ancora limitate le iniziative per liberalizzare l’economia e riformare le imprese pubbliche, sulla quale peraltro grava buona parte del debito contratto con altre entità pubbliche. Che è un modo elegante per ricordare che comunque stiamo parlando della Cina.

E questo lo sanno anche i cinesi. Tanto è vero che hanno delineato il 2020 come orizzonte temporale entro il quale attuare gran parte delle riforme necessarie per fare della Cina un paese più moderno. Più autenticamente capitalistico.

Bisognerà vedere se tale modernità sarà conciliabile con la forma politica cinese.

Ricordiamo tutti cosa è successo in Urss.

Scacco al Re greco con la mossa del cavallo Bce

Se fossi un bravo scacchista, mi raffigurerei l‘ipocrita tenzone fra Grecia ed Europa come una raffinata partita di scacchi, atteso che tutto si gioca sulla strategia e sulla tattica. Su avanzate e ritirate.

I greci infatti, nella persona del nuovo governo, hanno fatto la prima mossa, iniziando la partita, e adesso siamo nel mezzo di una tenzone vieppiù accesa dove, improvvisamente, è arrivata la mossa della Bce, che ha deciso di non accettare più i titoli del debito pubblico greco come collaterale per le sue operazioni di liquidità, cui sono seguite vertici politici, dichiarazioni roboanti e tutto l’armamentario delle trattative.

Purtroppo non sono un valente scacchista. Ma ho imparato ad apprezzare, nelle mie occasionali partite, quella che usualmente viene chiamata la mossa del cavallo.

Il cavallo, negli scacchi, ha la pregevole caratteristica di poter scavalcare tutti gli altri pezzi e gode di una grande mobilità a 360 gradi che è facile spiazzi l’avversario. Spesso la mossa del cavallo decide le sorti di una partita.

La mossa della Bce mi ci ha fatto pensare immediatamente.

Giudico peraltro oziose le osservazioni di coloro che hanno profittato dell’evento per dire che la Bce è l’unica entità europea funzionante, e quindi decisiva della partita. La mossa della Bce è una mossa squisitamente europea, intesa l’Europa quale coacervo di istituzioni sovranazionali, inquadrate nei trattati, nei quali anche la Bce trova la sua origine.

Per farvela semplice: forse la Bce è il cavallo, e si muove anche con un certo grado di libertà. Ma il Re, nella nostra scacchiere, è l’Ue. Così come nella parte avversaria è lo stato sovrano greco. I continui riferimenti alla Germania, che certo ha voce in capitolo ma non è l’Europa, rischiano di confondere le acque. O di servire alle solite penose strumentalizzazioni che qui cerco di risparmiarvi/mi.

Il cavallo Bce adesso ha messo sotto scacco il Re greco. Il governo greco quindi dovrà fare una mossa per sottrarsi dalla minaccia del cavallo per evitare lo scacco matto. E di solito, nel gioco degli scacchi, quando si finisce sotto scacco si finisce sempre col dover sacrificare qualche pezzo del proprio schieramento.

Ma non si capisce bene il senso di questa affermazione se non si leggono con attenzione la breve nota della Bce e i suoi annessi e connessi, in particolare il regolamento che disciplina il funzionamento delle ELA, ossia le procedure per l’erogazione di liquidità di emergenza alle quali la nota Bce fa esplicito riferimento.

Come al solito, e dico purtroppo, bisogna rassegnarsi a infliggersi letture noiose se si vuole capire quello che succede.

Cominciamo dalla nota Bce, per fortuna assai breve. Ve lo traduco (scusate l’approssimazione) perché temo che pochi l’abbiano letta e perchè molto utile.

Parte prima: “Il Consiglio direttivo della Banca centrale europea (BCE) ha deciso di revocare la clausola di non pregiudizio che riguarda gli strumenti di debito negoziabili emessi o integralmente garantiti dalla Repubblica ellenica. La clausola di non pregiudizio ha permesso che tali strumenti fossero utilizzati nelle operazioni di politica monetaria dell’Eurosistema, nonostante il fatto che essi non soddisfacessero i requisiti minimi di rating del credito. La decisione del Consiglio direttivo si basa sul fatto che non è attualmente possibile ipotizzare una positiva conclusione della revisione del programma ed è in linea con le regole dell’Eurosistema esistenti”.

Questa prima parte merita alcune considerazioni. La prima è che la decisione è stata presa dal consiglio direttivo, non quindi dal presidente in splendida solitudine. Il consiglio direttivo, lo ricordo, è composto dai sei membri del consiglio esecutivo e dai 19 governatori delle altrettante banche centrali dell’eurozona. In assenza di minute non sappiamo come abbia votato il governatore della banca centrale greca, ma vorrei tanto saperlo.

La seconda è che la clausola di non pregiudizio era collegata al programma di rientro, quindi la Grecia, per i noti fatti, era sotto procedura di prestito condizionato. Tale consuetudine è antica quanto l’Europa monetaria stessa. Quindi avendo il governo greco di fatto disdettato le condizioni del prestito, quest’ultimo è decaduto.

Parte seconda: “Questa decisione non comporta conseguenze per lo stato di controparte delle istituzioni finanziarie greche nelle operazioni di politica monetaria. I fabbisogni di liquidità delle controparti dell’Eurosistema, per le controparti che non dispongono di sufficienti garanzie alternativa, possono essere soddisfatti dalla banca centrale nazionale competente, per mezzo di liquidità di ultima istanza (ELA) nel rispetto delle regole dell’Eurosistema esistenti”.

Traduco: le banche greche continuano ad essere considerate controparti per le operazioni di fornitura di liquidità dietro deposito di collaterale, bond greci inclusi, ma lo sono nei confronti della banca centrale greca, la quale, per procurare i mezzi necessari, può utilizzare la procedura ELA. In sostanza il debito dello stato greco scontato dalle banche greche se lo deve tenere in pancia la banca centrale greca.

Nel documento che spiega come funziona l’ELA leggo infatti che l’emergency liquidity assistance, (ELA) “consiste nell’erogazione da parte delle banche centrali nazionali (BCN) dell’Eurosistema di moneta di banca centrale a favore di un’istituzione finanziaria solvibile che si trovi ad affrontare temporanei problemi di liquidità, senza che tale operazione rientri nel quadro della politica monetaria unica. La responsabilità dell’erogazione di ELA compete alle rispettive BCN. Ciò significa che qualsiasi costo e rischio derivante dalla concessione di ELA è sopportato dalle rispettive BCN”.

In sostanza il debito pubblico greco diventa un problema della banca centrale greca. In perfetto spirito QE.

Saranno contenti i sovranisti, penso.

Ma c’è un ma. “L’articolo 14.4 dello Statuto del Sistema europeo di banche centrali e della Banca centrale europea attribuisce al Consiglio direttivo della BCE la competenza di limitare le operazioni di ELA qualora valuti che interferiscono con gli obiettivi e i compiti dell’Eurosistema”. Le decisioni in tal senso sono prese con la maggioranza dei due terzi.

Ma soprattutto, per poter decidere, “il Consiglio direttivo deve essere informato tempestivamente in merito a tali operazioni”. Tale informativa è assolutamente stringente e dettagliata. Inoltre, “nel caso in cui il volume complessivo delle operazioni di ELA previste per una data istituzione finanziaria o un determinato gruppo di istituzioni finanziarie superi un livello di 500 milioni di euro, le rispettive BCN devono informare la BCE il più presto possibile, anteriormente (il corsivo è mio) all’erogazione dell’assistenza che si intende concedere”.

Non vi basta come condizionalità? Allora aggiungo questo: “Se il volume complessivo delle operazioni di ELA previste per una data istituzione finanziaria o un determinato gruppo di istituzioni finanziarie supera un livello di 2 miliardi di euro, il Consiglio direttivo valuterà la possibilità di un rischio di interferenza con gli obiettivi e i compiti dell’Eurosistema”.

Capisco perciò che la mossa del cavallo europeo, la Bce, ha già sortito un effetto, oltre a quello di far finire sotto scacco il Re: si è mangiato il cavallo della Grecia, ossia la Banca centrale nazionale, di fatto finita sotto tutela pure se sembra il contrario, e destinata a gravarsi di rischi che limiteranno la sua capacità di giudizio.

L’ELA lo può attivare, ma sempre condividendo la decisione con l’Eurosistema ed entro certi limiti, poco confacenti all’ammontare dei rifinanziamenti necessari alla Grecia.

Leggo le dichiarazioni rassicuranti del governo greco, che giura di non aver problemi perché tanto c’è l’ELA, come una penosa quanto forse inconsapevole sottovalutazione del problema. Ossia che il Re greco, ossia lo stato sovrano, è sotto scacco, e ha già perso il cavallo. E questo spiega bene perché nelle ultime ore le dichiarazioni dei politici greci siano diventate assai più concilianti.

Ora tocca ai greci fare la loro mossa.

Ma sono circondati.

Quel sapore anni ’50 nel QE di Supermario

Chiunque si sia avventurato nell’esplorazione anche sommaria delle ultime decisioni della Bce temo sia naufragato nell’oceano di parole che le hanno accompagnate e nei commenti isterici che ne sono seguiti.

Travolto, soprattutto, dalla tecnicalità davvero barocca con la quale il Quantitative easing (QE) verrà declinato, il povero osservatore ha poche scelte: deve decidere se stare dalla parte di chi è soddisfatto o di chi non lo è, dovendosi peraltro confrontare con modalità di comunicazione che sembrano fatte apposta per celare piuttosto che per chiarire.

Mi spiego. Leggo e rileggo il comunicato con il quale la Bce ha spiegato senso e dimensioni dell’operazione. Proprio all’inizio c’è scritto che “La Bce estende gli acquisti alle obbligazioni emesse da amministrazioni centrali dei paesi dell’area dell’euro, agenzie situate nell’area dell’euro e istituzioni europee” e che “gli acquisti mensili di attività ammonteranno nell’insieme a 60 miliardi di euro almeno fino a settembre 2016”.

Uno perciò pensa che i 60 miliardi saranno spesi integralmente per comprare “obbligazioni emesse da amministrazioni centrali dei paesi dell’area dell’euro, agenzie situate nell’area dell’euro e istituzioni europee”.

E invece no. A metà della nota leggo che “il programma comprenderà il Programma di acquisto di titoli emessi a fronte di operazioni di cartolarizzazione (asset-backed securities purchase programme, ABSPP) e il terzo Programma per l’acquisto di obbligazioni garantite (covered bond purchase programme 3, CBPP3), entrambi introdotti sul finire dello scorso anno. Gli acquisti mensili ammonteranno nell’insieme a 60 miliardi di euro”.

Quindi se i 60 miliardi mensili comprendono anche gli altri programmi, è errato pensare che riguardino esclusivamente i titoli di stato o le agenzie pubbliche.

Più avanti si legge inoltre che “la Bce acquisterà obbligazioni emesse da amministrazioni centrali (quindi i governi, ndr) dei paesi dell’area dell’euro, agenzie situate nell’area dell’euro e istituzioni europee nel mercato secondario a fronte di moneta di banca centrale, che gli enti creditizi cedenti i titoli potranno utilizzare per acquistare altre attività oppure erogare credito all’economia reale”. Ciò vuol dire che gli acquisti non avverranno sul mercato primario, ossia al momento delle emissioni, ma riguarderanno titoli già in possesso delle banche. Ossia le stesse che in questi anni di crisi si sono riempite di titoli pubblici e ora, anche a causa dell’Unione bancaria, devono iniziare a liberarsene. In un certo senso il rischio sovrano esce dal privato e torna al pubblico.

Ma l’apice della supercazzola si raggiunge alla fine: “Quanto alla ripartizione di ipotetiche perdite, il Consiglio direttivo ha deciso che gli acquisti di titoli di istituzioni europee – che ammonteranno al 12% degli acquisti di attività aggiuntive e verranno effettuati dalle banche centrali nazionali (BCN) – saranno soggetti alla ripartizione delle perdite. I restanti acquisti aggiuntivi da parte delle BCN non verranno invece sottoposti a tale regime. La BCE deterrà l’8% delle attività aggiuntive acquistate. Ne consegue che il 20% degli acquisti aggiuntivi sarà soggetto a un regime di ripartizione del rischio”.

La famosa condivisione del rischio che tanto inchiostro, più o meno virtuale, ha fatto sprecare. Non essendo purtroppo dotato del meraviglioso talento del ragioniere-banchiere, ho faticato non poco a dipanare la matassa. Ne ho tratto alcune deduzioni che vi sottopongo, pregando quelli più bravi di me di correggermi se ho frainteso qualcosa.

Gli acquisti di titoli di non meglio specificate “istituzioni europee” (anche le amministrazioni centrali?) ammonteranno al 12% degli acquisti aggiuntivi. Quindi al 12% di 60 miliardi mensili, pari a 7,2 miliardi. Tali acquisti saranno effettuati dalle banche centrali nazionali e soggetti alla condivisione del rischio a differenza del resto.

Qualora quindi una banca centrale nazionale dovesse incorrere in perdite, queste ultime verranno condivise dall’Eurosistema. Lo stesso Draghi ha ricordato rispondendo ad alcune domande in conferenza stampa che ci sono precedenti per la BC olandese e quella lussemburghese su alcune partite di acquisti andate male.

Oltre a questo 12%, che rimane in capo alle BC nazionali ma con la garanzia dell’Eurosistema, c’è un altro 8% degli acquisti mensili, pari a 4,8 mld, che la Bce deterrà direttamente sul suo bilancio. Quindi il 20% “soggetto a ripartizione del rischio” va interpretato nel senso che c’è un rischio indiretto sul 12% e uno diretto sull’8%.

Nel corso della sua presentazione Draghi ha poi spiegato che gli acquisti di titoli dei singoli paesi potranno essere effettuati sulla base delle quote percentuali che ognuno di loro ha sul capitale della Bce. Poiché qualcuno magari non li ricorda, credo sia utile riportarli qui. Per comodità osservo che la l’Italia ha il 12,3108% del capitale della Bce, la Buba il 17,9973, la Grecia, visto che è diventato il casus belli, il 2,0332%.

Quindi, sempre se o capito bene, la quota di acquisti aggiuntivi verrà individuata sulla base delle quote percentuali che ogni Banca centrale ha nel capitale della Bce che dovrebbe quindi corrispondere al volume di fuoco che ogni BC può mettere in campo. Per di più con la limitazione che ogni singolo emittente non potrà essere comprato per una quota superiore al 30% e ogni emissione per una quota superiore al 25%, sempre sulla base delle quote percentuali nell’insieme dei 18 mesi durante i quali il QE avrà validità, sempre ammesso che non prosegue oltre, visto che nessuno lo esclude. Dipenderà, com’è noto dal livello dell’inflazione.

A questo punto calcolare la quota di titoli di stato italiani che la BCE potrebbe garantire direttamente o indirettamente è davvero esercizio per talentuosi ragionieri, quindi non per me. Mi contento ci capire che il grosso rimarrà in capo alla nostra Banca d’Italia che però, secondo il nostro governatore Visco, non avrà nessun problema di bilancio. E meno male, dico io, visto che la Banca d’Italia è un’entità pubblica, le cui perdite, di conseguenza, incombono sul bilancio dello stato. Capiremo se è realistica, la previsioni di Visco, appena l’istituto presenterà il primo bilancio del 2015, ossia a maggio 2016.

Inoltre, è tutto sommato poco essenziale sapere con precisione quanti titoli pubblici italiani verranno acquistati tramite il QE di Supermario. Per un Paese come il nostro che emette 2-300 miliardi l’anno di titoli per rinnovare il suo debito pubblico, e ne ha sparsi oltre 2.100 miliardi in giro, un buon 40% dei quali in mano alle banche residenti, cosa volete che cambi se la Bce garantirà 10 o 20 miliardi in più? Mi sembra evidente che lo scopo del QE è politico, non tecnico.

E mentre guardo i notiziari serali, uno dei tanti sondaggi cotti e mangiati che danno in tv me lo conferma. Alla domanda se secondo te il QE servirà a uscire dalla crisi l’80% risponde di sì. E mi chiedo quanti di questo 80% abbiano anche una sia pur vaga idea di cosa sia una banca centrale e come lavora. Mi rispondo che non ha nessuna importanza. Perché quello che conta è la fiducia, come ripetono tutti. Non ultima la Lagarde del Fmi, che ha fornito la sintesi a mio avviso più esemplare: “Vediamo se funzionerà – ha detto – la chiave di lettura è la fiducia”.

E’ chiaro, quindi, che per capire il senso del QE di Supermario non serve la seppur utilissima tecnica del banchiere. Serve la storia.

E rileggendo tre giorni dopo le carte di questo convulso giovedì 22 gennaio 2015 mi è sembrato di sentire il sapore di una storia talmente lontana da noi da risultare tremendamente attuale. Una storia del 1950.

Ma ve la racconto domani.

(1/segue)

Leggi la seconda e ultima puntata

 

L’ottimismo della volontà: l’unione politica di Supermario

Mentre lucida il suo bazooka, pronto a riporlo se del caso, il presidente della Bce, Mario Draghi, fa sfoggio del suo migliore ottimismo della volontà circa gli esiti della guerra alla deflazione che la banca centrale europea ha iniziato ormai da mesi.

I mercati attendono il prossimo 22 gennaio, quando il consiglio della Bce annuncerà i suoi prossimi passi operativi, come il D-day del quantitative easing in salsa europea, pur consapevoli che quanto farà la banca servirà al più a dare una scossa, ma non sarà certo risolutivo.

Ma il punto non è tanto sapere se e quanti titoli pubblici la Bce comprerà sul mercato primario, opzione peraltro controversa e invisa ai paesi nordeuropei. La questione saliente è squisitamente politica. In gioco non c’è soltanto un pacchetto di miliardi che la Bce, magari per il tramite delle banche centrali nazionali, inietterà sul mercato. Ciò di cui discute è l’assetto dell’unione monetaria, la sua precisa costituente.

A tal proposito il nostro Supermario ha le idee chiarissime e chiunque abbia letto i suoi tanti interventi negli ultimi anni lo sa bene.

Ai più distratti vale la pena segnalarne uno che Draghi ha rilasciato lo scorso 2 gennaio nell’ambito del Projcet Syndicate, dal titolo eloquente: “Stability and prosperity in Monetary Union”.

Un paio di paginette appena, ma pregne, come si dice. Già dall’inizio.

“C’è un comune malinteso sul fatto che l’euro area sia un’unione monetaria senza un’unione politica – osserva – . Ma questo riflette un profondo fraintendimento su ciò che un’unione monetaria sia. Un’unione monetaria è possibile solo in virtù di una sostanziale integrazione già acquisita fra i paesi europei, e condividere una moneta unica approfondisce questa integrazione”.

Il punto di vista, insomma, è esattamente l’opposto di quello contrabbandato in questi anni da tanta stampa. L’unione monetaria è stata possibile solo perché c’era già una sostanziale unità d’intenti sull’unione politica.

D’altronde chi frequenti la storia europea questo lo sapeva già. Guardando in casa nostra, basta ricordare un celebre saggio di Luigi Einaudi, intitolato “Per una federazione economica europea”, dove già si delineava la necessità di una moneta comune, manifestandosi con ciò la volontà di superare i vecchi stati nazionali, delegando la sovranità economica e militare a un’entità sovranazionale.  Ricordo a tal proposito il fallimento, determinato dai francesi, della Comunità europea di difesa del 1953, che avrebbe dato sostanza a questa visione assai prima dell’euro.

Il tema, quindi, non è tanto quello del più Europa, come incita la pubblicista mainstream, ma quello della presa d’atto che il più Europa c’è già. Manca solo di essere statuito.

A tal proposito Draghi ha gioco facile a ricordare che gli osservatori hanno sottostimato l’investimento politico che l’Europa ha fatto sulla moneta unica, segnale evidente dell’intento, che data ormai più di sessant’anni, di arrivare a una sostanziale unione politica,passando magari per succedanei di un bilancio fiscale unico.

Ciò non vuol dire che i giochi siano fatti. Lo stesso Draghi riconosce che “l’unione monetaria è ancora incompleta”. E all’uopo ricorda la lettera dei quattro presidenti che un paio di anni fa le principali autorità europee, compreso lui, rilasciarono all’opinione pubblica per illustrare il percorso di integrazione dell’Unione, rispetto al quale “importanti progressi sono stati fatti”.

Ma cosa significa esattamente unione incompleta? La risposta è molto pragmatica: “Significa disporre di condizioni grazie alle quali i paesi membri sono più stabili e prosperi di quanto non sarebbero se fossero fuori dall’Unione”. Risposta ovvia, ma incompleta a sua volta. La domanda è come creare queste condizioni.

“In altre unioni politiche – sottolinea Draghi – la coesione è mantenuta attraverso una forte identità comune, ma spesso anche tramite trasferimenti fiscali permanenti dalle regioni ricche a quelle più povere. Nell’euro area questi trasferimenti non sono previsti. Questo significa che abbiamo bisogno di un approccio differente per creare le condizioni che assicurino che ogni paese tragga vantaggio dall’Unione”.

Ciò ci permette di capire quale sia, nella visione di Draghi, la via europea all’Unione politica. Il primo passo è che le regole europee devono mettere ogni paese nella condizione di prosperare autonomamente: “Tutti i paesi membri devono essere in grado di sfruttare i vantaggi comparativi all’interno del mercato unico, attrarre capitali e generare posti di lavoro. E hanno bisogno di avere sufficiente flessibilità per rispondere rapidamente a shock a breve termine. Questo deriva dall’adozione di riforme strutturali che stimolino la concorrenza, riducano la burocrazia superflua, e rendano i mercati del lavoro più flessibili”.

Le riforme, dunque.

Il problema è che finora la decisione di adottare o meno tali riforme è stata “largamente una prerogativa nazionale”, mentre “in un’Unione sono un chiaro interesse comune”. Come dire: se l’Italia non fa le riforme, che sono anche interesse della Germania, l’entità sovranazionale dovrebbe disporre degli strumenti per “costringere” l’Italia a farle. Ciò significa “passare da un coordinamento a un processo decisionale comune, dalle regole alle istituzioni”.

La seconda implicazione dell’assenza di trasferimenti fiscali è che “i paesi devono investire di più in altri meccanismi per condividere il costo degli shock”. “Anche nelle economie più flessibili – sottolinea – gli aggiustamenti interni saranno sempre più lenti di quanto sarebbero se i paesi avessero la libertà di disporre del loro tasso di cambio”. Quindi? La soluzione è creare un meccanismo di condivisione del rischio “per evitare che le recessioni lascino cicatrici permanenti e rafforzino le divergenze economiche”.

La strada indicata per sviluppare meccanismi di risk-sharing è quella di approfondire l’integrazione finanziaria: “Meno condivisione pubblica del rischio vogliamo, più serve condivisione privata del rischio”. Ed ecco spiegata la logica dell’unione bancaria e degli altri profondi quanto poco osservati cambiamenti intrapresi dall’infrastruttura finanziaria europea. Condividere il rischio privato, infatti, significa responsabilizzare tutte le banche, ma anche i mercati dei capitali, per arrivare a una rapida unione finanziaria.

E ciò malgrado la variabile fiscale riveste e rivestirà sempre un’importanza vitale. Uno shock fiscale in un paese ha conseguenza chiare su tutti gli altri, quindi “è fondamentale che le politiche fiscali nazionali siano in grado di interpretare un ruolo di stabilizzazione”. E questo spiega i vari fiscal compact che affliggono le nostre contabilità pubbliche.

Ma c’è un caveat: “Per consentire alle  fiscalità nazionali di funzionare, un governo deve potersi finanziare a un costo sostenibile in periodi di stress. Un forte framework fiscale è indispensabile, ma l’esperienza della crisi suggerisce che in tempi di tensione estrema anche un paese con una posizione fiscale soddisfacente può essere soggetto a contagio”. E questo ci riporta alla riunione del 22 gennaio prossimo, quando il principio teorico dovrebbe tramutarsi in pratica, come anche ha ribadito in un’intervista all’Irish Time Benoit Couré, componente del direttorio Bce, sottolineando che perché tale politica funzioni  “deve essere grande”.

Per questo serve l’unione economica, che ristabilisce fiducia nei momenti di crisi: “Con l’impegno dei governi a attuare le riforme strutturali, l’unione economica rafforza la credibilità circa la capacità dei paesi dell’unione di crescere senza fare debiti”.

Sicché, “per completare l’unione monetaria dobbiamo approfondire ulteriormente la nostra unione politica: definire i diritti e doveri in un ordine istituzionale rinnovato”. E state pur certi che la Bce farà la sua parte, nella costruzione della nuova costituzione materiale dell’eurozona, visto che quella formale è stata bocciata (sempre dai francesi). Cominciando proprio dal suo personalissimo QE.

Ma attenzione: approfondire ulteriormente l’Unione politica. Non cominciare a farla.

Per il semplice fatto che c’è già.

(2/segue)

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Il mattone sopravvalutato delle banche italiane

Sempre perché è utile capire l’aria che tira, ho letto con grande curiosità l’ultimo rapporto sulla stabilità finanziaria della Banca d’Italia che, com’era prevedibile, ha dedicato un lungo approfondimento alla questione dell’asset quality review, con relativi stress test, svolti dalla Bce e pubblicati alla fine del mese scorso.

Le cronache si sono ampiamente dilungate sulle manchevolezze di capitale di alcune banche e il market toast seguito agli stress test che ha colpito, tanto per dire, Mps, ha fatto il resto. Poi dai primi di novembre la Bce ha assunto ufficialmente il suo ruolo di supervisore e l’intera faccenda è finita nelle pieghe delle cronache, travolta dalle preoccupazioni del combinato disposto crescita bassa e disinflazione che ritma la nostra attualità.

Senonché, curiosando fra i recessi dell’imponente valutazione svolta dalla Bce sui bilanci bancari dell’eurozona, altre cose emergono, purtroppo oscurate dal dibattito pubblico.

Una in particolare ha catturato la mia attenzione. Ossia che la valutazione della Bce ha riguardato anche il terzo livello dei bilanci bancari, quello che, come si addice a qualunque terzo livello che si rispetti, è alquanto opaco.

Qui sono annidati degli attivi la cui valutazione è alquanto aleatoria, per non dire discrezionale. Vi campeggiano, ad esempio, le quotazioni di bilancio dei patrimoni immobiliari che le banche custodiscono assai gelosamente. E le italiane in particolare, visto che una quota robusta dei loro attivi sono gli immobili messi a garanzia dei prestiti che hanno concesso alle famiglie e alle imprese per i mutui per acquisto immobili, oltre agli immobili di proprietà.

Per darvi un’idea di quanto pesino, basti qui ricordare che l’esposizione verso le famiglie di mutui bancari supera i 338 miliardi di euro.

La Bce per stimare quanto valgano veramente gli immobili in pancia alle banche ha esaminato un campione di 8.000 immobili situati in Italia e all’estero per un controvalore di 33 miliardi di euro. La valutazione, che partiva dai valori di bilancio, è stata affidata a periti indipendenti.

Costoro sono arrivati alla conclusione che le stime del valore delle garanzie immobiliari delle banche italiane sono sopravvalutate dagli istituti per il 10,1%, che è di sicuro una bella cifra, anche se inferiore al 13% rilevato per l’intero campione.

Bankitalia, nel suo commento, spiega come tale differenza sia da attribuirsi sostanzialmente al ritardo col quale le banche aggiornano le valutazioni dei loro bilanci, e quindi non tengono conto del calo dei prezzi degli immobili intervenuti nel frattempo.

Sarà sicuramente così. Ma rimane il fatto che anche il 10,1% stimato è una media. Si va da un picco di sopravvalutazione del 17% per un quarto degli immobili a zero per l’ultimo quarto, con un valore mediano di circa il 6%.

In ogni caso, un aggiustamento dei valori immobiliari che li adegui ai valori correnti, ossia alle stime dei periti, implicherebbe un dimagrimento relativo dei bilanci. Il che certo non è un buon viatico per le nostre banche.

Tale circostanza peraltro interviene in un momento in cui il mercato immobiliare è ancora assai fragile.

La rilevazione svolta da Bankitalia mostra che i prezzi sono in calo praticamente dal 2007, con la curva dei prezzi che sprofonda fra il 2010 e il 2011, proseguendo il suo andamento anche fra il 2013 e il 2014.

Per darvi un’idea dello stato dell’arte, basta fare il raffronto dei prezzi fra i principali paesi dell’eurozona a partire dal 2000.

Fatto 100 l’indice dei prezzi nel 2000, l’Italia oggi mostra un livello di prezzi vicino a 140, allineato con la media della zona euro, che però evidenzia profonde differenza al suo interno. Nel momento del picco, il nostro paese aveva superato 160, di poco superiore alla media euro.

Da allora il mercato è molto cambiato. La Germania, dove la curva dei prezzi è rimasta schiacciata a 100 fino al 2010 ora si avvicina verso 120, ponendosi poco sopra l’Irlanda, che aveva toccato 200 nel 2007, e appena sotto i Paesi Bassi, che avevano raggiunto un picco di circa 150.

La Spagna, che aveva toccato un picco di 240, come il Regno Unito, ora quota circa 150 mentre in Gran Bretagna i prezzi, dopo esser calati fino a circa 180 ora svettano verso i 220.

In Belgio i prezzi hanno risentito poco della crisi, e ora si trovano al livello di quelli inglesi insieme con quelli francesi, che, nel 2011, hanno addirittura superato il picco del 2007.

Ciò vuole dire che nella zona euro c’è un gruppo di paesi dove le quotazioni sono aumentate dalla crisi in poi, altri dove sono diminuite parecchio e altri meno, fra cui, appunto c’è il nostro paese.

Tale frammentazione, l’ennesima dell’eurozona si inserisce in un contesto di crescita economica incerta e di inflazione declinante, combinazione pericolosissima per la stabilità finanziaria. Un correzione che dovesse partire dai paesi dove il mattone tira ci metterebbe un attimo a trasferirsi agli altri.

A quel punto i bilanci delle banche italiane saranno costretti a fare un esercizio di verità. Dovranno svalutare il mattone. E se le banche “ufficializzano” il calo dei prezzi, cosa succederà al mercato nel suo insieme?

Quota anno 2000 (dove peraltro il Pil è tornato di recente) è davvero dietro l’angolo.

I dolori del giovane Draghi

E così finalmente capisco, terminando la lettura del lungo intervento di Mario Draghi al Frankfurt European Banking Congress del 21 novembre, quale sia la ragione del tormento della Banca centrale europea in questo turbinante autunno: l’adolescenza.

La Bce, e con lei il suo “giovane” presidente, è entrata ormai nel suo sedicesimo anno. Età terribile, lo ricorderete. Quel tempo in cui lo Sturm un Drang della giovinezza cozza con la freddezza matura del calcolo adulto, che inizia a germinare nel cuore immaturo, generando lacerazioni e conflitti, delusioni e impeti suicidi. E poiché conosciamo tutti I dolori del giovane Werther di Goethe, sapete già a cosa mi riferisco.

Rileggo perciò l’intervento con questa postilla mentale e tutto mi si semplifica. Il dolori del giovane Draghi son quelli di un organismo ancora infante che si vuole adulto, costretto a fare i conti con un contesto in cui più maturi e attempati interlocutori, e segnatamente la Fed e la BoJ, dispongono di sé stessi con un’autorità e una sicumera che la Bce non ha, per ragioni di trattati, né può avere, dovendo persino confrontarsi con un contesto – l’eurozona – che sembra fatto apposta per incoraggiare la fuga romantica verso il sogno, piuttosto che verso l’azione pragmatica del ruvido adulto.

Ma sarebbe ingeneroso ridurre tutto alla pubertà, e non notare l’impeto e l’impegno, anche questi assai romantici, con i quali Draghi assicura seguirà le orme dei suoi interlocutori più maturi. Il giovane Draghi, a differenza del giovane Werther, vuol diventare grande somigliando sempre più ai grandi. Quindi vuol crescere. Ciò non vuol dire che ci riesca.

Il fatto poi che l’ingresso nell’età adulta, che nel caso della Bce implica fare un largo uso del proprio bilancio per replicare quanto hanno fatto la Fed, la BoE e la BoJ, non garantisca alcun risultato certo, come abbiamo visto osservando il caso americano e quello giapponese, è, se volete, l’aspetto tragico di questa vicenda. La giovane Bce indosserà l’abito degli adulti, ma solo per scoprire che il mondo, ossia l’economia sostanziale, se ne cura poco.

Appartiene, tra l’altro, ai dolori del giovane Draghi, questa consapevolezza. E me ne accorgo quando ripete, ormai inesausto, che la politica monetaria, pure se somigliasse sempre più a quella della Fed, poco potrebbe nel difficile contrasto contro le pigrizie deflazionarie del nostro tempo, se i governi non saranno capaci di creare ambienti favorevoli agli investimenti, visto che gran parte della tendenza deflazionaria arriva dal lato della domanda.

E mi raffiguro, mentre lo dice, il suo tormento a declinare il plurale – i governi – invidiando ai suoi consimili il notevole privilegio, a lui non concesso, di doversela vedere con un governo solo. Che già difficile.

Ma questo è solo il primo dei molti dolori del giovane Draghi.

Quello più amaro che confessa con maschia determinazione è l’inflazione. I maledetti prezzi che declinano, tenendosi ben lontani dal target del 2%, o poco giù di lì, che poi è l’unico compito a casa che i governi europei hanno messo per iscritto alla Bce. E mi figuro il giovane Draghi, stretto in un angolo, mentre i governi, con una voce sola anche se poliglotta gli dicono: una cosa ti ho detto di fare e neanche ci riesci, evocando paterni rimproveri che tutti noi, intorno ai sedici anni, abbiamo patito.

“La situazione dell’inflazione nell’euro area è diventata particolarmente sfidante”, risponde il giovane Draghi, non certo per giustificarsi quanto per spiegare.

Ma cosa volete gliene importi a uno qualunque dei governi europei, indebitati come sono, se i prezzi dei beni energetici sono crollati e la domanda è pigra, quando il rendimento implicito delle obbligazioni pubbliche è diventato più caro di tre anni fa? E cosa volete che gliene importi se gli spread sono calati, come Draghi ricorda, se poi i tassi reali sono più alti di prima?

L’inflazione inoltre, ricorda Draghi, proprio perché influenza i tassi reali, ha un impatto sugli investimenti, per i quali usualmente ci si indebita. Quindi non solo aumenta il peso dei debiti esistenti, per governi, imprese e cittadini, ma il timore che aumentino i tassi reali, in un contesto di prezzi declinanti, scoraggia pure gli investimenti. Sarà per questo che dice di vedere assai improbabile una allegra ripresa nel futuro prossimo.

Per uscire dall’angolo di questa accusa devastante, che mette in dubbio il senso stesso del suo stare al mondo – quanto sarebbe credibile la Bce se non riuscisse a rispettare il suo target di inflazione? – il giovane Draghi non può che alzare la voce. “Faremo tutto ciò che è necessario per rispettare il target di inflazione”, dice, replicando il whatever it takes che l’ha reso celebre, ai tempi della crisi dell’euro, fra i commentatori economici, sperando probabilmente di ottenere lo stesso effetto.

E fare tutto ciò che sarà necessario ha significato innanzitutto tenere i tassi a zero, se non negativi.

Che scorno però: portati a zero i tassi, osserva sconsolato, l’inflazione è rimasta bassa. E quindi via, con altre misure “senza precedenti, ma lontane dall’essere non ortodosse”. Il richiamo all’ortodossia l’ho trovato particolarmente commovente.

Il primo di questi atti “senza precedenti” è stato elaborare una forward guidance secondo la quale i tassi rimarranno bassi a lungo, con ciò volendosi orientare al ribasso le aspettative della curva dei tassi anche per le scadenze più lontane. E poi, ovviamente, c’è l’acquisto di asset che un anno fa, parlando ad Amsterdam, il giovane Draghi aveva già annunciato.

“Cambieremo la dimensione e la composizione del nostro bilancio”, dice oggi, puntando come riferimento il livello di fine 2012, quando il bilancio era circa il 10-20% più capiente di quanto non sia adesso. E mentre lo dice immagino tema qualcuno gli chieda, come mi chiedo io, perché mai da allora la Bce ha sterilizzato il denaro anziché farlo fertilizzare nella società e oggi dice di voler tornare indietro di due anni? Non somiglia questo esitare alla strategia di un perditempo?

Ma ricordo che è tipico dell’adolescenza il procedere ondivago, rabbioso e incerto insieme. L’esser timidi e rodomonti.

Soprattutto è tipico dell’adolescenza nutrire grandi aspettative. “Ci aspettiamo che gli acquisti di asset impattino sull’inflazione e il prodotto”, spiega Draghi. Ma l’unica cosa che a me viene in mente, mentre lo leggo, è la battuta di Richard W.Fisher, presidente della Fed di Dallas, che a proposito del terzo round del Quantitative easing americano disse: “C’è stato un positivo effetto ricchezza – dice – nel senso che i ricchi hanno subito un effetto positivo“. E mi riesce difficile credere che Draghi non l’abbia letta.

In ogni caso, l’aspetto più importante è quello psicologico: il signalling effect, come lo chiama Draghi. Ossia il segnale che “noi useremo tutti i mezzi a nostra disposizione, nei limiti del mandato, per riportare l’inflazione verso il suo obiettivo”.

Siamo nel difficile campo della psicologia, perciò, che poi è l’ingrediente magico che le banche centrali, come apprendiste della magia, credono di poter manipolare a loro piacimento semplicemente alzando un sopracciglio.

Draghi prende proprio l’esempio dei suoi fratelli maggiori, la Fed e la BoJ, dove i grandi acquisti di asset hanno ancorato al rialzo, dice, le aspettative di inflazione provocando la spinta del prodotto e dell’inflazione, malgrado i tassi di interesse siano rimasti bassi, generando persino una notevole svalutazione che male non fa di questi tempi. Ma questo è solo un modo di raccontare la storia.

Il secondo dolore, che in qualche modo contiene il primo, è la stolidità dei governi che rimproverano lui per l’inflazione bassa ma trascurano di mettere ordine in casa propria.

Draghi giudica con la durezza dell’adolescente che non ne conosce le difficoltà il mondo inefficiente degli adulti, ossia i vecchi stati nazionali impregnati di debiti che rappresentano promesse impossibili da mantenere. E tuttavia tanto è forte il suo tormento presente, che invita l’euro area a fare una politica fiscale espansiva, pur nei vincoli pattuiti, capace vale a dire di far da contraltare a quella della Bce.

Il terzo dolore, questo sì nascosto, deriva dal timore che tutto ciò non basti.