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La regola non scritta della (in)disciplina europea
Viviamo, noi europei, in uno spicchio del mondo fra i più regolamentati, che esibisce ogni forma di controllo sulle nostre contabilità, private ma soprattutto pubbliche, per tacere di tutto il resto. Eppure siamo capaci, con grande dispendio di birignao, di farcene un baffo di così tante normative e anzi minacciamo ogni giorno di volerne fare a meno, in nome di principi ritenuti altrettanto sacrosanti di quelli che tali regole, da tutti approvate, hanno motivato.
Quasi che le regole soddisfino un appetito uguale e contrario a quello che ci spinge a metterle in discussione. O forse semplice conseguenza della costruzione europea, cervellotico esperimento giuridico, costretto a dissimulare il conflitto strisciante fra il senso politico del voler stare insieme con quello impolitico, e altrettanto potente, di fare ognuno quel che gli pare.
Sicché il nostro europeizzarci somiglia a una contraddanza, un passo avanti e uno indietro, ogni volta ritmata da nuove regole che portano con loro il corollario che un chiunque le metterà in discussione, qualora fosse necessario. Sarà per questo che la costruzione europea riscuote così poca fiducia, dentro e fuori di noi.
Basta guardare alla caracollante trattativa fra l’Ue e la Grecia per scorgere quanto sia ampio lo spread, questo sì, fra il nostro dire e il nostro fare. Quasi che la vera e autentica regola, seppure non scritta, sia quella dell’indisciplina, che fa da contraltare all’armamentario di commi e codicilli partoriti dai vari fiscal compact.
Sicché ha buon gioco la Bce a ricordarci, come ha fatto nel suo ultimo bollettino, quanto avremmo dovuto fare e non abbiamo fatto, avendone persino titolarità, essendo costei la Gran Dispensatrice di buonumore, ossia di risorse finanziarie, nel nostro tempo economicizzato.
L’occasione per tramutarsi in maestrina la procura alla banca centrale la disastrosa applicazione pratica delle tanto rigorose quanto teoriche procedure per gli squilibri macroeconomici che, introdotte nel 2011, rappresentano, spiega la Bce “un elemento fondamentale del quadro per la governance rafforzata dell’Ue”. Un modo gentile per dire che tali procedure rappresentano in nuce l’elemento fondante della via europea all’Unione fiscale, che tutti sanno tanto necessaria quanto improponibile.
La procedura ha lo scopo di “evitare l’emergere di squilibri macroeconomici dannosi e di correggere tali squilibri
laddove divengano eccessivi”. Quindi in teoria dovrebbe essere la benvenuta.
Sempre in teoria “dopo un primo esame basato su una serie di indicatori, la Commissione europea svolge analisi approfondite per un determinato gruppo di paesi al fine di valutare la gravità degli squilibri segnalati dagli indicatori”.
“Qualora si concluda – osserva la Bce – che sono effettivamente presenti squilibri, lo Stato membro interessato riceve raccomandazioni sulle politiche da parte del Consiglio dell’UE basate su una raccomandazione della Commissione (il cosiddetto braccio preventivo). Per contro, qualora gli squilibri siano ritenuti eccessivi dovrebbe essere avviata la procedura per gli squilibri eccessivo su raccomandazione della Commissione”.
“Nell’ambito di questo meccanismo correttivo, il paese in questione è tenuto a presentare un piano di azione in cui delinea le misure ufficiali di contrasto agli squilibri eccessivi, che devono essere approvate dal Consiglio. In caso di reiterata mancata presentazione di un piano adeguato o di inosservanza di un piano approvato da parte di un paese appartenente all’area dell’euro, il Consiglio può imporre sanzioni finanziarie al paese in questione”.
La teoria ha sperimentato una prima forma di applicazione pratica nel corso dell’esame approfondito svolto quest’anno che ha individuato cinque paesi in cui si riscontrano squilibri eccessivi. In particolare Bulgaria, Francia, Croazia, Italia e Portogallo. Al tempo stesso “la Commissione ha deciso di intensificare la procedura per
Germania (dal livello 2 al livello 3), Francia (dal livello 4 al livello 5) e, in modo marcato, Bulgaria (dal livello 2 al livello 5) e di allentare la procedura per la Slovenia (dal livello 5 al livello 4). L’Italia e la Croazia sono nella stessa categoria dal 2014. Quest’anno Romania (al livello 2) e Portogallo (al livello 5) sono entrati nella procedura in seguito alla conclusione dei loro programmi di aggiustamento macroeconomico”.
A fronte di questo mezzo disastro, “la Commissione al momento non propone di attivare la procedura per gli squilibri eccessivi”, nota sconsolata la Bce, evitando perciò di attivare le regole correttive previste dalla procedura. Nel caso di Croazia e Francia, tuttavia, la Commissione ha fatto capire di essere pronta ad attivare la procedura di squilibrio eccessivo a maggio di quest’anno, sempre che i governi non si impegnino ad attuare per quella data “riforme strutturali risolutive”.
Circostanza assai probabile, visto che finora non sono mancate le assicurazioni dei governi a fare tutto ciò che si reputava necessario, salvo poi chiedere deroghe. E anche qui, senza bisogno di guardare in casa nostra, basta ricordare sempre il caso greco.
In generale, nota la Bce, “le esperienze passate hanno mostrato che l’annuncio di una riforma molto spesso non ne implica l’attuazione, come conferma la valutazione della Commissione sull’applicazione delle raccomandazioni specifiche per paese, e questo desta preoccupazione riguardo ai progressi compiuti”.
Peraltro, “il risultato dell’esame approfondito del 2015 indica che la gravità degli squilibri sta aumentando in diversi paesi”, nota la Bce, che definisce “preoccupante” l’andazzo che ormai si sta consolidando nei singoli paesi dell’area.
Aldilà della teoria, insomma, la pratica mostra che “ogni anno un numero crescente di paesi mostra squilibri eccessivi”. Erano zero nel 2012, e adesso sono cinque. E ciò malgrado “la procedura per gli squilibri eccessivi non è mai stata chiamata in causa dalla Commissione. Ciò solleva qualche interrogativo sull’applicazione della PSM e
sull’efficacia del suo meccanismo preventivo”.
Se l’esame si limita ai paesi dell’area euro, “la Commissione osserva che nessuno di essi ha pienamente applicato alcuna delle raccomandazioni del 2014”. E in particolare, sottolinea la Bce, tra i paesi che abbisognavano di un’azione risoluta, la Commissione ha registrato che “Spagna, Irlanda e Italia hanno compiuto “pochi” progressi e Francia progressi “limitati” su gran parte delle raccomandazioni specifiche per paese”.
A conclusione la Bce evidenzia che “è importante ricorrere in modo completo ed efficace agli strumenti della PSM (procedura per gli squilibri macroeconomici, ndr), comprese le misure del suo meccanismo correttivo, al fine di ridurre i rischi potenziali per il regolare funzionamento dell’UEM”.
Sono sicuro che i politici europei, nazionali e sovranazionali, faranno tesoro di tale raccomandazione.
Lo scenario cambia poco se andiamo a vedere, come fa sempre la Bce, cosa ne sia stato delle procedure previste dal patto di stabilità e di crescita.
La Commissione, nel 2014, ha identificato un gruppo di sette paesi – Belgio, Italia, Malta e Austria, Francia, Spagna e Portogallo – che a vario titolo sono a rischio di non conformità. Nella riunione dell’Eurogruppo del dicembre scorso questi paesi si sono impegnati come fanno sempre a mettersi in regola. E poi a gennaio è stata la stessa Commissione Ue a comunicare di aver concesso si “sfruttare al meglio la flessibilità consentita dalle norme vigenti del patto di stabilità”.
L’evocazione della flessibilità richiama inevitabilmente quella della discrezionalità, ovviamente.
E così siamo arrivati al marzo scorso, quando il consiglio europeo ha approvato le sue valutazioni sui documenti di bilancio presentati dagli stati, mostrando come “ad eccezione del Belgio, nessuno dei paesi considerati a rischio di mancato rispetto del PSC ha adottato misure sufficienti a correggere gli squilibri individuati dall’Eurogruppo lo scorso dicembre”.
Ne sono seguite le solite raccomandazioni, accompagnate dalle consuete preoccupazioni, visto che pressoché nessuno dei documenti presentati dai governi è servito a convincere la commissione che le violazioni al PSC rientreranno tanto presto.
Peraltro fra il 2011 e il 2013 sono entrati in vigore anche le nuove regole del six pack e del two pack, che dovrebbero, sempre in teoria, aumentare l’automatismo delle procedure per sanzionare o far rientrare le non conformità. Ma ciò non vuole affatto che ciò succeda.
Perciò la Bce ha ancora una volta sottolineato che “è importante che gli strumenti nell’assetto di governance rafforzato siano effettivamente applicati, in modo coerente nel tempo e nei diversi paesi”, stante il ruolo di “ancora della fiducia” che il PSC e i suoi derivati svolgono nel sistema europeo.
Tutto questo in teoria.
In pratica, meglio affidarsi al QE.
Il commercio europeo dopo la crisi
Per farvela semplice, la crisi non ha giovato al commercio europeo. Malgrado l’Ue conservi ancora la maggior posizione relativa, quanto alla sua quota di mercato, la sua posizione si è deteriorata molto più che negli Stati Uniti, essendo stato eroso parte del suo vantaggio competitivo sui beni ad alto know how. E poi c’è la Cina, che ha fatto la parte del leone nel commercio globale degli ultimi vent’anni, e ancora sembra attrezzata per continuare a sottrarre quote di mercato alle economie avanzate.
Mi convinco perciò che gli europei dovranno lottare con le unghie e con i denti per restare nel grande gioco, e mi solleva giusto l’osservazione, che leggo nell’articolo diffuso dalla Commissione Ue (“Has the EU’s leading position in global trade changed since the crisis?”) che c’è qualche ragione d’ottimismo, motivata dalla circostanza che nel 2013, per la prima volta dalla crisi, la zona europea ha riguadagnato spazi di mercato. O forse, dato il contesto internazionale, sarebbe più giusto osservare che li hanno perduti gli altri.
L’analisi tuttavia è articolata e vale la pena leggere la dozzina scarsa di pagine che la illustrano.
L’autore osserva che alcuni fattori hanno modificato sostanzialmente il pattern degli scambi internazionali. Alcuni di origine istituzionali: l’arenarsi del Doha round guidato da WTO, che ha provocato la proliferazione di una serie di accordi bilaterali, ma soprattutto l’avvio del negoziato Ue-Usa, che coinvolge anche Canada e Giappone, per il Transpacific Trade and Investment Partnership (TTIP).
Ma è opportuno ricordare anche il Transpacific Partnership Agreement (TPP), le cui negoziazioni sono inziate nel 2005 e che al 2014 ha visto partecipare ai tavoli per la liberalizzazione di commercio e investimenti dodici paesi, segnatamente l’Australia, il Brunei, il Canada, il Cile, il Giappone, la Malaysia, il Messico, la Nuova Zelanda, il Perù, Singapore, gli Usa e il Vietnam.
Da questa rapida illustrazione emerge con chiarezza che la globalizzazione, seppure con la lentezza tipica del suo burocratico dispiegarsi, procede sul molti tavoli pure se il WTO sembra essere rimasto sullo sfondo.
Altri sviluppi sono arrivati direttamente dai mercati. E fra questi ovviamente primeggia il furioso affermarsi delle economie emergenti, Cina in testa, che hanno segnato la fisionomia dei commerci internazionali dell’ultimo ventennio, suscitando grandi speranze e altrettanto gradi timori, specie adesso che i loro prodotti, tenuti in vita artificialmente col credito facile, iniziano a rallentare.
Rimane il fatto però che, secondo le stime del WTO, la quota degli emergenti nell’output globale è passata dal 23% al 40% fra il 2000 e il 2012, e la loro quota sul commercio globale è passata dal 33 al 48%, senza considerare il fatto che sono diventate grandi calamite per gli investimenti diretti globali (FDI). Secondo i dati UNCTAD del 2014 il 54% degli afflussi totale di FDI sono andati a queste economie. Tanto che dieci paesi dei 20 al top degli afflussi di FDI sono emergenti.
Una tabella, costruita su dati WTO, esemplifica bene la situazione al 2013. L’Ue a 28, escludendo i commerci intra area, aveva una quota del 15,3% delle esportazioni globali di beni, primo esportatore globale, appena un filo sotto la Cina, con il 14,7%.
Interessante notare come la classifica speculare, ossia quella degli importatori di beni, veda primeggiare gli Stati Uniti, con il 15,4% e poi l’Ue28 con il 14,8%, seguita dalla Cine con il 12,9%. Il Giappone, con il 4,9% di esportazioni e il 5,5% di importazioni, si classifica al quarto posto. La Cina, quindi, non è solo un forte esportatore, ma anche un notevole importatore, e ciò spiega perché il suo conto correnti delle merci sia diventato via via più sottile col passare del tempo, somigliando in ciò al Giappone.
Se dai beni passiamo ai servizi, lo scenario cambia un poco. l’Ue28 è sempre la prima esportatrice, con il 25,2% di quota di mercato, ma è anche la prima importatrice, con il 19,7% di quota globale. Gli Usa stanno al secondo posto, sia dell’export che dell’import, rispettivamente con il 18,7% e il 12,7, e la Cina al terzo, sia dell’export che dell’import, con un risicato 5,8% di export e un 9,7% di import.
Quindi è sulla partita dei servizi che il blocco occidentale avanza compatto, mostrandosi quindi come il suo autentico punto di forza. Non a caso l’articolo della Commissione Ue parla di “forte vantaggio sui suoi competitors dell’Ue nei servizi commerciali”.
E tuttavia le cose andavano meglio prima. Un grafico, che mostra la quota aggregata del commercio europeo prima della crisi, lo colloca intorno al 20% fino al 2009, quando si inabissa fino a sfiorare il 15%. Da allora l’andamento è stato piatto, salvo appunto la lieve ripresa nel 2013.
Gli Usa hanno vissuto una dinamica molto simile, ma diversi anni prima. Dal 15% di quota globale che ancora detenevano nel 2001, si sono trovati al 10% nel 2004, quindi dopo l’ingresso ufficiale della Cina nel Grande gioco, che infatti stava sotto il 5% nel ’99 e aveva già raggiunto il 10% nel 2007.
Altri dati mostrano con chiarezza “il ruolo prominente dei paesi emergenti nel commercio europeo”. Un ruolo che prima era degli Usa. Ancora nel 1999 il 27% dei commerci extra Ue erano indirizzati verso di loro, a fronte del 14% del 2013. Al contrario il 5% di commerci verso la Cina del 1999 è arrivato al 12,5% nel 2013.
Questa sommaria illustrazione ci riporta al punto di partenza, ossia il contesto istituzionale. Se pare difficile che l’Ue28 possa recuperare la quota di commercio che aveva prima della crisi, bisogna chiedersi se, nello stipulare accordi, sarebbe ragionevole favorire i vecchi partner, ormai lontani, o quelli nuovi, che hanno pure il vantaggio di essere assetati di servizi in cui l’Ue eccelle.Insomma: America o Cina?
Peraltro lo studio nota come la Cina di recente abbi sviluppato vantaggi comparativi nella produzione intensiva di beni e sia diventata un driver globale nel settore ricerca e sviluppo.
In un momento in cui si torna a parlare di accordi commerciali la domanda se puntare sulla Cina o sulla America non mi pare oziosa.
Il problema è che l’Ue28 è solo un’espressione geografica.
Parte l’Unione del mercato dei capitali
E alla fine il momento è arrivato. Ormai da tempo l’Ue stava lavorando al progetto di Unione del mercato dei capitali, logica conseguenza dell’unione monetaria e di quella bancaria, nonché piena attuazione del Trattato di Roma del ’57.
Sapevamo già che il processo “istruttorio” era avanzato. Adesso sappiamo che si inizia a fare sul serio.
Pochi giorni fa, infatti, la Commissione Ue ha lanciato, insieme con il suo green paper dedicato alla materia, una consultazione pubblica su questa ennesima rivoluzione della nostra vita di europei, che come al solito finirà ignorata dalle grandi cronache e dai dibattiti finché non sarà stata portata a compimento.
La consultazione, che riguarda vari gruppi di cittadini, oltre che gli stati Ue, durerà tre mesi e l’esito verrà in qualche modo recepito nella piattaforma finale del documento che dovrebbe mettere le basi della nuova piattaforma giuridica che sosterrà l’Unione dei capitali.
Di tutto ciò, tuttavia, poco è filtrato sulle cronache. Ed è un vero peccato. Perché l’innovazione che si va a proporre sarà assolutamente sostanziale e cambierà la vita di ognuno di noi, pure se all’apparenza sembra molto lontana dalla nostra quotidianità.
La data di conclusione prevista del processo, quindi della creazione vera e proprio del mercato unico dei capitali è il 2019. E se vi sembra lontano nel tempo è solo perché avete dimenticato quanto ci abbiamo messo a realizzare l’Unione monetaria e quanto tempo è servito a realizzare l’Unione bancaria.
Ma tale orizzonte temporale significa anche un’altra cosa: è la dimostrazione pratica che l’impegno politico per aumentare l’integrazione europea non viene meno, ma anzi si intensifica, malgrado le varie crisi greche, i malpancismi tedeschi, le intemperie italofrancesi e tutte le variegatissime opinioni pubbliche euroscettiche che, a quanto pare, fanno tanto rumore per nulla. Parlano di euro, ma intanto stiamo andando verso l’unificazione del mercato dei bond.
Guardano al dito, ma non alla direzione.
“La libera circolazione dei capitali è stato uno dei principi fondamentali sui quali l’Ue è stata edificata – leggo nella premessa del libro verde -. a più di 50 anni fa dal Trattato di Roma dobbiamo cogliere questa opportunità, trasformando una visione in realtà”. Sempre perché l’eurotartaruga ha una memoria da elefante.
E se tutto ciò vi sembra astruso, come è sicuramente, è solo perché le banconote le tenete in tasca, mentre i bond, ammesso di poterne disporre, li custodisce un intermediario.
Ma in realtà le conseguenza dell’unificazione del mercato dei capitali sono diverse, sia a livello economico che finanziario.
Per farvela semplice riporto qui alcune dichiarazioni di principio che la Commissione Ue a messo sul suo sito per spiegare il contorno dell’operazione. Ma i lettori più attenti di questo blog ne sapranno già abbastanza.
In particolare, l’Unione del mercato dei capitali si propone di migliorare l’accesso al finanziamento di tutti i settori economici, dalle start up alle piccole e media imprese, fino ai progetti di investimento a lungo termine.
Poi la nuova Unione si propone di aumentare e diversificare le fonti di finanziamento, al fine esplicito di rafforzare il ruolo del mercato dei capitali rispetto alle banche quale fonte di approvvigionamento di credito per le imprese. Infine, rendere più efficiente il rapporto fra il mercato che finanzia e l’impresa che riceve il finanziamento, a prescindere dalla sua nazionalità.
Quest’ultima caratteristica presuppone che un bond emesso in Germania abbia lo stesso trattamento, giuridico e fiscale, di un bond emesso in Francia. E questo, almeno in teoria, implica necessariamente un coordinamento di alcune scelte di politica fiscale. Ossia un ottimo viatico per la prima prova generale di unione fiscale su una specifica materia, che a quanto pare sarà il modus operandi della tecnocrazia europea in assenza di modifiche dei trattati.
Chiunque abbia a cuore la tematica può seguire, per approfondire, un convegno che si terrà il prossimo 6 maggio a Bruxelles, o, meglio ancora, leggere il libro verde che la Commissione Ue ha messo a disposizione.
Poi non dite che non ne sapevate nulla.
La guerra fra poveri dei lavoratori spagnoli
Poiché gli spagnoli ci somigliano, almeno secondo la logica degli spread, che infatti viaggiano vicini, è profondamente istruttivo dedicare un po’ di tempo alla lettura di un breve studio che la Commissione europea ha dedicato al loro mercato del lavoro, la cui evoluzione nel tremendo primo decennio del XXI secolo è stata quantomeno esemplare.
Ricordiamo tutti quanto bruscamente la Spagna sia transitata dallo stato di grazia del miracolo economico, che ancora fino al 2007 poteva rivendicare, allo stato disgraziato del salvataggio bancario, resosi necessario non appena i grandi creditori degli spagnoli hanno richiamato i soldi in patria, replicandosi così per la Spagna il solito copione che ormai va in scena all’infinito nella nostra economia globalizzata e che la Spagna stessa interpreta con graziosa disinvoltura.
Qui però è interessante osservare un’altra peculiarità del sistema spagnolo, così simile a nostro, per dedurne come le vicende occorse ai lavoratori spagnoli possano, ceteribus paribus, diventare le nostre.
Il periodo fra il 1990 e il 2007, ci ricorda la Commissione, furono caratterizzati da una crescita senza precedenti dell’occupazione in Spagna. Si parla di circa sette milioni di posti di lavoro in più. Ciò malgrado, tuttavia, il mercato rimase parecchio disfunzionale, con i salari in sempre più evidente divaricazione in una dinamica che ha finito con l’erodere la competitività dell’economia spagnola, conducendola verso i noti problemi di debito privato e debito estero arrivati alle stelle.
Peraltro neanche al tempo del miracolo economico (a debito) gli spagnoli sono riusciti a mutare la struttura del loro mercato del lavoro: la disoccupazione strutturale rimase alta e la quota di lavoratori a tempo determinato sul totale pure.
Ciò spiega perché all’esplodere della crisi il mercato del lavoro abbia reagito così drammaticamente. Il crollo del settore della costruzioni, che così tanta parte aveva avuto nel miracolo spagnolo, ha provocato una massiccia distruzioni di posti di lavoro, circa 3,5 milioni stima la commissione, fra il 2008 e il 2013, ossia la metà di quanti se ne erano creati in diciotto anni. Sicché la disoccupazione è passata dal 10% a oltre il 25%, con la quota dei lavoratori a tempo determinato in calo dal 29 al 23%. Col perdurare della carestia, tuttavia i problemi si sono estesi anche ai lavoratori più garantiti, che hanno visto cominciare il declino delle retribuzioni.
E proprio l’andamento della correzione dei salari è il punto centrale del paper della Commissione. L’analisi, concentrata nel periodo 2008-13, ha concluso che mentre la perdita totale di occupazione sia stata superiore al 16%, i salari reali aggregati degli spagnoli sono diminuiti di circa il 4,5%.
Ma tale dato maschera profonde differenze. Non soltanto nell’entità delle riduzioni salariali, assai diversificate, ma anche nell’urto della disoccupazione, che ha colpito assai più i lavoratori più deboli e meno qualificati rispetto a quelli più protetti e più preparati.
Per farvela semplice, nella terribile guerra fra poveri che ha colpito i lavoratori spagnoli, a pagare il conto più salato sono stati quelli che già erano svantaggiati, e sulle spalle dei quali si è consumato gran parte della correzione. Un copione pure questo assai comune in questi ultimi anni, e non solo in Spagna.
I dati fotografano con chiarezza questa situazione. Non solo le retribuzioni media dei lavoratori a tempo determinato sono significativamente più basse di quelle a tempo determinato, ma sono scese assai di più nel periodo considerato.
Il grafico elaborato dalla Commisione ci dice che nel 2008, quindi agli albori della crisi, un lavoratore a tempo determinato guadagnava in media un po’ meno di 16 mila euro l’anno, a fronte degli oltre 24 mila di un lavoratore a tempo determinato.
Nel 2009 mentre i guadagni dei lavoratori a termine iniziavano a declinare, quelli dei lavoratori a tempo indeterminato crescevano, confermandosi tale andamento anche per il 2010. Solo dal 2011 i tempo indeterminato hanno visto invertire la tendenza, ma con un andamento assai meno ripido di quanto sia accaduto ai tempo determinato.
La conclusione è che nel 2013 mentre la media dei guadagni dei precari si avvicinava a 12 mila euro l’anno, quella dei garantiti scendeva intorno ai 23 mila. Tale diminuzione si riflette nel notevole crollo dei contratti a tempo determinato, diminuiti assai più rispetto a quelli a tempo indeterminato.
La conclusione della Commissione è perciò evidentemente logica: “L’aggiustamento delle retribuzioni sofferto dai lavoratori a tempo determinato è stato quasi il triplo di quello subito dai lavoratori a tempo indeterminato”. Un risultato “sorprendente”, osserva ancora, anche perché “si dovrebbe considerare la possibilità di rinegoziazione implicita nei contratti a tempo determinato”.
“Ciò suggerisce – sottolinea – che i lavoratori temporanei siano stati penalizzati due volte, essendo esposti a un rischio più elevato di licenziamento e soggetti a una più elevata diminuzione di retribuzione”.
Insomma: i lavoratori precari e meno qualificati sono crollati alla base della catena alimentare del mercato del lavoro.
Secondo la Commissione questo risultato supporta l’evidenza che un’elevata dualità nel mercato del lavoro “può condurre a un lento e inefficiente aggiustamento, che peraltro penalizza in maniera sproporzionata i lavoratori temporanei”.
La soluzione, manco a dirlo, è “una riforma del mercato del lavoro che riduca il gap fra i lavoratori temporanei e quelli a tempo indeterminato che faciliti la reattività dei salari anche fra i lavoratori a tempo indeterminato”.
Sembra di capire che ciò evochi un sano ritorno alle politiche salariali dei primi anni ’50.
Ma certo, la schiavitù funzionerebbe meglio.
Le banche spagnole ballano la samba
Il segreto di Pulcinella meglio custodito, ma in quanto tale noto a tutti, sulle banche spagnole è che sono ballerine. E non tanto perché sono state al centro di un salvataggio europeo, con alcune decine di miliardi di euro elargiti dal fondo Esm e ciò malgrado siano ancora piene di problemi. Ma perché conservano una pesante esposizione verso i paesi emergenti dell’America Latina, a cominciare dal Brasile.
Ballerine di samba, perciò. Ma anche amanti dei nachos, visto che dopo il Brasile nella classifica dei rischi esteri viene il Messico.
Le ultime statistiche consolidate rilasciate pochi giorni fa dalla Bis, relative all’ultimo trimestre 2013, totalizzano l’esposizione delle banche spagnole verso i paesi latino-caraibici a quota 488 miliardi di dollati, quasi un terzo del totale degli oltre 1.500 miliardi di esposizione estera.
Di questa montagna di denaro, il Brasile assorbiva 161 miliardi a fine 2013, in calo rispetto al picco di 2010 miliardi toccato nel 2011, e, a seguire il Messico, con altri 159 miliardi. A grande distanza segue il Cile, con circa 67 miliardi e poi il Perù con 22.
Ma poiché è il totale che fa la somma, come direbbe Totò, quello che risulta chiaro scrutando tali statistiche è che la Spagna, per evidenti ragioni storico-culturali, è pesantemente esposta verso un’area geografica che sta vivendo grandi turbolenze provocate dai timori degli irrigidimenti della politica monetaria americana.
Il dato interessante che si può osservare andando a ritroso è che tale esposizione è considerevolmente aumentata durante la crisi. Basta notare che nel 2007 (primo trimestre) superava di poco i 250 miliardi. E con l’avvento della crisi è aumentata. Le banche spagnole, insomma, hanno provato a lucrare rendimenti investendo sui paesi emergenti (come hanno fatto tutti in realtà) mentre all’interno sempre le stesse banche rischiavano il crack a causa della pesante esposizione al settore immobiliare, che ha condotto al salvataggio europeo.
Se andiamo ancora più indietro scopriamo che nel 2000 l’esposizione estera delle banche spagnoe verso quest’area era appena a 98 miliardi. E questo spiega di ogni altro commento cosa siano stati i primi dieci anni del XXI secolo.
La ricerca del rendimento, tuttavia, adesso rischia di far rientrare dalla finestra la crisi bancaria che, faticosamente, la Spagna ha per adesso scongiurato grazie ai soldi dell’Esm e al prezzo di una devastante correzione fiscale e della posizione estera che ha distrutto la domanda interna e portato la disoccupazione al 27%. Anche perché le previsioni per le economie emergenti non sono delle migliori.
Nella sua ultima relazione annuale la Banca d’Italia, pur notando che la crescita del Pil in Brasile è stata robusta nel 2013, non può fare a meno di notare la panoplia di criticità di fronte alle quale si trova l’economia brasiliana. Il settore esterno, che poi è quello che nei primi anni del 2000 ha fatto gridare al miracolo brasiliano, ha contribuito negativamente alla crescita con un -0.9%, al contrario di quanto ha fatto la domanda interna, cresciuta soprattutto grazie all’aumento dei salari reali, con un’inflazione al consumo che ha raggiunto il 5,9% a fine 2013.
Tutto ciò si è ripercosso sulla posizione fiscale, che si è deteriorata. Il deficit sul Pil è arrivato al 3,3%, l’avanzo primario si è ridotto all’1,9% e il debito è arrivato al 66,3%. tutti elementi che hanno indotto S&P ad abbassare il rating, mentre a febbraio 2014 il governo decideva di tagliare 14 miliardi al bilancio pubblico per evitare ulteriori abbassamenti dell’avanzo primario.
Come se ciò non bastasse, è arrivata la tegola del tapering americano, che a maggio 2013, dopo le esternazioni di Bernanke, ha terremotato il real brasiliano, già affaticato da un saldo di conto corrente negativo per il 3,6% del Pil (era il -2,4 nel 2012).
Son partiti i deflussi di capitale, persino dalla Spagna, che dai 181 miliardi di inizio 2013 è passata bruscamente ai poco più di 160 del terzo trimestre. Alta inflazione e grandi deflussi hanno costretto la banca centrale a stringere i cordoni della borsa.
La conseguenza è che i tassi sono schizzati alle stelle. Il Selic, che ad aprile 2013 era al 7,25%, è stato rialzato nove volte di fila, arrivando all’11% del 2014. E le prospettive di crescita del paese adesso sono decisamente orientate al ribasso.
Questo pattern, pure se con le dovute differenza, si è visto anche in Messico che come il Brasile e tante altre economie emergenti ha aumentato i suoi debiti, spesso emettendo bond sui mercati internazionali, e ha sofferto svalutazione, inflazione e saldo di conto corrente negativo. L’intera area, infatti, ha visto peggiorare significativamente la sua posizione estera. I saldi dei conti correnti di tutti i paesi sono peggiorati e il debito estero pure. Il Brasile ormai sfiora il 14% del Pil (era il 12% nel 2011), il Messico ha superato il 20%, il Cile ha superato il 47%, la Colombia il 24% e il Perù il 29%.
Che l’America Latina impensierisca non poco la Spagna si deduce agevolmente anche sfogliando l’ultimo report della banca centrale spagnola proprio su queste economie, e notando che tale reportistica sia ormai consuetudine del regolatore spagnolo.
Nell’ultimo disponibile, che analizza lo stato dell’arte nella prima metà del 2014, leggo che “i rischi per l’America Latina sembrano dipendere più dal mutamento delle condizioni monetarie internazionali che dal rallentamento dell’economia cinese”. La Banca di Spagna nota preoccupata il rallentamento dell’area latina cominciato già nel 2012, in Argentina e Brasile, per poi estendersi, nel corso del 2013, in Messico, Cile e persino Colombia e Perù. E l’outlook per il 2014 è stato ancora rivisto al ribasso.
E proprio al Brasile la banca di Spagna ha dedicato un approfondimento, notando in conclusione che se è vero che l’economia brasiliana ha delle fragilità (il credito al settore privato è crescito del 21% l’anno fra il 2004 e il 2013), ha pure dei buffer che potrebbero funzionare da salvagente anche se pare ormai evidente che quest’economia gigantesca abbisogni di profonde riforme per non finire in stallo.
E per fare le riforme serve tempo. Risorsa, questa sì, scarsissima.
In un contesto così complesso, con gli Stati Uniti pronti a premere il freno monetario alzando i tassi già dall’anno prossimo, è più che comprensibile che la banca centrale spagnola guardi all’America Latina come a una possibile fonte di contagio e di instabilità per il sistema bancario domestico, peraltro ancora tutt’altro che risanato, e di conseguenza per tutta l’Europa. Il rischio importato dagli emergenti latini, in sostanza, è diventato assai sostanzioso e non riguarda solo la Spagna, ma tutti noi.
L’ultimo post programma surveillance della commissione Ue sulla Spagna, rilasciato nel maggio scorso, nota che nel 2013 il settore bancario è tornato a far utili, ma la profittabilità rimane ancora bassa, con una quota di crediti non performing (NPLs) ancora inchiodata al 13,4% a febbraio. “Inoltre – aggiunge – un rallentamento nei mercati emergenti, in particolare in alcuni paesi latino-americani, potrebbe indebolire la redditività di alcune banche”, per non parlare dei rischi di aprire vere e proprie voragini.
Il segreto di Pulcinella, appunto.
Esercizi di retorica sul debito pubblico: dalla tripla A alla tripla S
Certo dev’essere un segno dell’evo contemporaneo affidare all’alfabeto il nostro destino. L’alfabeto, però, non come costituente della parola, che simboleggia il discorrere, e quindi l’inizio della nostra civiltà. Ma l’alfabeto come mascheramento del numero, e perciò implicitamente ingannevole. Eponimo di un destino, a noi tutti riservato, aritmetico: calcolato, e quindi condannato all’artifizio.
La tripla A del rating, ad esempio, che replica la valutazione del merito nelle università americane, che però cela un range di numeri, anche se pochi lo sanno. Eredità sicuramente anglofona, quindi, questa di calcolare con l’alfabeto, che si è estesa a tutto il globo. Come un po’ tutta l’econom(an)ia, a ben vedere.
Sicché dev’essere un altro segno del nostro tempo, ancora piagato dalla terribile crisi che sembra infinita, se ormai l’attenzione che una volta gli osservatori riservavano alla mitica tripla A, il miglior segno possibile da esibire su un’obbligazione, sia essa un titolo di stato tedesco o una “salsiccia” subprime, è ormai scemata.
Le agenzie di rating, che pure conservano ancora una importanza relativa nel teatrino della finanza, si sono bruciate gran parte della loro credibilità, dopo che per anni hanno taggato con la tripla A rari esempi di spazzatura finanziaria. Senza contare che dopo vari downgrade gli stati a tripla A sono rimasti davvero pochi.
Anche in ragione di ciò si è arrivati al punto di cui discorro qui. L’attenzione del mondo che conta (soldi) e compra (titoli) ormai non è più tanto riservata al merito di credito, misurato appunto dal rating delle agenzie, ma agli indicatori di sostenibilità del debito, che nel caso europeo si chiamano S0, S1 e S2.
Dalla tripla A alla tripla S, insomma. Dal merito di credito al merito di debito. Dalla ricerca del miglior investimento alla ricerca del miglior debitore, con l’ambizione, davvero euclidea, che tali rette parallele s’incontrino in un arco temporale infinito.
L’epopea della crisi sta tutta qua. E il dilemma dei creditori, che comunque devono sempre dare i loro soldi a qualcuno sennò non sanno cosa farci, pure.
Chi crede che questa divagazione sia esagerata, o magari fuori dalle righe di un serio discorso economico, non ha che da scorrere il Fiscal Sustainability Report 2012 della Commissione europea, che è un po’ la Summa Theologiae in tema di sostenibilità finanziaria dei nostri bilanci pubblici.
Utile se non altro per riallacciare il discorso da dove l’avevamo lasciato, raccontando dell’aspetto leggendario, e quindi retorico, del concetto di sostenibilità.
Come sempre, bisogna partire dalle premesse e quindi dall’introduzione.
Il 10 novembre 2009, quindi in piena crisi da panico finanziaria, il Consiglio europeo richiese alla Commissione di preparare un nuovo rapporto di stabilità finanziaria dei paesi membri tenendo conto delle proiezioni di lungo termine al lordo dei costi connessi all’invecchiamento della popolazione, visto che l’Europa ha di fronte uno scenario complesso sul quale ormai da anni lavora l’AWG (Ageing Working Group).
La sostenibilità dell’indebitamento pubblico, spiega la Commissione, dipende da vari fattori, alcuni internazionali (avversione al rischio, sviluppo dei mercati finanziari) e altri interni (capacità di realizzare riforme strutturali). Ma in ogni caso, “i paesi con alto debito sono particolarmente esposti alle turbolenze di mercato”.
Perciò la Commissione, che veglia bonariamente su di noi, si è premurata di quantificare i nostri indici di sostenibilità dividendoli fra indicatori di breve termine (S0), di medio termine (S1) e lungo termine (S2). La tripla S della sostenibilità.
Gli indicatori S1 e S2 sono i tradizionali indici di sostenibilità incorporati con le previsioni elaborate dall’AWG. Per capire come si leggono, basta ricordare che più è alto il loro valore, più rilevante sarà l’aggiustamento fiscale necessario.
L’indicatore S0 invece è stato creato alla bisogna aggregando alcune variabili macroeconomiche e fiscali. A differenza degli altri due, non quantifica l’aggiustamento fiscale richiesto, ma misura il rischio che ci possa essere uno stress fiscale nel breve periodo. E’ un campanello d’allarme, insomma.
Componendosi armonicamente, sicché, le tre S dovrebbero dirci tutto ciò che occorre per conoscere lo stato di salute degli stati, limitatamente ai propri debiti, presenti e futuri. Non è meraviglioso? Cosa potremmo desiderare di più?
Appartiene al discorrere retorico contrabbandare risposte semplici a domande complesse, questo è noto. Perciò vale la pena approfondire.
Cominciamo dall’indicatore S1. Quest’ultimo, spiega la Commissione, mostra l’aggiustamento fiscale richiesto, misurato in miglioramento dell‘avanzo primario di bilancio, che deve essere raggiunto entro il 2020 e sostenuto per dieci anni, per raggiungere un rapporto debito/pil del 60% nel 2030, tenendo sempre conto dell’invecchiamento della popolazione. Il valore numerico ottenuto dall’indice serve a capire il livello di rischiosità del singolo paese.
In particolare, se l’indice S1 è minore di zero, il paese è considerato a basso rischio. Se il valore è compreso fra 0 e 3, vuol dire che il paese considerato ha bisogno di un aumento strutturale del saldo primario di un massimo di 0,5% di Pil all’anno fino al 2020. In questo caso il paese è considerato a medio rischio. Se l’indicatore S1 è superiore di 3, vuole dire che il paese ha bisogno di un aggiustamento del saldo primario superiore allo 0,5% del Pil che deve essere entrodotto entro il 2020 e mantenuto fino al 2030. In questo caso si parla di paese a rischio. Sempre per la gioia dei creditori.
L’indicatore S2 ci racconta una storia diversa. La storia infinita, addirittura.
L’indice, infatti, è stato costruito (i più economaniaci potranno godersi quali equazioni lo abbiano espresso scorrendo il testo) per calcolare l’aggiustamento del saldo primario strutturale necessario per rispettare il vincolo del bilancio intertemporale nell’orizzonte infinito, che nel caso nostro arriva fino al 2060 e oltre. Ciò corrisponde al valore attuale e futuro delle entrate del governo confrontato con quello dei costi, comprendenti il debito pubblico in essere e le spese future previste.
Vi sembrerà tremendamente cervellotico. Certo che lo: è fatto apposta per incutere reverenza, come ben si addice a ogni argomentare retorico. E tanto meno si capisce ciò di cui si parla, come insegnano i teorici (e i pratici) della supercazzola, meglio è.
Per darvi un’idea della cerebralità di questi indicatori, mi limito a raccontarvi solo dell’indicatore S2, giusto perché è quello che Bankitalia tiene in bella evidenza nei suoi rapporti sulla stabilità finanziaria.
All’uopo mi giovo di un pregevole paper pubbicato dal Mef nel 2009, quando ormai gi indicatori S1 e S2 erano patrimonio cervellotico comune (insieme all’euro e al patto di stabilità) grazie all’indefesso e misconosciuto lavoro dell’AWG che, fra le altre cose indicò gli obbiettivi a cui gli stati devono fiscalmente tendere. Quindi la riduzione del debito/pil al 60% entro il 2030 e il vincolo di bilancio intertemporale almeno dal 2060 in poi. Vincolo di bilancio intertemporale vuole dire che in un orizzonte di tempo infinito, la crescita del debito pubblico non debba essere esplosiva, come ad esempio succederebbe ad un governo che abbia un saldo primario sempre a zero e quindi sia costretto a trasformare interamente in deficit la sua spesa per interessi.
Vi ricordo che avere un saldo primario positivo significa appunto che non tutta la spesa per interessi diventa deficit e che la condizione ideale è che l’avanzo primario sia uguale alla spesa per interessi in modo da non creare deficit.
Un governo indebitato che non produce avanzo primario genera il cosiddetto effetto snow ball, ossia palla di neve o valanga. Ciò accade, per usare le retorica contemporanea, quando il tasso di interesse pagato sul debito pubblico supera il tasso di crescita nominale dell’economia nazionale. In tal caso, infatti, il rapporto debito-PIL continua a crescere autonomamente, a meno che non si riesca ad ottenere appunto un avanzo primario capace di controbilanciare l’effetto valanga.
Vi ricordo che tutte le economie del mondo sono indebitate, e quindi producono interessi passivi. Ciò implica che siano costrette, sempre in omaggio all’assiomatica fiscale, ad avere avanzi primari, che devono essere tanto più alti, quanto più alto è il deficit. Se il deficit è zero (pareggio di bilancio) vuol dire che le entrate correnti bastano a ripagare le spese correnti, compresa quella per interessi. Quindi, in un certo senso, l’avanzo primario è l’altra faccia del deficit.
Capite da soli l’effetto di auto-strangolamento. A meno che, certo, non arrivi la miracolosa crescita.
Perché vi racconto tutto questo? Perché questa è l’epoca in cui i debiti devono essere sostenibili, essendo palesemente non ripagabili. E perciò siamo tutti vittime di questi indicatori, che ormai misurano come gradienti i nostri reali gradi di libertà. Quindi è bene sapere chi li ha costruiti e come. E soprattutto perché.
Questo, in particolare, è interessante.
Se l’indicatore S2 è squilibrato (mi limito a questo ma vale anche per gli altri) lo stato dovrebbe compiere un aggiustamento fiscale, che significa aumentare le entrate fiscali, ridurre la spesa primaria (cioé al netto degli interessi), ridurre lo stock di debito iniziale, o ancora una combinazione delle precedenti.
A tal riguardo il numeretto dell’indice S2 misura quanto debba pesare, in percentuale sul Pil, tale aggiustamento fiscale, per rispettare il vincolo di bilancio intertemporale lungo un orizzonte di tempo infinito, tenendo conto anche delle varie componente age-related che influenzano la spesa.
Ve la faccio semplice perché è venuto il mal di testa pure a me. Se viene fuori un S2 positivo, chessò, pari a 1,5, significa che il vostro saldo primario strutturale, quindi corretto per il ciclo, deve essere aumentato dell’1,5% sul Pil e tenuto fermo per un orizzonte di tempo illimitato. Se invece S2 è minore di zero, allora vuole dire che le finanze pubbliche sono sostenibili e che le entrate fiscali possono coprire le spese e il livello iniziale del debito lungo un orizzonte temporale infinito.
Lasciamo questa robaccia e affidiamoci al senso comune. Secondo voi, così, a sensazione, è più sostenibile la finanza pubblica tedesca o quella italiana?
La risposta è nell’indicatore.
Ma è sbagliata.
(2/segue)
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Esercizi di retorica sul DEF: l’invenzione del deficit strutturale
Compulsare i vari documenti che le istituzioni stanno producendo per partecipare al grande rito collettivo del DEF è altamente istruttivo. L’evento economico assume un significato sociale che finalmente trascende la sua miseria contabile per assurgere alla dimensione di ciò che è autenticamente il Documento di economia e finanza: un pregevole esercizio retorico che si nutre di congetture economiche al solo fine di sostanziare un’azione politica di governo.
Che ciò sia il DEF, pochi dovrebbero dubitarne.
Stupefacente invece è la constatazione, che ho tratto leggendo le opinioni sul Def dell’Istat, della Banca d’Italia e della Corte dei Conti, di quanto profondo sia tale congetturare.
E, peggio ancora, che tali congetture non si limitino alle stime sul dati del futuro, come pure sarebbe lecito pensare, ma siano inerenti al dato stesso, ossia alla sua costruzione statistica.
Di cosa parliamo, insomma, quando ci riempiamo la bocca e la testa di deficit, indenitamento netto, o, peggio ancora, indebitamento strutturale?
Tecnicamente parliamo di convenzioni statistiche. Non dati oggettivi, quindi, come uno potrebbe pensare, ma costruzioni numeriche discutibili.
In alcuni casi molto discutibili.
Relativamente ai casi nostri, la vicenda del DEF ha un portato di politica, interna e internazionale, che è saggio non sottovalutare. Il governo infatti, nella persona del ministro dell’Economia, ha impugnato la penna e scritto una bella letterina a mamma Commissione Ue per chiedere di poter derogare di un anno il pareggio strutturale di bilancio, che era previsto per il 2015 e invece si propone per il 2016.
Nel 2015, infatti, il deficit strutturale sarà allo 0,1%, e non a zero come aveva assicurato il governo Letta a settembre scorso a fronte di una variazione strutturale in aggiustamento pari allo 0,5% del Pil. Tale deroga dovrà essere approvata dal nostro Parlamento e poi dalle autorità europee.
Tutto questo per un decimo di punto? E che sarà mai?
E invece pesa, perché l’Italia ha un Obiettivo di Medio Termine (OMT) concordato con la Commissione europea che prevedeva, fra le altre cose l’azzeramento del deficit strutturale entro il 2015.
A questo punto le varie tifoserie si saranno scatenate. Solo pochi ficcanaso si sono posti la domanda: ma il deficit strutturale cos’é?
Gli appassionati del genere sanno che il deficit strutturale corrisponde al deficit netto corretto per gli effetti del ciclo economico e delle misure straordinarie. Per dirlo con le parole della Corte dei conti, tratte dall’audizione sul DEF, “l’intento è quello di isolare le variazioni del saldo di bilancio che sono indotte automaticamente dalle oscillazioni del ciclo economico e che, quindi, non possono essere attribuite all’azione discrezionale dei governi”.
In sostanza, il deficit strutturale è un indice della scelleratezza fiscale governativa. E ciò spiega bene perché a Bruxelles ci tengano in tal modo. Tanto più è alto, tanto più il governo non fa il suo dovere: questo è il senso.
Definito l’oggetto, rimane ancora senza risposta la vera domanda: come si calcola una roba del genere?
Deve esser chiaro che rispondere a questa domanda significa credere che sia possibile una risposta sensata. Che nel gergo economico significa una risposta oggettiva e misurabile oggettivamente.
Purtroppo così non è: il calcolo del deficit strutturale è l’ennesimo esercizio di retorica tramite il quale una decisione politica viene camuffata da dato economico che, di conseguenza, genera un’azione politica conseguente.
Penserete che sto esagerando. Ma non dovete ascoltare me, che non so niente. Ascoltate la Corte dei Conti: “La logica sottostante l’adozione di obiettivi di indebitamento strutturale, tesa a sanzionare l’eventuale utilizzo di misure pro-cicliche, si scontra però con un problema di fondo: la non osservabilità dell’indebitamento strutturale”.
Detto in altre parole, non essendo osservabile non dovrebbe esistere.
Perciò si inventa.
“All’inconveniente (la non osservabilità, ndr) si sopperisce mediante l’utilizzo di particolari tecniche statistiche finalizzate a distinguere, all’interno della serie storica del saldo di bilancio, la componente ciclica da quella strutturale”, spiega la Corte, sottolineando però che “queste tecniche possono tuttavia condurre a risultati non univoci e anche fortemente divergenti fra loro a causa dell’ampio ventaglio di ipotesi preliminari che può essere assunto”.
Quindi non solo l’indebitamento strutturale, che decide il nostro futuro, non esiste, ma la sua invenzione sottostà a regole inventate sulle quali non c’è nemmeno concordia, e che potrebbero dare risultati molto diversi fra loro.
La Corte si spinge in avanti e illustra proprio il caso italiano. Da noi “le misurazioni proposte dalla Commissione europea, che individuano la persistenza nel 2014 e l’ampliamento nel 2015 del deficit strutturale, solleciterebbero il Governo all’adozione di misure correttive, laddove un calcolo alternativo del saldo strutturale su dati OCSE indicherebbe, per lo stesso periodo, una situazione di avanzo”.
Avete capito bene: per la Commissione abbiamo un disavanzo strutturale, che dipende dalla loro classificazione statistica dei dati. Se invece usassimo la classificazione Ocse saremmo in avanzo strutturale.
Tale differenza non pensa neanche poco. Nel grafico contenuto nel suo parere, la Corte mostra che nella misurazione svolta dalla Commissione Ue l’Italia ha un deficit strutturale dello 0,6% sul Pil, circa 9 miliardi, che rimane costante nel 2014, per arrivare allo 0,9%, oltre dieci miliardi, nel 2015. Se invece si utilizzasse la rappresentazione statistica dell’Ocse, l’italia sarebbe stata in avanzo strutturale dello 0,3% del Pil nel 2013, circa 4,5 miliardi, altrettanto nel 2014, e dello 0,1% nel 2015.
Considerate che sulla base dei disavanzi strutturali si misura la qualità dell’azione di un governo in sede europea, ma anche la sua credibilità sul mercato del debito.
E non finisce qua: “Anche rimanendo all’interno di un stessa fonte statistica, la misurazione del saldo strutturale è soggetta a continue modifiche, con differenze che
diventano molto consistenti proprio in occasione dei momenti di inversione del ciclo economico”.
Insomma: il nostro futuro dipende da un dato che non esiste, inventato alla bisogna, sul quale non c’è neanche identità di vedute nella cosiddetta letteratura scientifica e che peraltro si comporta in modo incontrollabile nei momenti in cui dovrebbe essere più stabile.
Ma il peggio sta alla fine: “E’ stato infine rilevato come, all’interno della metodologia della Commissione UE, agli attuali valori di indebitamento strutturale corrispondano livelli di
disoccupazione di equilibrio nell’ordine dell’11 per cento, evidentemente inconciliabili con qualsiasi obiettivo di piena occupazione. Sarebbe dunque lo stesso modello statistico
utilizzato per guidare le politiche di bilancio europee a imporre un severo trade-off fra crescita e stabilità delle finanze pubbliche”.
Quale migliore esemplificazione dell’esercizio retorico praticato col linguaggio dell’economia?
La decisione, questa sì politica, impone il “severo trade off fra crescita e stabilità delle finanze pubbliche”. Ciò ha originato un modello statistico che teorizza deficit strutturali, con corrispondente tassi di disoccupazione d’equilibrio, che altri modelli vedono come surplus, sulla base dei quali si impongono politiche restrittive: “aggiustamenti continui”, come dice la Corte.
E gli stati (noi) devono pure pietire una deroga.
Se questo è il gioco, chi voglia salvare la pelle ha solo una chance: deve usare la retorica meglio degli altri.
Deve spararle più grosse.
(2/segue)
Unione bancaria, la Bce segna ma non vince
Quello che doveva succedere, alla fine, è successo. Il compromesso, assai sofferto, fra la posizione sovranazionalista di Bce e Commissione Ue, che ha trovato un inedito alleato nell’Europarlamento, ha segnato un timido gol in zona Cesarini contro la squadra avversaria capitanata dal bomber tedesco Schäuble, ossia l’accordo intergovernativo di fine 2013.
Il gol della Bce ha accorciato le distanze, direbbero i cronisti sportivi. Ma chi parla di pareggio lo fa per amore di bottega: a guardarla con onestà, si potrebbe dire che anziché finire 1 a 0, come era stato alla fine del primo tempo, la partita è finita 2 a 1 per la squadra (tedesca) degli intergovernativi.
In sostanza l’Europa bancaria di marca tedesca ha chiuso con una netta vittoria il lungo negoziato sull’Unione Bancaria. I sostenitori della squadra sovranazionale potranno consolarsi col solito argomento che un accordo è sempre meglio di niente. Ma dovranno sperare nella prossima crisi per costringere gli stati nazionali a mollare la presa sulle loro banche.
Prima di esaminare nel dettaglio i contenuti dell’intesa, vale la pena spiegare perché la Bce, e in particolare il suo centravanti Mario Draghi, abbia celebrato con toni tonitruanti l’intesa.
Da una parte c’è la soddisfazione di aver completato l’accordo sugli altri due pilastri dell’Unione bancaria che mancavano, riuscendo persino ad accorciare il tempo necessario a costruire il fondo dal quale attingere per pagare le risoluzioni bancarie.
Ma il vero valore del gol segnato a fine partita sta nel fatto che sarà la Bce a tenere il dito sul grilletto di una eventuale crisi bancaria. Dall’esito della sua supervisione, infatti, dipende l’attivazione della farraginosissima procedura per arrivare a una risoluzione. E’ chiaro perciò che laddove non arriverà il povero Board del costituendo SRM, arriverà la market discipline. E tanto basterà.
Nel merito, vale la pena illustrare come funzionerà (sempre che il parlamento europeo trasformi in legge l’accordo nell’ultima seduta pre-elettorale di aprile) innanzitutto il meccanismo di risoluzione, il cosidetto SRM (single resolution mechanism).
Il Risolutore potrà lavorare solo sulle banche supervisionate dalla Bce. Le altre banche, quindi quelle non soggette alla supervisione unificata, rimarranno competenza dei singoli stati nazionali e delle loro autorità di risoluzione. In tal caso però per gli stati non sarà possibile attingere alle risorse del costituendo fondo di risoluzione. A meno che lo stato membro non opti per la supervisione unificata. Quindi nel caso, un domani, la Germania volesse ottoporre alle supervisione della Bce anche le sue 417 Sparkassen potrà farlo.
Non ridete.
Se però succede che la risoluzione nazionale preveda l’uso dei denari del fondo di risoluzione, allora l’SRM potrà metterci bocca. Questo, evidentemente potrà succedere qualora lo stato coinvolto non possa o non voglia pagare la risoluzione di una banca. E’ chiaro che i paesi ricchi preferiranno lavari i panni sporchi in famiglia, a differenza di quelli poveri, tenendo l’SRM fuori dai giochi. E questo segna già una prima importante differenza.
Ma l’aspetto più esilarante è il funzionamento del SRM. E’ stato scritto e ripetuto che potrà attuare la risoluzione di una banca nell’arco di un fine settimana. E sarà pure vero. Solo che è impossibile capire quanto tempo servirà prima di arrivare a deciderla, questa risoluzione.
L’SRM, infatti, funziona con un comitato esecutivo e una seduta plenaria. Il primo discrimine è di natura finanziaria. Per le risoluzioni che comportano una spesa superiore ai cinque miliardi, le decisioni devono essere prese in seduta plenaria.
Cinque miliardi per una banca di un paese di peso sono davvero bruscolini. Basta ricordare che la Germania per salvare le sue banche regionali (Landesbanken), dopo il 2008, di miliardi sul tavolo ne ha dovuti mettere quasi 70. Il che dimensiona bene quanto pesino nella realtà i 55 miliardi di cui dovrebbe essere dotato il futuro fondo di risoluzione.
Al contrario, per i paesi piccoli – Cipro ha fatto un botto bancario di “appena” nove miliardi – il board esecutivo e i denari del fondo sembrano addirittura sovradimensionati. E questo è il punto: così come è stata disegnata l’Unione bancaria sembra fatta apposta per funzionare con i pesci piccoli.
Non mi stupisco: fare i forti coi deboli è lo sport preferito dall’eurozona.
Torniamo a noi.
Il Board dei risolutori, nella sue versione esecutiva, oltre al presidente, al direttore esecutivo e ai tre componenti tecnici permanenti, ospita osservatori permanenti della Bce, della Commissione Ue e del Consiglio europeo e delle autorità nazionali di risoluzione. Non è previsto però diritto di veto.
Nella maggior parte dei casi, la Bce notificherà al Board (e a tutti gli osservatori) se una banca sta fallendo, coinvolgendo l’autorità nazionale di risoluzione. Il Board dovrà valutare se dal fallimento di questa banca c’è un rischio sistemico e se c’è una qualche soluzione che possa essere trovata coinvolgendo il settore privato (leggi: bail in). Se così non è, allora il Board prepara uno schema di risoluzione eventualmente pescando nel fondo apposito.
Uno pensa: finisce così?
Macché: da quel momento in poi la palla passa alla Commissione europea, responsabile di valutare gli aspetti discrezionale della decisione del Board. Una volta che la Commissione fa suo il piano (ma può fare obiezioni), la sua decisione finale è soggetta all’approvazione (od obiezione) del Consiglio europeo, quando la quantità di risorse tratte dal fondo viene modificata o non c’è pubblico interesse al salvataggio. Per fare prima però, è prevista la procedura di silenzio assenso.
Non ridete.
Se Commissione o Consiglio obiettano sullo schema preparato del board dell’SRM, allora il Bord deve rimettersi al lavoro e rifarlo. Una volta ottenuto il via libera da tutti, lo schema di risoluzione viene attuato dall’autorità nazionale di risoluzione. Nel caso il piano preveda aiuti di stato (ad esempio in caso di bail out), la Commissione deve dare il suo via libera preventivo.
Quanto al mitico fondo di risoluzione, le banche dei paesi aderenti dovranno alimentarlo fino a 55 miliardi in otto anni e i gestori del fondo potranno anche indebitarsi per avere risorse, ma solo se viene dato loro il via libera dalla sessione plenaria del fondo. Nel periodo che servirà alle banche per rimpinaguare il fondo, verranno creati comparti nazionali. Per decidere del trasferimento dei fondi nazionali al fondo unico servirà però un ulteriore accordo intergovernativo. Quindi la parola finale torna di nuovo al livello nazionale.
Che ve ne pare di quest’Unione Bancaria?
La sensazione è che sarà implacabilmente efficiente con gli stati piccoli e malleabilmente dilatoria con i grandi. Di costoro dovrà occuparsi la Bce, e non certo tramite il board dell’Srm. Ci penserà il mercato a far fallire una banca, assai più rapido ed efficace di qualunque Board costretto da procedure bizantine come quelle che abbiamo visto.
Al bord basterà pure un week end per far fallire una banca.
Al mercato basta un attimo.
Viaggio in Italia: sedotti (dall’estero) e abbandonati
Volge al termine, il nostro lungo viaggio fra gli squilibri italiani che poi, vuoi o non vuoi è un viaggio nella nostra storia, che di questi squilibri veri o presunti è l’origine.
Senonché non viviamo in splendida solitudine. Il limite delle analisi statiche è che prendono in esame un pezzo alla volta: ora le banche, ora la produttività, ora la sostenibilità del debito. Ma il fatto è che viviamo in un contesto in cui tutte queste variabili interagiscono dinamicamente. Talché è sempre frutto di astrazione qualunque considerazione si tragga dai dati. E’ come viaggiare guardando una mappa, invece di mettersi in cammino.
Questo limite si evidenzia in tutta la sua chiarezza quando affrontiamo l’ultima tappa del nostro viaggio: ossia il nostro rapporto con l’estero. La cosidetta sostenibilità esterna.
Abbiamo, noi italiani, con l’estero, un rapporto a dir poco complesso, che va da un amore incondizionato a una sostanziale insofferenza. Ogni volta che andiamo in viaggio in qualche paese europeo, torniamo col magone confrontando il nostro livello di servizi col loro. Salvo poi lamentarci quando sempre da questi paesi ci arrivano le solite lezioncine.
Oscilliamo fra desiderio di autarchia e seduzioni da esterofilia. Difendiamo a spada tratta il nostro made in Italy e allo stesso tempo importiamo qualunque modello culturale o organizzativo, a cominciare dalla lingua, che solo per il fatto di venire dall’estero ci sembra migliore del nostro. E neanche ci accorgiamo di questa contraddizione.
Questa particolarità del carattere nazionale ha la sua perfetta rappresentazione nella nostra bilancia dei pagamenti e nel saldo del nostro conto corrente che, come quasi tutti gli indicatori italiani racconta una storia con un prima e un dopo. Ossia prima dell’euro e dopo l’ingresso dell’euro.
Cos’è stato l’euro, in fondo, o l’Unione europea tutta si potrebbe dire, se non la più raffinata delle seduzioni estere propinata al nostro Paese? Chi è cresciuto negli anni ’90 ricorderà la Grande Seduzione messa in campo dalla classe dirigente italiana, politica, industriale, burocratica, giornalistica, per fare abbracciare al popolo il cambiamento che si preparava. E i pochissimi che paventavano il rischio prima di una grande inflazione mascherata, provocata dal sostanziale squilibrarsi dei prezzi relativi, e poi di una grande deflazione, provocata dagli effetti di tali squilibri, venivano semplicemente dileggiati.
E noi, da bravi italiani, ci siamo cascati.
Sedotti dall’estero, contrabbandato stavolta da una moneta europea, siamo stati altrettanto facilmente abbandonati dall’estero quando il gioco si è fatto duro. E ora dobbiamo cavarcela da soli, per di più dovendo fare i conti con l’estero che ci punta costantemente contro un dito accusatorio.
La storia potremmo raccontarla con le stesse parole della commissione Ue. “Sin dall’adozione dell’euro – scrive – l’Italia è stata soggetta a una significativa erosione della sua quota di export sui mercati. Fra il 1999 e il 2010, il volume delle esportazioni italiane, in media, è cresciuto del 2% l’anno, significativamente al di sotto del 4,2% della media dell’euro-area. Fra il 2010 e il 2013 questo gap si è ridotto. L’export italiano è cresciuto del 2,7, quello dell’eurozona del 3,4”.
Se guardiamo i grafici, notiamo che il grosso dei risultati, fra il 1999 e il 2010 l’ha fatto la Germania, con una media di crescita annuale dell’export del 6%, il triplo della nostra, seguita dall’Olanda, intorno al 5% e dall’UK, poco sotto il 4% e quindi nella media eurozona. I risultati di Spagna, Italia e Francia sono tutti sotto la media.
Dal 2010 al 2013 la crescita dell’export tedesco scende sotto il 4%, e viene superato da quello spagnolo, che quota intorno al 5%, in ripresa come quello di Francia e Italia. Al contrario diminuisce quello di Olanda e UK.
Ma se guardiamo il grafico aggregato che misura la quota di export globale su base 100, notiamo che fra il 1999 e il 2011 solo la Francia ha fatto peggio dell’Italia, visto che ormai l’indice quota poco più di 75 a fronte del circa 80 del nostro. In testa c’è ovviamente la Germania, che svetta verso 110, poco sopra la Spagna e l’Olanda. Vale la pena osservare che dal 1999 in poi la curva per Francia e Italia è tendenzialemte declinante.
Ma cos’è successo alle nostre imprese?
L’Europa la racconta così: “La quota ancora notevole di imprese a medio-bassa connotazione tecnologica dell’export hanno esposto il paese a una forte competizione”. La famosa concorrenza cinese. Ciò ha provocato un cambiamento dell’intero settore industriale italiano. E’ molto diminuita la quota di imprese a bassa tecnologia, che nel ’96 pesavano il 33% dell’export e nel 2011 il 26%, mentre è cresciuta la quota delle imprese a medio-bassa tecnologia, passata dal 18 al 24%. Stabili invece la quota di export delle imprese a medio alta tecnologia e quelle ad alta tecnologia.
Un altro grafico però ci aiuta a capire quanto tali vicissitudini siano state influenzate dai rapporti di cambio. La quota di export extra eurozona, infatti è cresciuta assai più rispetto a quella intraeurozona. E mentre non c’è nessun gap fra il potenziale di domanda estera intercettata fuori dall’euro, il contrario accade fra la domanda potenziale dell’eurozona e la quota effettiva di esportazioni italiane. Quindi se l’export italiano funziona bene all’esterno dell’eurozona e all’interno no, delle due l’una: o agli abitanti dell’eurozona i nostri prodotti piacciono poco, o il problema è di altra natura.
Se chiedete alla Commissione, vi dirà che è colpa della scarsa competitività. D’altronde non potrebbe dire che c’è anche un problema di valuta bilateralmente squilibrata fra i paesi dell’area. O meglio lo dice pure, ma come se fosse una conseguenza e non la causa.
Perché i tecnici di Bruxelles siano così attenti al nostro saldo commerciale si capisce bene scrutando il nostro saldo delle partite correnti. L’Italia ha un deficit strutturale (almeno dal ’96, secondo quanto racconta il grafico della commissione) sia sul conto dei redditi, ossia le rendite e i redditi che paghiamo all’estero, e i trasferimenti. Per chi non lo ricordasse, i trasferimenti possono essere privati (ad esempio le rimesse degli immigrati) o pubblici (ad esempio le imposte indirette versate all’Ue).
A ciò si aggiunga che dall’inizio degli anni 2000 è andata quasi sempre in deficit anche la voce dei servizi che registra ad esempio i trasporti di merci o persone all’estero o i viaggi all’estero. D’altronde con l’euro è diventato più semplice viaggiare e noi italiani amiamo visitare le capitali europee.
L’unica cosa che, di conseguenza, può salvare il nostro saldo corrente, e quindi sostenere la nostra posizione con l’estero, è il surplus commerciale. Detto in altre parole se non miglioriamo la bilancia commerciale falliamo.
In questa semplice constatazione c’è la nostra condanna: siamo condannati a vendere all’estero più merci di quante ne compriamo. E se proprio non siamo capaci di venderne di più, allora dobbiamo comprarne di meno. Sapendo, peraltro, che abbiamo una bolletta energetica obbligata di decine di miliardi di euro.
Prima di approfondire le conseguenze di una situazione estera siffatta, è utile notare l’evoluzione del conto corrente dal 1995 al 2013, visto che la commissione è così gentile da farcela notare.
Nel 1996 il nostro saldo corrente era in surplus per il 3% del Pil. Poco più del 4% era il surplus merci, un po’ meno quello dei servizi, quindi la bilancia merci+servizi arrivava al 5%. Perdevamo circa l’1,5% a causa del deficit sui redditi e un altro 0,5% per il deficit dei trasferimenti. Il saldo finale, quindi, si assestava al 3%
Ma quello è stato l’anno d’oro della serie storica considerata. Il saldo corrente scende costantemente negli anni successivi, tirato giù dal calo del saldo commerciale, che nel 2000 arriva a poco più dell’1% del Pil. La zavorra del deficit dei redditi e dei trasferimenti non cessa di far affondare il conto corrente, il cui saldo, fra il 2001 e il 2002 diventa definitivamente negativo. Nel 2002 anche i servizi vanno in deficit.
Il crollo del saldo corrente peggiora negli anni euroforici della moneta unica e dei tassi bassi. Nel 2006 anche la bilancia delle merci diventa negativa, riusciamo a spuntare solo un minuscolo surplus sui redditi, che evita al saldo di sprofondare sotto il 2%. Ma è un momento.
Nel 2008 va tutto in deficit: merci, servizi, redditi e trasferimenti: si va verso globale deficit del 3% sul Pil che raggiungeremo, superandolo, nel 2010, l’anno orribile dei conti esteri italiani. Pensate che la bilancia delle merci diventa negativa per l’1% del Pil.
La tragedia prosegue nel 2011 e arriviamo ai giorni nostri. Il crollo dell’import registrato fra il 2102-3 resuscita il saldo delle merci, ma in compenso si è allargato il deficit sui trasferimenti e si sta nuovamente ampliando quello sui redditi. La ritrovata attrattività dei nostro debito pubblico sul mercato internazionale provoca un aumento del costo delle rendite che dobbiamo pagare ai percettori esteri.
In pratica quando vendiamo un titolo all’estero è come se vendessimo la corda con la quale ci impiccano. E siamo pure contenti.
La grande stretta degli anni 2012-13 ha riportato il saldo corrente in attivo per lo 0,1% del Pil, ai confini dell’errore statistico. Ma è chiaro che basta una starnuto dei mercati per farci ricadere nel deficit. L’estero ha già mostrato, negli anni terribili della recenti crisi, di essere bravissimo a sedurci e poi abbandonarci. E se non fosse stato per la Bce e le sue operazioni straordinarie, che hanno consentito alle banche italiane di comprare i nostri titoli di stato, saremmo finiti a gambe per aria.
Ciò non vuol dire che i problemi siano stati risolti.
Al contrario.
“Malgrado un graduale deterioramento – spiega la Commissione – la posizione netta degli investimenti italiani all’estero (NIIP, ndr) rimane moderatamente negativa”.
Nel 1999 la nostra NIIP era in deficit di appena il 5% del Pil. Nel 2013 siamo arrivati al 28%. A guidare questo clamoroso crollo sono stati gli investimenti di portafoglio, ossia gli acquisti di nostri bond dall’estero. Negli anni ’90, gli appassionati lo sanno, il debito pubblico era in buona quota in mano ai residenti. Con l’euro è diventato assai più facile piazzarlo all’estero.
L’ennesimo “dividendo” della moneta unica.
Oggi i nostri titoli pubblici piazzati all’estero quotano oltre 700 miliardi, e questo spiega perché siano tutti così preoccupati del nostro futuro.
“L’esperienza italiana fra il 2011-12 – scrive la commissione Ue – mostra che anche una Niip moderatamente negativa può rendere vulnerabile un paese ai deflussi di capitale con shock negativi sull’economia”. Quindi la nostra esposizione estera ci sottopone a grossi rischi da rifinanziamento del debito, che ci rendono così docili nei cofronti dei nostri partner esteri.
Ci aspetta, in sostanza, un costante ammonimento da parte dei nostri creditori, visto che la nostra posizione di debitori sembra ormai cristallizzata. Ma sarebbe buona prassi ricordare ai creditori che devono sempre pregare per la salute del debitore. E noi su questo fronte siamo alquanto timidi.
Eh già: l’estero. Mentre sognamo di avere un pizzico della grandeur francese, o almeno dell’efficienza teutonica, dovremo ricordarci che se ci piacciono tanto gli altri forse vuol dire che ci piace poco quello che siamo. O che non lo sappiamo proprio chi siamo.
Peggio ancora, mi figuro che questo costante innamoramento per l’estero nasconda l’evanescenza del nostro sentirci parte di uno stato. Non sappiamo più cosa significhi essere italiani, e, come pulcini in cerca di imprinting, ci associamo al primo straniero che passa. Ieri la Francia, o la Germania. Oggi l’Europa.
E tuttavia, alla fine del mio viaggio in Italia, forse perché conquistato dal paesaggio, o perché sedotto dalla nostra stessa fragilità, mi rimane una bella sensazione.
Mi sento risanato. Ho capito di avere un sacco di problemi, ma altrettanto che i miei (nostri) problemi sono l’altra faccia dei problemi che gli altri hanno con me (noi). Se noi stiamo male, gli altri rischiano di star peggio a causa nostra.
L’estero, infine, non mi seduce più. Perciò non può più abbandonarmi.
Semmai è il mio turno.
Posso solo rendergli il favore.
(5/fine)
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Viaggio in Italia: lavorare (per) meno, lavorare tutti
Schiacciata nella morsa degli opposti automatismi, e con un settore bancario sempre più sotto stress, l’Italia è costretta ad affrontare una volta per tutte la radice di tutti i suoi mali che, secondo la Commissione Ue, si può declinare il due paroline: produttività stagnante.
Prima di addentrarci nel significato recondito di questa semplice espressione, vale la pena riportare la diagnosi di Bruxelles. Non tanto perché ci si debba convincere che sia vera. Ma perché serve a capire come ci vedono gli altri e perché ci vedono così.
“La produttività stagnante – scrive la Commissione – è alla radice della perdita di competitività esterna e del peso sulla sostenibilità dell’alto debito pubblico. Ridurre simultaneamente il debito pubblico e migliorare la competitività esterna è molto sfidante perché, mentre la moderazione dei salari nominali può aiutare a migliorare il costo della competitività a breve termine, allo stesso tempo può pesare sulle dinamiche del debito del paese. Quindi una correzione durevole degli squilibri italiani e un aumento della resilienza dell’ambiente economico dipendono dall’evoluzione della crescita della produttività”.
Eccola la cura: aumentare la produttività.
Ma che significa?
Tento un’interpretazione autentica, al lordo degli inevitabili fraintendimenti. Dice, la Commissione, che moderando i salari nominali, ossia diminuendoli o consentendo di farli crescere poco, si può aumentare la competitività esterna. La famosa medicina tedesca. Però quest’automatismo porta con sé lo svantaggio che salari più bassi hanno un effetto deprimente sia sulle entrate fiscali (lo stato incassa meno imposte dirette) che sulla domanda interna (lo stato incassa meno imposte indirette), e, di conseguenza, sulla crescita. Il che aumenta il peso relativo del debito.
L’ennesimo opposto automatismo.
Perciò se pure va bene una certa moderazione salariale, è l’aumento del prodotto (quindi della produttività per risorsa impegnata) che bisogna perseguire, pure a parità delle attuali retribuzioni. Ma è ovvio che se io produco di più allo stesso costo di prima, significa che in pratica è diminuito il salario reale.
Ecco: aumentare la produttività si può tradurre con l’invito a diminuire i salari reali, prima ancora che quelli nominali. Una medicina tedesca in versione italiana. Così facendo aumentiamo la competitività esterna, e quindi favoriamo l’export, senza azzoppare definitivamente la domanda interna.
Ricordate il vecchio slogan lavorare meno lavorare tutti? Bene, la versione attuale è lavorare per meno e lavorare tutti.
Lavoriamo troppo poco, insomma. E per di più in un contesto poco amichevole per il business, vessato da burocrazie, governative e giudiziarie, che fanno assomigliare alla fatiche di Ercole portare a casa qualche risultato. Per tacere della scuola, che sforna capitale umano (quando ci riesce) poco adatto alla competizione globale.
Ora, solo chi abita negli aerei spazi di Bruxelles può credere che sia possibile riformare in tempo ragionevole la burocrazia, la giustizia e la scuola in Italia. Rimediare a guasti che si sono sedimentati negli ultimi quarant’anni richiederebbe ben altro sforzo e ben altra caparbietà di quelli attualmente disponibili sul mercato della politica.
Perciò ai nostri governanti non resta che prendere il toro per le corna e dire la cosa più semplice: dobbiamo lavorare di più guadagnando, se va bene, gli stessi soldi di adesso. Chi almeno un lavoro ce l’ha. Per tutti gli altri, rimane la speranza di un bel minjob all’italiana.
Semplifico un po’, ma il succo è questo.
Se guardiamo ai dati forniti dal rapporto di Bruxelles l’analisi si approfondisce ma il senso non muta.
“La competitività esterna dell’Italia – spiegano – è stata ostacolta dalla crescita del costo unitario del lavoro che ha superato quella degli altri paesi europei. Nel periodo 1999-2012 l’ULC (unit labour cost) è cresciuto del 2,4% l’anno, sopra la media dell’euro-area dell’1,7%. L’incremento dell’ULC è stato guidato dal calo della produttività mentre i salari nominali per addetto sono cresciuti in linea con il resto dell’eurozona”.
Detto in altre parole, il calo di produttività ha fatto aumentare il valore reale del costo del lavoro, mentre il valore nominale cresceva in linea con il resto dell’eurozona. Quindi ci hanno perso tutti: sia gli imprenditori che i lavoratori.
L’analisi si approfondisce se guardiamo all’andamento del tasso effettivo di cambio (REER, real effective exchange rate) basato sul confronti fra i prezzi dei partner e sul confronto fra il valore nominale dell’ULC.
I grafici mostrano che il REER calcolato sui valori nominali dell’ULC vede per l’Italia una crescita costante. Fatto 100 il valore del 1999 il REER è arrivato a sfiorare 120 nel 2009 per poi ripiegare verso 115 dal 2011 in poi. Al contrario il REER tedesco è sceso a 90. Quindi è come se noi avessimo rivalutato il costo del lavoro rispetto alla Germania e la Germania svalutato rispetto a noi.
Se andiamo a vedere il REER basato sui prezzi alla produzione, la situazione è appena un po’ più equilibrata, ma dice molto su quello che è successo dal 2001 in poi. L’indice sul REER italiano, che quotava 100 nel 1999 è sceso a 90 nel 2000, mentre quello tedesco arrivara a 85, e ha seguito l’andamento di quello tedesca, in lieve ripresa dal 2002 in poi, fino a quando le curve non hanno iniziato a separarsi. A ottobre 2013, fra l’indice italiano e quello tedesco c’è una differenza di una decina di punti a nostro (s)favore (nel senso che è più alto il REER italiano). Quindi anche l’analisi del tasso di cambio reale basato sui prezzi mostra che l’Italia ha rivalutato e la Germania svalutato.
Nell’analisi della Commissione tale andamento contrario alla logica (un paese in surplus dovrebbe rivalutare non svalutare il cambio reale) deriva proprio dal calo della produttività, che in fatti in Italia è crollata (1999=100, 2011=95), mentre in Germania è aumentata (1999=100, 2011=110). Ma sarebbe interessante chiedersi se il calo della produttività non sia stato determinato proprio dalla rivalutazione reale piuttosto che il contrario.
Questa domanda non appare fra le riflessioni della commissione. Forse perché somiglia alla celebre disputa sull’uovo e la gallina. Epperò è determinante, giunti a questo punto del viaggio.
Provo a riformulare la domanda: se non fossimo entrati nell’euro, negli anni ’90, la nostra produttività avrebbe subito lo stesso crollo che ha subito?
Ovviamente non lo sapremo mai. Contentiamoci di tenere a mente la domanda che quelli di Bruxelles mai avrebbero potuto fare per ragioni di bottega.
Se queste sono le premesse. La conclusione non può che essere quella iniziale: bisogna stimolarla, questa benedetta produttività stagnante.
A questo punto dovrebbe essere pure chiaro come.
(3/segue)
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