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Banche, la paura fa 90 (miliardi)
Quanto costa la paura? Vi parrà strano, ma nello splendido mondo della finanza si può stimare. I nostri meravigliosi econometristi hanno un numero per tutto. E una volta che l’hanno calcolato, capita persino di scoprire, grazie a loro, che una cosa che prima non ci passava neanche per la testa, improvvisamente diventa l’ennesimo ingrediente della nostra ansia. Un altro motivo per avere paura. E così il cerchio si chiude. Lo scopo del gioco è sempre lo stesso: creare timori.
Questa riflessione è stata il risultato di una lettura poco amena, ma interessante, estrapolata dall’ultimo Global financial stability report del Fondo Monetario, laddove tratta di un argomento assai astruso ma esemplare: Quanto è grande il sussidio implicito per le banche considerate troppo grandi per fallire?
Provo a dirlo in maniera più comprensibile: quanto costa agli stati (che devono sussidiarle) la paura che le banche sistemiche falliscano?
Ecco, così magari la questione diventa più popolare.
Salto alla conclusione – il numeretto – e poi svolgo la narrazione, che comunque è istruttiva. Ebbene: il Fondo stima che il sussidio implicito per le banche europee valga almeno 90 miliardi, che possono arrivare fino a 300.
La paura fa 90, è notorio.
A questo punto vale la pena spiegarsi, per non ricadere nell’aneddotica. Partendo da una premessa: la questione delle banche too important to fail (TIFT).
Le TIFT sono uno dei grandi problemi che assillano gli studiosi della stabilità finanziaria e i regolatori, insieme con lo shadow banking e i derivati OTC. Su questa materia, come sulle altre, i regolatori, banche centrali in testa, si sono dati un gran daffare dal 2008 in poi, quando si accorsero che il sistema finanziario faceva acqua da tutte le parti e che quindi, per ripararlo, serviva una super iniezione di liquidità. Curare gli eccessi della liquidità con altra liquidità è il preclaro esempio della logica distorta delle cose finanziarie.
La TIFT vengono anche chiamate banche sistemiche (SIBs, systemically important banks), in virtù della loro attitudine ad essere di grosso calibro e molto ramificate, e quindi capaci di diffondere contagi repentini e mortali. Come un virus letale.
Questi organismi virali sono molto coccolati dagli Stati che ne hanno una sana paura. E fanno bene: ci stiamo riprendendo a fatica e solo a caro prezzo dal decesso di uno di questi organismi nel 2008, ossia la Lehman Brothers. E poiché questi organismi sono assai diffusi nel mondo, ecco che la regolazione sta facendo tutti gli sforzi di cui è capace per trovare dei rimedi, necessariamente omeopatici, ai guasti che possono provocare, provando in qualche modo a prevenirli.
Al di là della loro pericolosità le TIFT hanno anche alcune peculiarità: sono molto più spericolate, e quindi assai più redditizie. Ciò in quanto, potendo godere di una sorta di garanzia implicita – il loro essere sistemiche, che obbliga gli stati, a spese del contribuente, a evitare che falliscano -, tendono a fare il passo più lungo della gamba, prestando magari più di quanto dovrebbero a soggetti al quali sarebbe saggio non prestare. Quindi, quando le cose vanno bene, fanno più ricavi delle banche non sistemiche.
Lato costi, poi, sempre perché tanto non possono fallire, chi presta loro i soldi le considera investimenti pressoché sicuri. E quindi spuntano dei tassi passivi più bassi delle banche non sistemiche.
In pratica: guadagno di più quando prestano e costano di meno quando prendono a prestito. L’ennesima dimostrazione che in finanza il bullismo, più o meno criminale, paga eccome.
Su queste peculiarità diciamo disdicevoli il consenso è unanime. Nella sua disamina, che ripercorre gli argomenti che ho letto decine di volte nei vari interventi dei banchieri centrali, il Fmi ricorda tutto quello che vi ho detto, e che vale la pena riepilogare citando Mark Carney, del Financial Stability board, il principale organismo internazionale di buone pratiche di regolazione: “L’aspettativa che le istituzioni finanziari sistemiche possano privatizzare i guadagni e socializzare le perdite incoraggia l’eccessiva presa di rischi nel settore privato e può essere rovinoso per le finanze pubbliche. Si è cominciato a cercare soluzioni, ma il problema non è stato ancora risolto”.
E come mai potrebbe esserlo, in un sistema che, per sua stessa natura, premia il rischio col rendimento?
A volte mi chiedo se i nostri banchieri centrali siano ingenui o diabolici.
Il meccanismo distruttivo alla base del SIBs l’abbiamo visto all’opera dal 2008, e sappiamo già che ha condotto a una delle più spettacolari impennate del debito pubblico della storia, pari a quello che ci fu durante l’ultima guerra. Chiaro che non si voglia più rivederlo. Ma ciò non significa che si riesca ad evitarlo.
Intanto che ci provano, i nostri fini analisti hanno costruito uno dei loro modellini pieni di numeri ed equazioni astruse per arrivare a stimare quanto pesa, ancora oggi, la garanzia implicita degli stati su queste banche.
Cos’è la garanzie implicita? Ve la faccio semplice: la possiamo definire come il costo teorico che uno stato potrebbe dover affrontare qualora una sua banca sistemica fallisse. Il costo teorico dei danni teorici.
A cosa serve saperlo? I tecnici vi diranno che è un indicatore della stabilità finanziaria e altre belle parole. Ma non fatevi ingannare: lo scopo principale è spaventare. La paura, come le crisi finanziarie, sono ottimi incentivi a fare “tutto quello che è necessario”.
Ebbene, secondo le stime del FMI, il sussidio implicito, che può anche essere interpretato come un’indicatore della fragilità del sistema o dei rischi che esprime, è cresciuto parecchio nel 2012, per poi declinare nella parte finale del 2013.
Negli Stati Uniti, dove il de-leveraging bancario ha proceduto molto più velocemente che in Europa, il sussidio implicito è diminuito prima. E questo certo non deve stupire. Il de leveraging è stato scaricato sulla Fed che, formalmente, sta fuori dal bilancio dello Stato. E ciò malgrado, scrive il Fmi “il valore stimato delle garanzie governative per le banche sottoposte a stress appare più o meno paragonabile al livello pre crisi”. Che sarebbe come dire che abbiamo fatto – gli Usa hanno fatto – una fatica terribile (e a carissimo prezzo) per tornare al punto di partenza.
Non che il resto del mondo se la passi meglio.
“I sussidi stimati sono notevoli”, dice il Fmi. Si calcola che le SIBs, proprio grazie alle garanzie pubbliche implicite, abbiano un vantaggio nel costo dei loro finanziamenti di circa 15 punti base negli Stati Uniti, di 25-60 punti base in Giappone, 20-60 pb nel Regno Unito e addirittura 60-90 pb nell’eurozona.
Quindi le SIBs europee sono le più avvantaggiate dalle garanzie nascoste degli stati. E di conseguenza sono quelle che spendono di meno per il funding.
Un altro modo per dirlo è quantificare l’entità della garanzia implicita in miliardi di dollari, basandosi sul totale dei debiti di queste banche, al netto dell’equity.
L’esercizio l’ha fatto il Fmi, relativamente agli anni 2011-12, e ne ha tratto che i sussidi implicit hanno pesato fra i 15 ei 7o miliardi per le SIBs americane, 25-110 miliardi per quelle inglesi e giapponesi, e dai 90 ai 300 miliardi per quelle dell’eurozona. Che perciò oltre ad essere le meno costose per il funding, sono le più rischiose per le perdite potenziali. Con l’aggiunta che il sussidio implicito, già alto prima della crisi, è addirittura aumentato.
Altro che unione bancaria.
Se ricordate quello che ho detto prima sul doppio vantaggio (sempre quando bene) delle SIBs avrete chiaro perché.
Non bisogna stupirsi che le banche europee siano ridotte così. Dal 2000 al 2012 gli asset della banche europee sono esplosi, arrivando a quotare il 350% del Pil dell’eurozona, dal 250% di inizio secolo. Solo le banche inglesi hanno fatto peggio: hanno superato il 500% del Pil. Mentre Deutsche Bank, che nel 1997 aveva asset per poche centinaia di miliardi di dollari, a fine 2012 aveva raggiunto quota 3.000 miliardi, la prima fra le top global systemically important banks. Seguono la HSBC holdings Plc, la JP Morgan Chase, la Barclays PLC, la BNp Paribas e Citigroup.
Questa meravigliosa classifica di bulli ci dice un’altra cosa che dobbiamo ricordare: ossia chi dobbiamo temere. I primi della lista sono i tedeschi, ma non sono i più rilevanti. Le banche angloamericane insieme quotano circa 9.000 miliardi di dollari, e la Bnp Paribas appena 2.500.
Gira gira torni sempre là: da dove tutto è cominciato: il sistema finanziario angloamericano.
Noi europei facciamo paura.
Ma non siamo poi così pericolosi.
Si prepara la terza guerra mondiale: quella del debito
Poiché stiamo scrivendo una nuova storia è bene darle subito un titolo che posizioni chiaramente il problema. Ci viene in aiuto l’Ocse, che ha rilasciato di recente un outlook sul Sovereign borrowing per il 2014.
Leggendolo scopriamo due cose: la prima è che il mondo avanzato, ossia i paesi Ocse, hanno raggiunto e ormai superato, lo stesso livello di debito sovrano che avevano cumulato alla fine della seconda guerra mondiale.
La seconda è che ogni anno questi debiti devono essere rinnovati. E la lotta per accaparrarsi risorse, oltre 10 trilioni lordi previsti per l’anno in corso, sta somigliando sempre più a una guerra, combattuta dagli stati per convincere prestatori sempre più riottosi a dar loro credito.
Al momento ci pensano le banche centrali ad alleviare la pressione, comprando a mani basse i titoli dei loro stati. Ma prima o poi questa pratica non convenzionale finirà. E solo in quel momento la guerra per trovare credito deflagrerà. Non conosciamo le conseguenza, ma ne abbiamo già avuto qualche sentore.
La premessa, come spiega bene l’Ocse, è che gli emittenti sovrani stanno sudando le proverbiali sette camicie per continuare a fare il loro lavoro dovendo gestire rischi crescenti di liquidità, tassi di lungo termine previsti in rialzo e crescita economica globale ancora periclitante. Come se non bastasse rimane ancora senza risposta la domanda principe del nostro tempo. Ossia: quando, quanto velocemente e come le banche centrali smetteranno di inondare con la loro liquidità i mercati mondiali del debito.
I numeri ci dicono che il fabbisogno lordo di prestiti da parte dei paesi Ocse ha raggiunto il suo picco nel 2012, raggiungendo gli 11 trilioni di dollari, che dovrebbero essere diminuti a 10,8 trilioni nel 2013 e dovrebbero diminuire ancora a 10,6 quest’anno. L’alta quota di rimborsi quota il fabbisogno netto in circa 1,5 trilioni, per quest’anno. Ma ciò non toglie che i poveri gestori dei debiti statali abbiano il loro daffare. Anche perché “gli indici del debito statale nei paesi Ocse sono previsti in crescita”.
Peggio ancora: “Per un gruppo dei paesi più grandi dell’Ocse – spiega – il debito generale del governo nel 2014 si prevede raggiungerà il livello più alto dalla seconda guerra mondiale”.
Come uscirne? All’epoca ci pensò l’inflazione a fare piazza pulita dei debiti di guerra, aiutandosi i paesi anche con tassi notevoli di crescita oggi difficilmente replicabili. Oggi l’uscita da questa situazione è complicata anche dalla circostanza che il fabbisogno di rifinanziamento per l’area Ocse raggiungerà il 29% del totale del debito esistente a lungo termine (che pesa circa l’88% del totale del portafoglio) entro tre anni, durante i quali, a quanto dicono i banchieri centrali, anche il loro grazioso aiuto inizierà a venir meno.
Detto in parole semplici: si rischia di rimanere a secco. Il che a un livello di debito Ocse, aggiustato per i prezzi, che ormai ha superato il 116% del Pil, non è esattamente rassicurante.
Per la cronaca (storica) dopo la guerra, quando eravamo al livello di oggi, il debito/Pil Ocse era crollato sotto il 40% e dopo i vari boom, grazie alla crescita, era sceso ancora intorno al 20% nei primi anni ’60, dove, fra alti e bassi, lo troviamo ancora nella seconda metà degli anni ’70, quando la corsa del debito pubblico inizia senza freni.
E questo, meglio di ogni altra cosa, racconta cosa sia successo nei paesi avanzati negli ultimi quarant’anni.
L’overview dell’Ocse sullo stato attuale dei debiti sovrani ci fornisce anche altre informazioni di cui è bene tener conto.
Ad esempio è utile sapere che Giappone (34,1%) e Stati Uniti (33,3%) hanno totalizzato il 67,4% del totale del fabbisogno lordo di finanziamenti nel 2013 (10,8 trilioni). Noi italiani, terzi nella graduatoria Ocse dei debiti pubblici, abbiamo assorbito appena il 5,6%.
Ovviamente, anche quest’anno il copione si ripeterà sostanzialmente simile. La quota del Giappone è prevista in rialzo, al 34,9%, così come quella degli Usa, al 33,5, mentre noi italiani scenderemo al 5,1%.
Questi dati ci dicono una cosa elementare ma mai opportunamente sottolineata: America e Giappone assorbono oltre i due terzi del fabbisogno lordo di prestiti nel mondo. Questa evidenza spiega bene perché il comportamento delle loro banche centrali, impegnate in politiche monetarie ultraespansive, sia diventato così strategico. E soprattutto evidenzia come siano loro i grandi protagonsti della terza guerra mondiale: quella del debito. Le loro decisioni impatteranno, che piaccia o meno, sul resto del mondo.
Per comprendere perché basta farsi una domanda semplicissima: cosa succederebbe al mercato mondiale del debito se le banche centrali americana e giapponese smettessero di comprare a mani basse bond pubblici? Elementare Watson aumenterebbero i tassi.
Per comprendere quanto sia rilevante l’effetto degli acquisti di bond pubblici sul mercato da parte di Fed e BoJ, è opportuno riportare alcune cifre raccolte sempre da Ocse.
Dal 2008, per affrontare le conseguenze dello shock Lehman, tutte le banche centrali hanno aumentato i loro bilanci. La Fed, che prima del 2008 aveva asset per poco più del 5% del Pil americano, oggi è arrivata al 21,2%. La BoJ, che partiva dal 25% ora quota il 36,6%. La Bank of England è passata da cira il 5% al 25,3, mentre la Bce dal 13% circa al 25,9%.
Al di là dell’ampliamento dei bilanci è cosa c’è dentro che fa la differenza. E Fed e BoJ hanno acquistato a mani basse titoli di stato, al fine evidente di tenere bassi i tassi d’interesse garantendo il finanziamento del debito pubblico “fuori” dal mercato.
Conseguenza: nel 2011 la Fed aveva comprato il 60,2% dei titoli emessi dal Tesoro americano. A fine 2013 la banca centrale teneva a bilancio 2,15 trilioni di dollari di titoli americani, pari al 18,4% del totale dei titoli disponibili per le negoziazioni nel mondo. In pratica la Fed è l’azionista di riferimento del Tesoro americano.
Da notare come la gran parte di questi titoli, pari a 1,308 trilioni, abbiano scadenze superiori a cinque anni, pari al 40% dei 3,276 trilioni di titoli con questa scadenze emessi dal Tesoro.
Perché vi affliggo con questi numeri? Perché se i tassi saliranno, come pure la Fed minaccia ogni tanto, saranno proprio le scadenze più lunghe, di cui la Fed è imbottita, a soffrire le perdite più pesanti in conto capitale.
Stesso discorso vale per i giapponesi. Abbiamo già visto cosa sia successo in giappone nell’ultimo anno di QQE, ossia di diluvio monetario. Lato bilancio pubblico, è interessante notare che la BoJ sta comprando 7 trilioni di yen al mese di titoli del tesoro giapponese su tutta la curva dei rendimenti, che equivalngono a circa il 70% delle nuove emissioni gonvernative.
Tale politica, seguita pervicacemente nell’ultimo anno, ha portato il totale dei titoli pubblici giapponese in mano alla BoJ dagli 89 trilioni di yen di fine 2012 ai 143 di fine 2013, che dovrebbero diventare i 190 trilioni di fine 2014, ossia il doppio del 2012. Il mercato avrebbe mai comprato tutti questi JGBs? Evidentemente no.
Ed è proprio in questa strategia da economia di guerra che si individua il vulnus sistemico che preoccupa tutti coloro che dicono che, prima o poi, le banche centrali dovranno finirla. Abbiamo visto che Giappone e America assorbono oltre i due terzi del debito annuale di cui abbisognano il governi dei paesi Ocse. E abbiamo visto che quote rilevantissime di questi fabbisogni vengono comprati fuori mercato, dalle banche centrali.
Cosa significa tutto questo? Che poche decine di persone, ossia i partecipanti ai board delle due banche centrali, tengono in pugno l’economia mondiale.
Anche questa è guerra.
I nuovi mostri: l’economia di guerra della Fed e i suoi danni (ai) collaterali
Prendiamo fiato un attimo e mettiamoci qualcosa di pesante. Qui, a quota 6 trilioni di euro, dove finisce il mercato europeo dei repo, l’aria inizia a farsi frizzantina e magari pulsano le orecchie per l’altura e i polmoni, ormai in debito d’ossigeno, bruciano. Ma non spaventatevi, siamo a buon punto. Rimane l’ultima vetta, quella più ostica. Dobbiamo arrivare lassù, dove tutto è cominciato quasi cent’anni fa e dove tutto, necessariamente, finirà: il mercato americano: quota 10 trilioni di dollari.
Mentre la guerra infuria nella vecchia Europa, nel 1917, la Fed, che un nugolo assai ristretto di banchieri americani, fra i quali importanti attaché del mitico J.P Morgan, avevano disegnato sette anni prima nell’ormai celebre vertice svolto a Jeckyl Island, celebra il suo quarto compleanno.
Gli storici si compiaceranno di notare, anni dopo, l’incredibile rassomiglianza fra il progetto di Jeckyl Island e lo statuto della Fed. Ma a noi europei, ormai rotti alla consuetudine che siano i banchieri a scrivere le leggi che li riguardano, tale singolarità parrà ingenua.
Nel 1917, quindi, la Fed, celebra il suo quarto compleanno e insieme inaugura una nuova tecnica bancaria, al fine, scrive pudica la Bundesbank nel suo studio sul mercato dei repo, “di far arrivare prestiti alle banche”. Il repo, come abbiamo visto, è uno degli strumenti della politica monetaria. Serve a far arrivare liquidità a breve ai mercati e, indirettamente, influenzare i tassi. Perché mai allora dovremmo stupirci?
Perché nel 1917 anche l’America era in guerra, non soltanto l’Europa. Se inventare i repo doveva servire solo a far arrivare prestiti alle banche perché allora non pensarci prima?
Gli eventi storici ci danno una chiara spiegazione. Il 4 aprile 1917 presidente americano Wilson presentò al Congresso la proposta di entrare in guerra; il 6 aprile gli Stati Uniti dichiararono guerra alla Germania. E cosa fa la Fed?
Fra l’aprile e il giugno del 1917 i Bills, cioé i titoli del Tesoro Usa a breve termine, scontati dalla Fed aumentarono del 526%. Quelli acquistati direttamente del 192%. Per converso gli acquisti di titoli di Stato diminuirono del 44%. In pratica la banca centrale inizio ad accettare titoli a breve come collaterale scambiandoli con liquidità. Ecco l’atto di nascita del mercato dei repo. Che tutt’oggi, non a caso, si fonda in larghissima parte proprio sui Treasury. Un’altra conferma della vocazione delle banche centrali a fare economia di guerra.
Tanta liquidità servì al governo americano a finanziare la guerra pure al prezzo della prevedibile inflazione, e pure a vincerla, evidentemente. E siccome lo strumento si dimostrò efficace, le Fed e le banche continuarono ad usarlo per tutto il decennio successivo, i ruggenti anni Venti del credito a go go. Grazie ai repo, si poterono originare i prestiti che condussero alla straordinaria crescita di Wall Street prima del ’29.
Perché, vedete, alla fine questo straordinario strumento di politica monetaria e, conseguentemente di circolazione finanziaria, porta con sé la solita spiacevole controindicazione: alimenta l’appetito. Essendo il modo più semplice e veloce per far girare i soldi, anche perché assicurato dal collaterale, è anche, inevitabilmente il più pericoloso perché induce la convinzione che i propri collaterali troveranno sempre un qualche fornitore di liquidità. Mentre, e lo abbiamo visto anche di recente, la liquidità a volta, quasi magicamente, scompare. E perciò un mercato costruito per essere liquido rischia di essere distrutto, da un evento del genere. L’essiccarsi della liquidità, infatti, distrugge gravamente il valore dei collaterali che, non trovando acquirenti, si deprezzano, richiedendo aumento dei margini di deposito, quindi altri collaterali, fino ad un avvitarsi distruttivo che abbiamo visto all’opera nel 2008, quando venne giù quasi tutto.
Il danno collaterale dei repo, insomma, sono i danni ai collaterali. Quando dopo il crollo di Lehman del 2008, che era molto attivo nel mercato dei repo, si perse la fiducia nei collaterali che non fossero ad alto rating, successe che, non essendovene a sufficienza, le transazioni repo si congelarono, distruggendo altro collaterale e contribuendo alla distruzione di asset di quegli anni.
Ma facciamo un altro passo indietro. L’ondata di moralismo che colpì gli Stati Uniti durante la Grande depressione, fece finire fuori moda i repo per tutti gli anni ’30 e persino durante la Seconda Guerra mondiale. La Fed li tirò fuori di nuovo solo nel 1949. Ma fu solo nel 1951, dopo che il Congresso approvò il Treasury Federal Reserve Accord, che sanciva l’indipendenza della Banca centrale assegnandole la responsabilità della politica monetaria, che “i repo divennero nuovamente attrattivi”, come nota la Buba.
Il resto del mondo arrivò ai repo solo molto più tardi. Nel 1970 alcuni paesi iniziarono a fare transazioni repo per fare politica monetaria. Nella Gran Bretagna i primi repo che usavano come collaterale obbligazioni del governo avvenero nel 1997, proprio come in Giappone, e un anno dopo ci arrivò anche la Svizzera. L’Eurosistema iniziò a farne uso sin dal 1999, quindi dal primo istante di vita dell’Unione monetaria. E ciò spiega perché il mercato europeo dei repo sia così fiorente. E quindi fonte di grandi rischi.
Oggi i repo sono uno strumento fondamentale della politica monetaria, tramite il quale le banche centrali gestiscono la liquidità e orientano il tasso a breve. Il perché è evidente. Essendo la banca central la prima fornitrice di liquidità del mercato, se fa un repo con un soggetto finanziario a un certo tasso x, tutti gli altri operatori dovranno avvicinarsi a questo tasso per le loro operazioni simili. Inoltre, molte banche centrali usano i repo per gestire le loro riserve. Insomma: sono il passato, il presente e il futuro.
Dovremmo inquietarci per questo?
Non so voi, ma quando leggo nello studio della Buba che “durante la crisi questo processo (di trasmissione monetaria, ndr) si è quasi interrotto, costringendo il consiglio della Bce ad adottare misure straordinarie” un po’ m’inquieto. Mi prende quel capogiro che ogni tanto viene ad alta quota, e mi vorrei disteso sulla spiaggia a prender sole, piuttosto che vagare a certe altitudini.
Comunque sia, queste misure decise dalla Bce, ossia la fissazione di tassi fissi per i rifinanziamenti e l’allargamento dei collaterali ammessi per i repo, hanno avuto come controindicazione che si è ridotto il turnover nel mercato dei repo. Ossia che si sono fatti meno contratti. Ed è facile capire perché: se posso attingere direttamente alle Bce a prezzo fisso e con collaterale meno pregiato, non mi metto certo a cercare una controparte commerciale per trovare la mia liquidità. Ecco un altro caso di “glaciazione”, prodotto dall’azione della banca centrale.
Ma eccoci quasi arrivati: s’intravede quota 1o trilioni, circa il 70% del Pil americano. Quassù, ci dice la Buba, il mercato dei repo è pressoché predominato dai Treasury Usa, ma c’è spazio anche per gli Mbs. Asset verso i quali la Fed non fa mai mancare la sua amorevole assistenza, conscia che una turbolenza sui Treasury o sugli Mbs avrebbe effetti peggiori di quella vissuta dalla carta commerciale nel 2007. Potrebbe distruggere una quantità inusitata di collaterale.
La dipendenza del mercato americano dei repo dai titoli di stato americani è fonte di grande preoccupazione per i regolatori. Ed è facile capire perché: una fibrillazione dei Treasury, come quando c’è stato lo shut down, ha effetti immediati su queste transazioni.
Il mercato repo americano si distingue da quello europeo perché si basa in larga parte sul tri-party repo (circa due terzi) con, quindi sull’interposizione di un mediatore fra le due parti che contrattano l’operazione. In Europa tale ruolo viene svolto da Controparti centrali.
In America dalle banche. Il tri-party repo, scrive la Buba, “è la più importante fonte di finanziamento per le banche d’investimento e i broker, tramite il quale ottengono la liquidità a breve per finanziarie le loro obbligazioni di portafoglio”. Le particolarità di funzionamento del repo americano ha come conseguenza “l’emergere di rischi notevoli di contagio fra operatori, come si è visto nel caso Bear Stears”, scrive la Buba. E tanto basta per caire che stiamo ballando, anche noi europei, sulla solita soglia del vulcano. D’altronde perché stupirsi: a quota 1o trilioni non si può essere al sicuro.
Rilevo una curiosità Nel try-party repo solo due banche sono autorizzate a fare da clearing house. Fra queste c’è l’onnipresente J.P Morgan, che è sempre quella di Jeckyl Island.
E così il cerchio si chiude. L’arma da guerra, il repo, diventa strumento principe della guerra del nostro tempo: quella contro la paura dell’illiquidità e la difesa dei collaterali.
Una volta le armi servivano a difendersi dal nemico.
Oggi quel nemico siamo noi.
I nuovi mostri: l’alba delle controparti centrali
Una delle conseguenza meno esplorate dell’esplosione della crisi finanziaria del 2008 è stata il sorgere prepotente delle Controparti centrali. Prepotente perché imposto da uno dei tanti G20 andati in scena dopo il grande crollo per cercare di salvare il mondo. E in questa hybris regolatoria i pezzi grossi hanno determinato di affidare a queste entità, che c’erano anche prima ma facevano (e fanno) dell’altro, di entrare a gamba tesa nel florido mercato dei derivati Otc, che, come abbiamo visto, muove appetiti corposi e correlati rischi.
Dal 2009 in poi tanta strada è stata fatta e tanta carta riempita di buone intenzioni. Col risultato che ormai le controparti centrali, che sono normali clearing house, hanno finito col connotarsi come il costituendo pilastro della stabilità finanziaria presente e, soprattutto futura.
Senonché, siccome, com’è noto, il diavolo fa le pentole ma non i coperchi, ecco che i nostri regolatori notano con malcelato disappunto che centralizzare le operazione di compensazione (clearing) finanziaria di tutto il mondo in pochi soggetti, come di fatto sta succedendo in ossequio alle disposizione del G20, crea un rischio sistemico che prima non c’era (nel senso che ce n’era un altro).
Ossia: siccome le controparti centrali ora faranno assai più di quanto facevano prima, proprio per ridurre i rischi che abbiamo visto all’opera nella Grande Crisi, è venuto a determinarsi un rischio nuovo, che prima non c’era, che è “senza precedenti e altamente distruttivo”, almeno secondo quanto dice Benoit Couré, banchiere centrale della Bce, che all’emergere prepotente – sempre perché imposto – delle controparti centrali – ha dedicato un pregevole discorso qualche giorno fa (“Risks in Central counterparties (CCPs)”, 23 gennaio 2014).
Per dirla in altre parole: siamo condannati a passare costantemente dalla padella alla brace. Prima o poi finiremo con lo bruciarci sul serio, quindi.
Essendo, a quanto pare, impossibile sfuggire al destino amaro dell’instabilità, vale la pena almeno cercare di capire di cosa stiamo parlando.
Le controparti centrali (CCPs) svolgono un ruolo molto importante nel sistema finanziario internazionale, segnatamente all’interno dell’Ue. I dati forniti da Couré ci dicono che nel 2012 le clearing house europee hanno compensato, in valore nozionale, circa 200 trilioni di euro (200 mila miliardi) di derivati quotati e altrettanti trilioni di transazioni repo. Il grosso del lavoro sui derivati sta in capo a Eurex, mentre la maggior parte delle operazioni su repo è appannaggio di LCH Clearnet Lt, società rispettivamente tedesca e inglese, così come è inglese la ICE clear Europe, mentre è francese la LCH Clearnet SA. C’è anche un clearing house italiana, la CC&G.
Le CCPs agivano anche sul mercato dei derivati OTC, quindi non regolamentati, ma affidati a meccanismi bilaterali. In questi contratti, come abbiamo visto, una terza parte si interpone fra le due controparti. Opera quindi un meccanismo di compensazione bilaterale, mentre le clearing house si distinguono per essere camere di compensazioni multilaterali.
Non è un semplice dettaglio tecnico. “Le CCPs – spiega Couré – consentono di “nettizzarre” multilateralmente le esposizioni, così che un certo livello di protezione dal rischio viene raggiunto con un minor ammontare di collaterale, o, viceversa, un certo livello di collaterale può consentire un più alto livello di protezione dal rischio”.
Il principio è molto semplice: la compensazione multilaterale, proprio perché interviene fra più soggetti che possono essere contemporaneamente sia debitori che creditori diminuisce l’esposizione globale del credito del sistema, e di conseguenza, il rischio, che perciò genera una minor richiesta di capitale a garanzia (il collaterale). In sostanza consente di giocare la guerra della finanza con meno munizioni, ma con un volume di fuoco crescente.
Chiaro perciò che le CCPs abbiano incontrato il favore dei regolatori, da sempre crucciati dalle mancanze di capitale delle nostre istituzioni finanziarie.
Si stima, dice sempre Couré, che dopo la migrazione nella loro piattaforma delle transazioni sui derivati OTC, la loro operatività crescerà di almeno il 25% globale. Ciò strapperà alle banche d’affari, finora dominus incontrastate di questo mercato, una fetta notevole delle loro commissioni.
Considerate che prima delle migrazioni le CCPs, a livello globale, hanno mediato 142 trilioni di derivati, a fronte dei 362 trilioni delle banche. Dopo la migrazione si stima che le CCPs compenseranno 268 trilioni di derivati a fronte dei 237 delle banche. Figuratevi quanto saranno contente.
Le buone notizia finiscono qui.
Couré individua con chiarezza le criticità alle quali ci espone questa svolta sistemica.
La prima è la concentrazione di questi soggetti, che diventano sempre più grossi, “di importanza sistemica senza precedenti”. Il default di una clearing house, perciò, “potrebbe condurre a un distruzione sistemica molto seria”. Come se finora avessimo scherzato.
Il secondo rischio deriva dal fatto che le banche, uscite dalla porta, stanno rientrando dalla finestra. “Un numero crescente di banche – dice – sta partecipando alle CCPs in tutto il mondo”. Comprensibile, vista la quantità di soldi che gira. E questo collegamento può causare serie criticità che ognuno può immaginare.
Terzo rischio: l’interrelazione profonda fra le CCPs. “A causa della mutualizzazione, perdite o carenze di liquidità, nel caso di default di un componente, possono diffondersi agli altri partecipanti”, spiega Couré. E, come se non bastasse tale interrelazione non si limita alle CCPs, visto che a loro volta, sono collegate con altre istituzioni finanziarie”.
Tanti interrogativi generano una risposta che non può che essere ulteriormente regolatoria. Quindi un livello di risk management più elevato da chiedere alle CCPs, una più profonda attività di due diligence da richiedere alle banche che partecipano al loro capitale. E poi “un robusto regime di recovery o risoluzione”, in modo che se devessero fallire potrebbero farlo ordinatamente.
Detto in parole semplici: stiamo creando nuovi mostri che potrebbero fare danni planetari, e pensiamo di imbrigliarli con delle sane regole di comportamento.
Con la buona educazione.
Come se non avessimo fatto altro negli ultimi anni. Inutilmente, peraltro, visto che l’entità delle crisi che abbiamo originato è stata sempre direttamente proporzionale all’incremento della regolazione.
Detto in parole ancora più semplici: stiamo creando le premesse per il prossimo disastro.
Ultima chiamata per le Banche centrali
In quanto punta avanzata dell’intervento pubblico in economia, le banche centrali si trovano davanti al guado più impegnativo della loro lunga storia. La loro stessa sopravvivenza è diventata oggetto di discussione.
Il fatto che tale circostanza sia confinata nel dibattito accademico, come mostra un recente paper della Bis (“Monetary policy and financial stability: what role in prevention and recovery?”) non muta la sostanza del problema: le banche centrale sono sorvegliate speciali.
Chiamate a dar conto delle loro politiche dagli stessi (gli stati) che le hanno volute e lasciate libere di creare, innanzitutto moneta, oggi si trovano a dover gestire aspettative crescenti che, qualora disilluse, possono creare le condizioni per la loro definitiva irrilevanza. O, peggio ancora, per la definitiva percezione della loro nocività.
Il paper della bis racconta in breve la storia del central banking nelle diverse epoche della nostra storia economica recente: durante il gold standard (1870-1914), negli anni intercorsi fra le due guerre, nel periodo di Bretton Woods (1944-1971) e nel periodo successivo, che dura fino ad oggi, notando come l’evoluzione delle banche centrali sia andata di pari passo con il peggiorare dell’instabilità finanziaria, conseguenza non intenzionale provocata dallo sforzo di assicurare una politica monetaria stabile.
La grande crisi del 2008 segna il definitivo punto di svolta. Da allora le banche centrali, “guidate” dalla Fed, che per il peso specifico che rappresenta e per le responsabilità che ricopre, stante la sua natura di emittente della valuta internazionale, hanno dilatato allo sfinimento i propri bilanci “salvando” il sistema finanziario, senza che però l’economia abbia ripreso lo slancio che tutti speravano che ne derivasse. In alcuni casi, anzi, l’azione delle banche centrali è stata percepita come prodromica ad ulteriori scompensi, quando non direttamente la causa dei problemi attuali.
Da ciò ne derivano alcuni rischi, per queste entità, che riguardano più che la loro effettiva esistenza (non siamo ancora culturalmente attrezzati per fare a meno del central banking), la loro reale rilevanza. Il monte di debiti accumulato in questi anni dagli Stati, e indirettamente dalle stesse banche centrali, può essere il detonante di una situazione che, come scrive la Bis, “può riportarci indietro nel passato”. A un’epoca di repressione finanziaria accompagnata da un’esplosione dell’inflazione.
La qualcosa vanificherebbe la funzione stessa delle banche centrali quali guardiane della stabilità dei prezzi.
I banchieri centrali sono consci di tale situazione. Non a caso, in ogni dove, ricordano che la politica monetaria non può fare da sola. Che servono le riforme strutturali. Che gli stati devono farsi carico delle necessarie correzioni fiscali per sanare i bilanci pubblici, mentre le Banche centrali sono chiamate a difendere con le unghie e con i denti la loro sacra indipendenza. E tutte le cose che sappiamo già.
Ciò non toglie che saranno proprio le banche centrali le prime vittime della “rabbia” dei cittadini qualora le cose non vadano per il verso desiderato. Tale questione in Europa è particolarente sentita, vista la crescente disaffezioni dei popoli europei verso la Banca centrale europea che, al momento, è la più potente e la più fragile delle banche centrali, non avendo alle spalle uno stato ma un “semplice” trattato che la legittimi.
Quali sono allora i rischi cui si trovano a dover far fronte i nostri banchieri centrali?
Il primo, il più devastante a livello sistemico, è la perdita della loro credibilità. Una banca centrale poco credibile, in regime di fiat money (ossia di moneta puramente fiduciaria), implica la perdita della credibilità della moneta che la banca rappresenta. Tale perdita di credibilità, scrive la Bis, può scaturire da “un gap fra quello che si aspetta le banche realizzino e quello che possono realizzare sul serio”. Ne può scaturire un circolo vizioso, aggiunge la Bis. “Il rischio è reale. Ci si può chiedere se tali forze stiano operando in Giappone, dove la banca centrale non è ancora riuscita a normalizzare i tassi, costringendola a politiche sempre più audaci“. Ma in generale, l’aumentato livello di aspettative che si è concentrato sulle banche centrali da parte di politici, operatori di mercato e grande pubblico “è una ricetta per una sicura delusione”.
Il secondo rischio, non meno rilevante, è che si sviluppi la percezione che l’opera delle banche centrali abbia come conseguenza quella di “radicare l’instabilità”. Ossia “una nuova forma di inconsistenza”. “Indicazioni che questo rischio può materializzarsi non sono difficili da trovare. Le banche centrali stanno esplorando il limite estremo delle misure monetarie, le posizioni fiscali in alcuni giurisdizioni sono insostenibili, nel lungo periodo, e le resistenze affinché si implementassero requisiti più stringenti di capitale e di liquidità per le banche sono state feroci”.
Allo stesso tempo la politica di tassi praticamente nulli (per non dire negativi) portate avanti dalla Fed (che lo studio, timidamente non nomina ma tratteggia) possono essere la causa degli squilibri globali futuri, aumentando la percezione, appunto, della loro vocazione (indiretta) all’instabilità. “Il rischio – spiega – è che l’economia globale si possa trovare in un ingannevolmente stabile disequilibrio“.
La somma dei due rischi, ci conduce al terzo: un cambio di regime epocale: quello del “ritorno al futuro”. Ossia della fine dell’utopia di una crescita globale integrata accompagnata da una stabilità di lungo periodo dei prezzi. “Finora l’assetto istituzionale si è dimostrato resiliente agli shock della Grande Crisi Finanziaria – nota la Bis – Ma potrà reggerne un altro?”
La domanda non è peregrina. Le misure messe in campo da stati e banche centrali dal 2008 in poi sono necessariamente irripetibili. Né gli stati né le banche centrali hanno la possibilità di allargare ulteriormente i cordoni della borsa. Anzi, li devono serrare, e neanche poco, dovendo anche fare i conti con gli effetti distruttivi che può generare la risacca.
“Ci sono segni che la globalizzazione sia minacciata – osserva – segnali di crescenti protezionismi, nel commercio e nella finanza, mentre gli stati lottano per fare i conti con la loro perdita di sovranità. Nel frattempo il consenso sul merito della stabilità dei prezzi si sta sfilacciando”.
Ed ecco sorgere la grande tentazione, che ormai appare a molti l’unica soluzione: “Mentre la memoria del costo dell’inflazione impallidisce, cresce la tentazione di sbarazzarsi degli enormi oneri del debito attraverso una combinazione di inflazione e repressione finanziaria. Questo sarebbe un mondo particolarmente ostile per l’istituzione del central banking”.
Insomma: le banche centrali rischiano grosso.
Ammesso che a qualcuno importi.
L’anno (bancario) che verrà
La chiusura dell’accordo sull’Unione bancaria è la degna conclusione di un anno (bancario) vissuto pericolosamente per l’eurozona. Ma allo stesso tempo conferma che le banche saranno le grandi protagoniste anche dell’anno che verrà.
Il 2014 in tal senso sarà un anno di preparazione e di riorganizzazione dell’intero settore bancario in vista dell’avvio della supervisione unificata della Bce, da una parte, e dell’attivazione degli altri due pilastri dell’Unione bancaria, ossia il meccanismo di risoluzione e quello di garanzia dei depositi, previsto per il primo gennaio 2015. Sempre che l’europarlamento approvi le norme relative.
Allo stesso tempo, il 2014 sarà anche l’anno del tapering della Fed. La Banca centrale americana ha già annunciato che inizierà a ridurre gli acquisti di bond di dieci miliardi di dollari al mese e i mercati, che al momento hanno assorbito la notizia senza problemi, dovranno farci i conti. Le tensioni, come già accaduto in passato, potrebbero scaricarsi innanzitutto sui paesi emergenti. Ma è evidente che qualora la mossa della Fed fosse maldigerita dai mercati gli effetti sarebbero evidenti anche nell’eurozona, proprio nell’anno in cui la zona euro spera di tornare alla crescita.
Il combinato disposto Fed-Unione bancaria, con il suo portato di asset quality review sugli asset bancari europei, rischia di avere effetti notevoli nel settore bancario dell’eurozona. Non a caso qualche settimana fa Vitor Constancio, parlando a Dublino, abbia detto che non sarebbe sorpreso se il meccanismo di supervisione “inaugurasse un periodo di ristrutturazioni”. Detto in soldoni, una bella stagione di fusioni e acquisizioni, magari con le banche più forte e meno esposte su bond sovrani “rischiosi” nel ruolo di aggregatori.
E qui veniamo ai casi nostri. Le banche italiane è inevitabile finiscano sotto tensione, visto l’orientamento restrittivo annunciano dalla Bce sulla valutazione del rischio dei bond sovrani, di cui le nostre banche sono imbottite. Se si applicassero le regole di Basilea III ai 400 miliardi stimati di titoli di stato italiani in mano alle banche (anziché quelle più favorevoli previste dalla legislazione europea), queste ultime si potrebbero vedere costrette a mettere da parte capitale per una cifra che potrebbe oscillare fra i 6 e i 16 miliardi, a seconda della classe di rating alla quale si farà riferimento. Hai voglia a ricapitalizzare Bankitalia. O, in alternativa, dovrebbero vendere i titoli di stato, con effetti deleteri sul nostro bilancio pubblico.
Perché poi questo è il problema, che tutti dicono di voler risolvere: il famoso collegamento fra banche residenti e debito sovrano. Se le banche italiano vanno in affanno, anche il bilancio dello stato ne risente, sia direttamente, perché può venir meno uno dei principali acquirenti dei suoi titoli, sia indirettamente, perché può essere costretto a ricapitalizzarle, visto che il fondo di risoluzione dell’Unione bancaria non si vedrà prima del 2025.
In questo senso il 2014 potrebbe essere un anno orribile per il bilancio dello stato italiano, già alle prese con una correzione del deficit basata sulla scommessa di uno spread in calo.
Ma le tensioni non riguarderanno solo le grandi banche.
Le piccole stanno pure peggio.
Queste ultime in particolare, responsabili grossomodo di circa la metà del credito erogato alle Pmi, sono diventate oggetto delle preoccupazioni della Banca d’Italia, secondo quanto riporta il Financial Times, che ipotizza che si arriverà a un consolidamento del settore bancario italiano entro la metà del 2014.
Alcuni analisti stimano che sia probabile addirittura la creazione di una bad bank con 10-12 miliardi di capitale (presi dove?) dove far confluire tutti i crediti incagliati delle banche medio-piccole. E in questa complessa partita giocherà di sicuro un ruolo la decisione del governo di rivalutare le quote di Bankitalia, fortemente voluta dalle banche proprio per passare con maggiore sicurezza l’esame della Bce, il cui provvedimento relativo è ancora all’esame delle Camere e in attesa del parere della Bce. Che non è vincolante, come ripete sempre il ministro Saccomanni, però pesa e, soprattutto, ritarda. Specie se è vero, come riportano le cronache, che la Bundesbank si è messa di traverso.
Le banche italiane, insomma, non saranno semplici protagoniste ma saranno in prima linea dell’anno che verrà.
Alla riorganizzazione interna, infatti, è assai probabile seguirà una riorganizzazione intereuropea, con le nostre banche nel ruolo di facili prede, visto che sono imbottite di sofferenze e titoli di stato italiani e quindi a serio rischio di patrimonializzazione.
La cronaca ci dirà se il 2014 sarà l’anno in cui verrà meno l’ultimo baluardo del nostro sistema produttivo, ossia quello finanziario, da tempo oggetto delle amorevoli attenzioni dei giganti europei. Non sarà necessario aspettare l’Unione bancaria per spezzare il nesso fra debito sovrano e banche. Basterà una robusta migrazione di pacchetti azionari.
In ogni caso, auguri.
Ci rivediamo il 13 gennaio 2014.
Quel connubio fra euro e monete locali
Sicché pure in Gran Bretagna, che pure ha una moneta sovrana, una banca centrale e una politica monetaria, si sono affermati negli ultimi anni una serie di circuiti di monete locali. Ciò dimostra come l’uso e l’utilità di questi strumenti di pagamento non abbiano nulla a che vedere con la valuta del paese che li ospita.
Il fenomeno è diventato talmente interessante che la BoE gli ha dedicato un articolo nel suo ultimo Quaterly bulletin, intitolato “Banknotes, local currencies and central bank objectives” che tutti dovrebbero leggere se non altro per capire cosa siano e come funzionino questi strumenti, che non sono certo un’invenzione della modernità, ma una tradizione storica che si perpetua nel tempo. Dovrebbero leggerlo anche i nostri governanti, sempre a corto di idee, e i nostri banchieri, a cominciare da quelli di Bruxelles, perché magari si convincano che la logica “Euro o morte” alla fine denota solo un chiaro limite di immaginazione, e una scarsa volontà di pensare l’economia.
La prima circostanza che vale la pena sottolineare è che “alcune città inglesi hanno adottato schemi di moneta locale per promuovere la sostenibilità delle economie del territorio”. Quindi lo scopo di queste strumenti è “incrementare la spesa all’interno delle comunità locali”, ossia i consumi interni. Le monete locali inglesi, che ricordano quelle “reali” emesse dalla BoE hanno un valore facciale di una sterlina ed “è improbabile presentino rischi per la stabilità finanziaria e monetaria”, sottolinea la banca centrale, purché sia chiaro che queste monete non sono sterline.
Prima di entrare nel merito, vale la pena fare un piccola ricognizione storica, che ci dice moltissimo sulla moneta e sulla logica che ne guida l’utilizzo.
La Banca d’Inghilterra iniziò ad emettere banconote nel 1694, ma solo dal 1921 le è stato concesso il monopolio dell’emissione. Tuttavia, caso più unico che raro, ad alcune banche inglesi è stato concesso di emettere banconote, segnatamente in Scozia e nell’Irlanda del Nord. Per tale ragione, nel 2009, il governo firmò una legge che provvedeva, in caso di insolvenza di qeste banche, a garantire i possessori il riscatto a valore nominale di queste banconote private.
In aggiunta a queste banconote ci sono altri mezzi di pagamento a disposizione degli inglesi per i loro scambi. Fra questi i vouchers, e, più di recente, le banconote locali. Una tradizione, quest’ultima, che affonda le radici in una storia lontana.
E’ opportuno ricordare alcune nozioni, che abbiamo già incontrato, ma che è sempre utile ripetere. La moneta svolge tre funzioni chiave che ne giustificano l’esistenza: è un mezzo di scambio, quindi serve a rendere possibili i pagamenti; è una riserva di valore, quindi può essere tesaurizzata e venduta al pari di qualsiasi altra merce, è una unità di conto, ossia serve a misurare il valore di un qualsiasi bene o servizio.
In quanto mezzo di scambio e riserva di valore, la moneta, quindi, è essenzialmente un’obbligazione. Chi ha emesso la moneta, in pratica, ha un debito nei confronti di chi la detiene. La sua qualità di riserva di valore ha spinto le società, nella storia, a servirsi di metalli preziosi che in qualche modo, per convenzioni, incorporano un valore.
Tanto è vero che i primi banchieri inglesi del XVI secolo erano gli orafi, che prendevano il metallo prezioso come deposito e emettevano ricevute che certificavano il loro debito nei confronti dei proprietari del metallo. Questi ultimi, nel tempo, trovarono più pratico usare queste ricevute come mezzo di pagamento piuttosto che il metallo conservato dagli orafi, incoraggiandoli a prestare quanto avevano in deposito nella convizione che assai difficilmente tutti i depositanti avrebbero chiesto la restituzione dei loro beni. Che poi è come funzionano le banche ancora oggi.
Nel corso del XVII secolo il governo inglese iniziò a chiedere prestiti agli orafi per finanziare una serie di guerre contro la Francia. Tali prestiti furono concessi a tassi talmente elevati che provocarono una serie di default statali. E così si arrivò, nel 1694, alla fondazione della Banca d’Inghilterra, l’antesignana della BoE, concepita proprio allo scopo di individuare una forma di finanziamento più a basso costo per lo Stato. E’ l’atto di nascita delle banche centrali, sorta di ircocervo fra stato e mercato. La Banca emetteva note di banco (poi diventate banconote) sulla base del capitale versato dai soci privati.
Senonché, nel frattempo, le solite turbolenze finanziarie avevano iniziato a dragare a tal punto le riserve aurifere delle banche emittenti che si arrivò, già nel 1821, alla sospensione della convertibilità. Successe di nuovo agli albori della Grande Guerra di cent’anni fa e ancora una volta nel 1931, dopo la breve parentesi del ritorno al gold standard. Lo sganciamento della convertibilità inglese (meno conosciuto del più famoso americano sganciamento del dollaro dall’oro nel 1971) segna l’avvento dell’epoca della fiat money, ossia della moneta di banca centrale sostenuta esclusivamente dalla promessa di pagamento implicita (del governo) rappresentata da questi pezzi di carta (le banconote).
Sorge un dibattito mai sopito in dottrina, fra i cosiddetti cartalisti e i metallisti.Ossia, banalizzando, fra coloro che credono che la moneta abbia un valore convenzionale e chi crede che l’abbia intrinsecamente legato al metallo che la rappresenta.
Mentre la moneta “ufficiale” segue la sua storia, alla sua ombra fioriscono le monete locali che vengono pensate esclusivamente in quanto mezzi di scambio e unità di conto, mentre la funzione di riserve di valore viene manifestamente scoraggiata, per non dire penalizzata. Il che ha perfettamente senso. Una moneta che non ha valore intrinseco deve essere scambiata. E di conseguenza ha il vantaggio che fa girare l’economia.
Uno degli esempi pià interessanti è quello messo in campo nel 1832 da Robert Owen, un riformatore preoccupato delle miserabili condizioni di vita della working class inglese che creò borse del lavoro a Londra e Bimingham per quotare ed emettere “labour notes” con le quali remunerare i lavoratori, nella convinzione che tale sistema conducesse a una più equa ripartizione della ricchezza fra le classi sociali. Il sistema ebbe un notevole successo all’inzio, ma dopo due anni fallì.
Alcuni decenni dopo, un economista, Silvio Gesell, influenzato dalla crisi argentina del 1890, avanzò l’idea che usando una moneta “accelerata” si potesse sconfiggere la depressione strisciante. L’espediente era emettere moneta soggetta a uno deprezzamento pianificato, in modo tale da incoraggiarne la spendita. Significa privilegiare il ruolo di mezzo di scambio (e unità di conto) e svilire quello di riserva di valore. Il pensiero che c’è dietro che è la moneta serva all’economia, quindi allo scambio, non alla tesaurizzazione (ossia alla rendita).
Un esempio di questo principio si sviluppò in Austria, nel 1932, nella città di Worgl. La città adottò una “moneta accelerata” che si svalutava l’1% nominale ogni mese, nella convizione che l’economia avrebbe tratto giovamento dall’aumentata velocità di circolazione. Ma la banca centrale austriaca mise fine all’esperimento un anno dopo.
Anche negli Stati Uniti, nella lunga depressione degli anni ’30, ci furono diversi esperimenti di moneta locale. Anche a causa dei numerosi fallimenti bancari che provocarano un grave scarsità di denaro. Molti presero a prestito i principi di Gesell, quindi moneta soggetta a periodici deprezzamenti proprio per rivitalizzare l’agonia del sistema produttivo. I sistemi si diffusero in tutto il paese, ma mancò quello che poi è l’ingrediente fondamentale che sostiene una moneta: la fiducia. Pochi accettavano la carta “accelerata” come mezzo di pagamento.
Ma probabilmente l’esperimento più riuscito e tuttora vivente sulle monete locali è quello della banca Wir, in Svizzera, attivo sin dal 1934. Sempre dai tempi della depressione, non a caso. Il sistema fu fondato da alcuni imprenditori proprio per far fronte alla scarsità di valuta seguita alla crisi del ’29. E’ un sistema puramente contabile che prevede di concedere credito agli aderenti. Anche stavolta, la base teorica era quella di Gesell. Solo che invece di prevedere una moneta accelerata, i partecipanti al sistema non percepiscono interessi sulle somme a credito che sono soggette a un tasso negativo se vengono tenute ferme.
Chi ha letto Keynes davvero (e non ne ha solo sentito parlare) troverà eco di tali pratiche in tanti suoi scritti.
Arriviamo ad oggi. I circuiti delle monete locali hanno ripreso vigore in concidenza con l’esplosione della crisi economica. In comune, questi circuiti, hanno il fatto che si tratta di circuiti locali chiusi e limitate ad aree particolari, che usano queste valute per comprare beni e servizi al loro interno. Quindi sono di grande sostegno alle economia di territorio in quanto favoriscono il credito fra i partecipanti e la circolazione degli scambi. Ciò implica, e questo è il suo limite, che quanto più ampio sarà il consorzio dei partecipanti e tanto più benefici saranno gli effetti per il territorio, ma anche il contrario: un piccolo consorzio, implica piccoli vantaggi per il resto dell’economia locale, come nota anche la BoE.
Anche qui, l’ingrediente magico che potrebbe cambiare le cose è la fiducia, che poi è quella che sostiene le banche centrali.
Se tali circuiti fossero sponsorizzati e incentivati dai governi, anziché da piccole comunità locali (pensate ad esempio al circuito Sardex, in Sardegna), forse la moneta “illegale” potrebbe servire l’economia (non finanziaria) assai meglio di quella legale.
Ciò spiega perché alcuni economisti oggi guardino con interesse all’istituzione di circuiti di moneta locale con basi istituzionali più robuste di quanto possano assicurare loro regimi di territorio.
Si arriva così a proposte che è sicuramente utile approfondire, come quella di affiancare all’euro, che è una moneta completa dei tre requisiti che abbiamo visto, una serie di monete locali, magari legate ai singoli stati, che non svolgano il ruolo di riserva di valore. Ne parlano in un libro recente (Come salvare il mercato dal capitalismo) due economisti e storici dell’economia, Massimo Amato e Luca Fantacci.
Ed è interessante leggerlo perché ci fa capire un’altra cosa. Nel dibattito sempre più lacerante fra chi vuole uscire dall’euro e chi vuole restarci, esiste una terza via che solo pochi hanno immaginato e che potrebbe servire allo scopo di far ripartire l’economia senza creare lacerazioni: affiancare una o più monete locali più o meno nazionale (che non svolgano funzione di riserva di valore) all’euro, che rimarrebbe il mezzo internazionale di pagamento, l’unità di conto degli scambi internazionali, e la riserva di valore sui mercati finanziari.
Ciò restituirebbe ai territori quell’autonomia monetaria la cui mancanza viene tanto lamentata e, se ben costruita, potrebbe ridare fiato all’economia, basandosi su un sistema di compensazione multilaterale fra i partecipanti al circuito monetario che di per sé facilita il credito e quindi gli investimenti.
Si dirà che non è possibile. Che è una stupidaggine. I più benevoli diranno che è un’utopia.
Ma questa, semmai, è una buona ragione per lavorarci su.
I governatori dell’eurozona battono un colpo
Dunque Mario Draghi ha confermato, nel corso di un dibattito al Parlamento europeo, che “i bond sovrani verranno sottoposti a stress come altri titoli”.
Non era difficile immaginare che sarebbe finita così, ma averne la conferma serve anche a comprendere che la partita che si sta giocando su questa class di asset è la più strategica, per non dire sistemica, dell’intera eurozona.
Non che avessi dubbi. Ne avevo talmente pochi che mi sono portato avanti col lavoro e, qualche post fa, mi sono inerpicato con grande fatica nella ragnatela della regolamentazione bancaria di Basilea II e III, che anche ieri Draghi ha citato come fonte di ispirazione normativa, spiegando che non tocca certo alla Bce decidere come trattare i bond sovrani, ma proprio ai banchieri di Basilea (che per la cronaca è espressione delle Banche centrali). Alludendo con ciò al fatto, già messo in evidenza dal suo collega della Bundesbank Weidmann, che i regolatori di Basilea fossero stati troppo generosi nel giudicare risk free (e quindi non bisognosi di accantonamento nel capitale di vigilanza delle banche) i titoli di stato.
Abbiamo visto che non è così. Le regole di Basilea, di recente ribadite anche dalla Bri, dicono esattamente il contrario: ossia che tutte le classi di titoli, quindi anche quelli sovrani, sono soggetti a una classificazione del rischio. E fissa anche un criterio di ponderazione, legato al rating, in virtù del quale le banche possono sapere esattamente quanto capitale devono mettere da parte ogni tot di titoli di stato.
Quello che i nostri governatori (Weidmann, Draghi) omettono di dire (difficile credere che sia sfuggito a tutti), è che le regole di Basilea III sono state tradotte nella direttiva europea CRD IV (36/2013) sui requisiti della patrimonializzazione bancaria e in un regolamento (575/2013) che entreranno in vigore dal prossimo gennaio. Il regolamento, in particolare, (articolo 114) fissa un rischio zero per i titoli di stato denominati in valuta nazionale da parte di tutti i paesi europei. Quindi non è tanto Basilea ad aver creato il “problema”, ma semmai il mondo politico europeo.
Questo ovviamente i nostri eurogovernatori non lo dicono.
La conseguenza di questa regolamentazione, quindi, è che i titoli italiani, denominati in euro, hanno la stessa classificazione di rischio di quelli tedeschi. Non per scelta dei banchieri, ma dei politici.
Vale la pena fare un ulteriore approfondimento andandosi a leggere il parere proprio su questo regolamento che la Bce depositò presso parlamento e consiglio europeo, citato nel preambolo. Un passaggio in particolare, laddove si sottolinea che “la Bce sostiene fermamente l’obiettivo di affrontare esposizioni al rischio specifiche relative, tra l’altro, a determinati settori, regioni o stati membri per mezzo di atti delegati che affidino alla Commissione la facoltà di imporre requisiti prudenziali più stringenti”.
Quindi non è che i banchieri non ci abbiano provato a dire come la pensavo. Solo che non hanno avuto successo.
Senonché i nostri governatori centrali intendono spezzare una volta per tutte il legame fra stati sovrani e banche residenti. Che poi è uno dei punti qualificanti dell’Unione Bancaria, sempre che si riesca ad approvarla entro aprile come Draghi ha esortato anche ieri l’europarlamento a fare.
E siccome questa certezza non c’è, ecco che intanto scatta il piano B: ossia usare la supervisione bancaria, che di sicuro è l’unico momento sovranazionale già operativo sul quale nessuno può mettere bocca, come grimaldello per scardinare il più possibile questo nesso stati-banche, in nome della prudente regolazione finanziaria e per evitare che la disciplina di mercato faccia più danni. Quindi per il nostro bene.
Il “fantasma” del governo degli eurobanchieri batte un colpo.
La conseguenza di tale prezzatura dei bond sovrani è evidente: detenere titoli dei Piigs sarà costoso per le banche dell’eurozona, mentre i titoli a rating elevato saranno a rischio zero, quindi gratis, proprio per le regole di Basilea hanno fissato. Una scelta che potrebbe amplificare la frammentazione dell’eurozona, anziché ridurla.
Sinceramente ammirato da tanta finezza, ho visto emergere la questione dei bond sovrani nel dibattito esoterico dei banchieri centrali fino a diventare di dominio pubblico, quindi essoterico, in queste ultime ore. Nella mattina in cui si è tenuto il dibattito di Draghi, il Financial Times riportava una pregevole intervista al responsabile della divisione economica della Bce Peter Praet, che spiegava come fosse necessario prevedere una qualche forma di meccanismo capace di arrivare a una “prezzatura” del rischio dei bond sovrani. Magari un fondo dove le banche siano “invitate” a depositare capitale di vigilanza.
Non è tanto lo strumento tecnico che interessa, ma il principio. E il pretesto economico anche.
Il pretesto economico è questo: i nostri governatori, che temono un’ondata deflazionaria nell’eurozona anche se dicono il contrario (ultimo sempre Draghi ieri), hanno il problema di fare arrivare credito alle imprese evitando che finisca come in passato, ossia che le banche facciano carry trade con i soldi della Bce. Per riuscirci devono “costringere” le banche a dare credito all’economia, scoraggiando quindi l’accumulo di bond sovrani. Così potranno anche spezzare il famoso legame fra stati e banche residenti, la qualcosa obbligherà gli stati a dare corso a tutti i necessari consolidamenti fiscali, visto che non potranno più contare sui soldi delle “loro” banche per finanziare i propri deficit.
Il principio è questo: usare il bastone della presunta market discipline (ovvero la minaccia che i mercati punirebbero scelte non coerenti con la loro fame di certezze) e la carota della regolazione (le famose norme di Basilea) per bypassare una precisa norma votata dalle autorità europee. Ossia che tutti i titoli dell’eurozona siano risk free.
Se la logica economica che guida questo ragionamento può essere comprensibile, rimane un dubbio metodologico sul principio.
E anche una domanda: chi governa l’eurozona: i politici o i governatori?
Il default americano, ovvero la fine del mondo
Per capire perché mai il mondo tremi ogni volta che gli americani giocano col loro debito pubblico basta leggere tre paginette dell’ultima Financial stability review della BoE.
La banca centrale inglese prende talmente sul serio la possibilità che gli americani, fra uno shutdown e l’altro, finiscano col mandare in default il loro debito che hanno analizzato in profondità il ruolo degli Us treasury (i titoli di stato) nel sistema finanziario globale.
Una lettura molto edificante, dalla quale ho tratto una conclusione molto semplice e altrattanto nota: il mondo è una gigantesca bomba finanziaria e la miccia sta a Washington.
Quello che scopro in più leggendo l’analisi della BoE è che già la minaccia di un default è pericolosa per la stabilità finanziaria, trattandosi di un territorio in gran parte inesplorato. “E’ difficile – scrive la BoE – giudicare l’impatto preciso di uno shock sui Treasury”.
La BoE ricorda che i bond americani non hanno clausole di cross-default, ossia quel particolare meccanismo giuridico per il quale un default su una classe di obbligazioni si estende a tutte le classi di obbligazioni di quell’emittente. Ad esempio se io ho un debito per l’acquisto di un automobile e non pago la rata, il mio default sul debito dell’automobile non si estende al debito che ho per il mutuo.
La mancanza di una cross-default provision implica che un default settoriale su una classe di bond americani non si estenda a tutti gli altri. Di conseguenza la magnitudo della crisi dipenderà dal numero e dall’ammontare delle obbligazioni il cui pagamento verrà ritardato.
Nelle ultime cronache da shutdown e debt ceiling dell’ottobre scorso ballavano circa 3.000 miliardi di debito americano, di cui un po’ meno di 500 erano T-bills, e il resto erano notes e bond. In totale parliamo di circa un quarto della montagna di obbigazioni americane in giro per il mondo. Più che sufficienti per far dire alla BoE che “quest’esperienza ha messo in evidenza che l’impatto di uno stress sui titoli americani può rapidamente diventare grande”.
La BoE individue due canali attraverso i quali il contagio può diffondersi per il mondo. Uno chiamato “fast burn”, quindi rapido e drammatico, e l’altro “slow burn”, lento ma sistemico.
Il primo terremoto, il più violento, sia per la rapidità che per la magnitudo, è quello che si provocherebbe sul mercato dei Repo, ossia quelle transazioni (come i pronti contro termine) in cui una parte cede un’obbligazione a un’altra in cambio di contanti, impegnandosi a ricomprarla al termine di una scadenza, restituendo la cifra presa a prestito.
Il mercato dei Repo è fonte di grandi preoccupazione per i regolatori. Di recente perché in questo mercato sono esplosi come collaterali gli MBS. Ma anche perché, ed è il nostro caso, perché i titoli di stati americani pesano circa un terzo dei collaterali depositati a garanzia.
I primary dealers americani, ossia le banche autorizzate dal Tesoro a comprare Treasury direttamente dal governo, sono grandi partecipanti del mercato Usa dei Repo “e usano circa 1.500 miliardi di treasury”.
Un sottoinsieme dell’ampio mercato dei Repo è quello costituito dalle transazioni tri-party repo. La logica del processo non cambia, solo che in questi scambi fra le due parti, ossia chi chiede cash in cambio di collaterale e chi dà il cash prendendo a tempo i titoli, si interpone una terza parte, ossia un agente che svolge il ruolo di “arbitro” fra le due, custodendo i titoli, garantendo l’esecutività delle transazioni. Agisce, insomma, come un soggetto di clearing.
Negli Stati Uniti questo ruolo viene svolto da due soli soggetti: la Bank of New York Mellon e la JP Morgan.
Il solo mercato americano tri-party repo, ossia quella parte delle transazione Repo intermediate dalle banche di clearing, quota circa 500 miliardi di treasury usati come collaterali in media nel mese di settembre.
All’epoca dello shutdown, scrive la BoE, “il mercato dei Repo si deteriorò. Ci fu un un brusco aumento nel costo dei prestiti Repo che si appoggiavano su collaterali Treasury, che raggiunse il picco di 26 punti base il 16 ottobre, 18 punti in più rispetto all’inizio dello stesso mese”. Un segnale – spiega – del timore che le tensioni sul bilancio pubblico americano finissero con lo scaricarsi sul mercato dei Repo. E in quei giorni si notò anche una certa disaffezione nei confronti di questo collaterale.
Da ciò la Boe ne deduce che “in caso di default si può prevedere che il mercato repo basato sui Treasury si essiccherebbe rapidamente”. Un mercato che pesa, lo ricordo di nuovo, un terzo del totale.
Peggio ancora andrebbe se se i prestatori finissero con “l’aumentare gli haircuts sugli altri collaterali, come risposta allo stress sui Treasury”. Il famoso effetto contagio che si traduce in straordinarie perdite a causa dei timori di soffrirne.
Della serie: mi sparo in testa per evitare l’emicrania.
Non bastassero i danni sul mercato dei repo, un default americano avrebbe effetti terribili anche sul mercato monetario, che pesa una cosetta da 2.400 miliardi di dollari di asset. In questo mercato operano fondi che investono il denaro dei loro sottoscrittori in strumenti di breve termine come la carta commerciale o, appunto, i T bill, ossia la i treasury a breve termine.
Sul totale degli asset in circolazione, i T bill pesano circa 450 miliardi di dollari, ai quali si aggiungono altri 200 miliardi di dollari investiti in reverse repo, ossia in transazioni pronti contro termini in cui i fondi monetari sono controparte venditrice nella fase di ritorno (quindi rivendono il titolo che avevano comprato dal promotore in cerca di liquidità).
Così quando leggete che i mercati sono profondamente interrelati avete un’idea di che vuol dire.
Un default Usa avrebbe nel mercato monetario l’effetto di uno tsunami, atteso che tale mercato viene percepito come uno dei più sicuri (infatti offre rendimenti molto bassi). Anche stavolta, i fondi monetari dovrebbero vendere pezzi di altri asset per compensare il crash dei titoli americani, e questo avrebbe un effetto diretto sulle banche che sponsorizzano questi fondi. “Anche le banche europee potrebbero trovarsi in difficoltà ad ottenere fonti di funding alternative al dollaro in caso di condizioni di mercato stressato”.
Non vi basta?
Allora sappiate che una perdita di fiducia nel dollaro, anche senza arrivare a un default, potrebbe creare una mancanza di collaterale disponibile da contrapporre alle operazioni repo e sui derivati. In pratica, le controparti centrali si troverebbero senza strumenti per fare il loro lavoro, con la conseguenza che “ci sarebbe un ulteriore peggioramento delle condizioni di mercato”.
Il contagio si estenderebbe fino alle borse. Sempre ad ottobre, infatti, la semplice prospettiva di un default convinse il Chicago mercantile exchange ad aumentare del 12% il margine richiesto agli investitori (ossia la quota di deposito richiesta a fronte della transazione), per operare sugli swap sui tassi d’interesse americani, mentre il mercato di Hong Kong aumentava lo sconto sui titoli americani. “Questo comportamento pro-ciclico delle controparti centrali e delle borse ha il potenziale di peggiorare il collateral shortage”, ossia la mancanza di collaterale.
Gli ultimi due canali grazie ai quali il contagio si diffonderebbe sono quello della perdita mark to market sui bond americani, che sono in grande quantità nelle pance delle banche di tutto il mondo, a cominciare da quelle giapponesi “esponendo le istituzioni giapponesi a notevoli perdite potenziali”, e dulcis in fundo, quello delle riserve valutarie.
Quest’ultimo merita un breve approfondimento. Per quanto iscritto dai tecnici della BoE fra gli “slower burne”, ossia uno di quei canali che produce effetti lentamente, la perdita una fiducia del dollaro (cos’altro è un default?) metterebbe a serio rischio il ruolo del dollaro come valuta di riserva per stati e banche centrali.
Si calcola che dei 6.000 miliardi di dollari di riserve note, circa il 62% sia composto da dollari, mentre l’euro arriva al 24%. Un calo di fiducia, lo si è visto sempre ad ottobre, quando i rendimenti sui titoli a breve americani aumentarono significativamente (30 punti base), potrebbe spingere i gestori di queste riserve a orientarsi altrove.
Provo a ricapitolare. Un default americano “brucerebbe” prima l’interbancario, lasciando a corto di collaterale il mercato repo e quello monetario, quindi salirebbe di livello fino a terremotare le controparti centrali e le borse, sempre a causa del collateral shortage, ossia la mancanza di un collaterale alternativo credibile al treasury.
Sottolineo che su tale mancanza di alternativa l’America ci ha costruito la sua fortuna.
Quindi il contagio andrebbe a bussare direttamente ai bilanci delle banche, che stanno dietro questi mercati, prima infliggendo perdite in conto capitale e poi essiccando la loro possibilità di concedere credito, per la gioia dell’economia reale.
Infine, la devastazione arriverebbe fino ai piani alti, ossia gli stati e le le loro banche centrali.
Sarebbe una cataclisma senza precedenti nella storia.
La fine del mondo.
Ecco perché il dollaro viene considerato un investimento sicuro.
L’Internazionale dei banchieri centrali verso il sol dell’avvenire
Il riequilibrio (rebalancing) se mai ci sarà, dicono in molti, arriverà grazie all’Internazionale. Non mi riferisco alla prima Internazionale e neanche alla seconda. Tantomeno all’Internazionale comunista bolscevica o a quella socialista del secondo dopoguerra. Tutte costoro vagheggiavano, in forma più o meno rivoluzionaria, il trionfo del lavoro sul capitale, che comunque di per sé è una forma di riequilibrio.
La nuova Internazionale, ossia quella dei banchieri centrali, si propone un obiettivo assai più ambizioso: il trionfo del capitale sugli stati. In questo senso è assai più rivoluzionaria.
Ma a parte l’idea di arrivare al riequilibrio tramite una rivoluzione, le due Internazionali non potrebbero essere più diverse. La rivoluzione dell’Internazionale dei banchieri non è chiassosa come quella di marxiana memoria. Non urla: sussura. Non obbliga: suggerisce. Non minaccia con la crisi: difende dalle crisi. Soprattutto è tanto invisibile e opaca , e quindi rassicurante per i bravi cittadini, quanto quelle altre erano chiassose e manifeste, e quindi preoccupanti per i bravi cittadini.
Per scoprirla dobbiamo fare un salto indietro nella storia di quasi cent’anni e arrivare al 1929, quando i paesi vincitori della Grande Guerra si accordarono per dare attuazione al piano Young, che avrebbe sostituito il piano Daves, ossia il primo accordo per ottenere le famigerate riparazioni di guerra dalla sconfitta Germania. Il piano Young prevedeva una nuova formula per arrivare a riscuotere qualcosa dall’esausta Germania e in tale contesto, un anno dopo, nel 1930, venne fondata a Ginevra una società anonima per azioni, i cui azionisti potevano essere solo banche centrali o istituzioni finanziarie da esse deputate, che divenne mandataria delle potenze alleate per la riscossione dei pagamenti tedeschi e prese il nome dei Banca dei Regolamenti Internazionali.
Malgrado avesse sede in Svizzera, la banca non risultava soggetta alla giurisdizione elvetica, ma anzi le venne riconosciuto uno status internazionale che prevede tuttora diversi privilegi: è un’entità assolutamente autarchica che gode di ampie immunità estese anche al campo penale, salvo rinuncia dei diretti interessati.
L’alberello piantato a Ginevra crebbe silenziosamente senza dare nell’occhio. Attraversò quasi indenne il secondo conflitto mondiale grazie ai buoni uffici degli inglesi guidati da J.M.Keynes, che a Bretton Woods si opposero fermamente alla chiusura della Banca e riuscirono a convincere gli americani a ritirare la decisione, che pure era stata presa, di liquidarla.
Nel dopoguerra la Bri si mette al servizio della sua causa Internazionalista, come sempre in maniera silenziosa. Lavora sugli statuti, per rendere possibile l’adesione del maggior numero possibile di banche centrali europee, comprese quelle del blocco sovietico e si dedica a un volenteroso sostegno del sistema ideato a Bretton Woods, collaborando con il G10 per evitare le crisi valutarie che covavano sotto traccia già negli anni ’60.
Ma l’incarico più importante che le fu affidato, in quel periodo, fu quello di tenutaria dei conti dei paesi aderenti all’Unione europea dei pagamenti, un sistema multilaterale di compensazione messo in piedi in Europa per far ripartire i commerci fra gli stati devastati dalla guerra. Il principio fondante di tale clearing house era squisitamente keynesiano e ciò spiega perché ai tempi delle discussioni di Bretton Woods la delegazione inglese si fosse spesa così tanti per tenere in vita la Bri.
Con la fine di Bretton Woods, segnato dall’abolizione della convertibilità del dollaro del 15 agosto 1971, la Bri cambiò pelle di nuovo e trovò la sua più autentica vocazione: la vigilanza bancaria e assicurativa. Forte di una ultraquaratennale esperienza, ci mise poco a diventare un’autorità in materia.
Ma la svolta avvenne nel 1974. Come sempre la finanza combinò uno dei suoi guai: fallirono alcune banche sistemiche in Germania (la Bankhaus Herstatt di Colonia, chiusa d’autorità dalla Bundesbank il 26 giugno), Gran Bretagna (la British-Israel Bank di Londra) e Stati Uniti (la Franklin National Bank di New York). Il panico che si scatenò di conseguenza fu il brodo di coltura ideale dove far germinare un’altra entità nel seno della Bri: lo Standing Committee on Banking regulation and Supervisory Practices, meglio conosciuto come Comitato di Basilea. L’iniziativa venne presa dalle banche centrali dei paesi del G10 su proposta della Banca d’Inghilterra.
Nasce così lo strumento di governo dell’Internazionale. Il suo verbo si innerva su una parola magica: regolazione finanziaria. Un termine tecnico che pochi capiscono, a cominciare dai politici, e ancor meno temono. Roba da banchieri e avvocati, che vuoi che sia.
Il Comitato, nei dieci anni successivi, si dà un gran daffare per individuare il supervisore nazionale delle pratiche bancarie e assicurative e separare le sue responsabilità da quelle del paese ospitante. In pratica, crea una rete internazionale di interlocutori.
Sul finire degli anni ’80 arriva l’ennesima crisi, quella del debito dei paesi sudamericani. I paesi del G10 ancora una volta entrano nel panico e chiedono al Comitato di elaborare un sistema di misurazione del rischio di credito e di requisiti minimi di capitale per le banche da applicare a livello internazionale. Si arriva così, nel 1988, all’Accordo sul Capitale di Basilea, il papà di quello che oggi è conosciuto come Basilea II.
Possibile che la politica non abbia compreso che, in un mondo sempre più globalizzato e finanziarizzato, la regolazione diventa l’unico potere che conti davvero?
Evidentemente sì. O forse già da allora il governo ombra dei tecnici, tutte persone comme il faut, parve loro la soluzione migliore per governare l’esplosione sotterranea dei costosi sistemi sociali messi in piedi nel dopoguerra che con sempre maggior chiarezza mostravano di essere insostenibili.
Sul finire degli anni ’90, quando scoppiò la crisi asiatica, si guardò naturalmente al Comitato di Basilea come unica autorità dotata di know how e credibilità sufficienti per affrontare in maniera sistemica il tema della stabilità finanziaria.
Fu l’ennesima crisi, insomma, a far sì che l’approccio del Comitato, basato sulla cosiddetta soft law (quindi atti che non hanno forza di leggi, ma appaiono come raccomandazioni e suggerimenti) diventasse una vera e propria policy di governo.
Le conclusioni del Comitato, infatti, divennero la base, nel 1999, per l’azione dei paesi del G7 contro la crisi. Sempre i paesi del G7, al contempo, estesero tale approccio creando una nuova entità: il Financial Stability Forum, (FsF) una sorta di super Comitato di Basilea che diventa il pilastro centrale dell’Internazionale dei banchieri. La sua strategia si articola lungo tre direttive: fissare gli obiettivi, stabilire la governance e promuovere incentivi.
Proprio sul binomio governance/incentivi scatta la genialata. Affinché un sistema di soft law sia efficace, occorre che i paesi destinatari dei “suggerimenti” abbiano incentivi capaci di convicerli a trasformarli in leggi nazionali.
L’Internazionale dei banchieri comanda tramite la politica, non con o contro la politica.
Gli incentivi sono di due tipi: quelli indiretti, ossia derivanti dalla reazione del mercato al mancato recepimento di un “consiglio” degli esperti, e quello diretto, ossia la reazione dei partecipanti alla comunità internazionale se un paese non accetta le regole del gioco, comprese quelle non scritte. Il primo è un incentivo assai potente, specie in un mondo indebitato come il nostro. Sapere che le banche di un paese non applicano le regole di Basilea sui requisiti minimi di capitale perché il paese in questione non ha recepito gli indirizzi del Comitato, ad esempio, non può non avere un effetto diretto sul costo dei prestiti per queste banche e, indirettamente, sullo stato di salute del paese. Gli incentivi diretti sono più visibili e altrettanto eclatanti: l’esempio più eloquente è la decisione del FsF di classificare i centri offshore nel mondo.
Tutto questo, ovviamente, viene fatto nell’interesse della stabilità finanziaria. Quindi (come al solito) per il nostro bene. Peccato che serva il potere maieutico di una crisi per farcelo comprendere e apprezzare.
Volete un altro esempio?
Pochi giorni fa la Bri ha rilasciato il suo ultimo rapporto al G20 sull’implementazione a livello globale delle regole di Basilea III, il seguito di Basilea II. Vale la pena leggerlo perché dà la misura di quanto sia ormai diffusa l’Internazionale della regolazione e consente di intravedere in controluce il conflitto strisciante, esploso, specie in conseguenza della crisi, fra quest’ultima e gli stati nazionali.
E’ proprio l’ultima crisi scoppiata dal 2008 in poi a far da levatrice a Basilea III. Il pacchetto di “suggerimenti” chiamato Basilea II, suo antecedente, fu definito nel 2004 e si basava su tre pilastri: la fissazione dei requisiti di capitale minimo per le banche, le regole per la supervisione e il set di regole per la disciplina di mercato. La release 2.5 di Basilea II arrivò nel luglio del 2009, nel bel mezzo della tempesta iniziata nel 2008, e si occupò di fissare le regole per la cartolarizzazione e l’esposizione del portafoglio di negoziazione.
Ma evidentemente non era sufficiente. Travolte dalla crisi, le banche (e quindi gli stati) sollecitarono il Comitato a elaborare un nuovo set di regole capaci di dare maggiore stabilità al sistema.
Arriviamo così al 2010. Il Comitato rilascia il set di Basilea III, che aumenta ancor di più il livello di capitale prudenziale richiesto alle banche e fissa nuove regole per la la gestione della liquidità globale.
Ovviamente, trattandosi di soft law, è necessario che tali regole siano recepite dagli Stati espressione dei partecipanti al Comitato, tanto per cominciare. Ma non è certo un problema. A novembre del 2011 i leader del G20 impegnano i rispettivi paesi a recepire Basilea 2.5 entro il 2011 e Basilea III entro il 2019. Tali propositi vengono riaffermati nel vertice del G20 di giugno 2012 di Los Cabos e, ancora una volta, nel vertice di Mosca del febbraio 2013 fra i ministri finanziari e i governatori centrali del G20.
Questo tanto per dare un’idea di quanto pesi la cosiddetta soft law.
Ad agosto 2013 risultava chele regole di Basilea II erano state implementate da 24 dei 27 paesi rappresentati nel Comitato di Basilea. Mancano solo Stati Uniti (guarda caso), Russia e Argentina. Le regole di Basilea 2.5 sono state implementate da 22 paesi su 27. Devono terminare il lavoro gli Stati Uniti (ancora una volta), Argentina, Indonesia, Messico e Russia. Mentre le regole di Basilea III sono pressoché operative in 11 paesi su 27.
E’ interessante notare che la Cina risulta aver implementato pienamente Basilea II e Basilea 2.5 e il primo pezzo di Basilea III. Si trova persino più avanti degli Usa, della Germania e della Francia, in questo processo. Si trova al livello del Giappone, del Canada e della Svizzera.
Ma è tanto pervasivo il potere di convincimento dell’Internazionale dei banchieri, che le sue regole vengono recepite anche dai paesi che non appartengono al club di Basilea.
Il rapporto della Bis riporta una rilevazione statistica, condotta stavolta dal FsF, su 100 giurisdizioni (ossia paesi) che non appartengono al Comitato di Basilea. I 74 che hanno risposto hanno fatto concludere che fra il 2012 e il 2013 “c’è stato un significativo progresso negli sforzi di adottare gli standard di capitale fissati da Basilea”. Ben 54 giurisdizioni hanno già adottato o stanno per adottare Basilea II, 16 Basilea 2.5 e 26 Basilea III.
L’Internazionale dei banchieri, insomma, viaggia con passo sostenuto verso il sol dell’avvenire.
Sembra proprio che il segno del nostro tempo sia, nel nostro interesse, affidarsi a una pattuglia di tecnici sconosciuti nei confronti dei quali nessuno, tantomeno i politici, ha la capacità critica e le conoscenze necessarie per confutarli o metterli in discussione. Ma forse questo è il prezzo che dobbiamo pagare per continuare a vivere come viviamo: costantemente al di sopra delle nostre possibilità.
A noi tutti è richiesto un atto di fede nei confronti di costoro, malgrado ciò implichi una silenziosa erosione del principio democratico. E’ il trionfo del sentimento religioso sul principio di razionalità.
Ma perché stupirsi? In fondo tutte le Internazionali, nella storia, hanno sempre avuto a che fare in qualche modo con la religione.
O forse era il contrario?
