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I dieci giorni che cambieranno l’Europa (e la Germania)

Non è il 2014 l’anno in cui capiremo come andrà a finire l’Europa, come dice il nostro premier Letta.

Il nostro destino lo capiremo prima di Natale.

Il countdown è già cominciato con l’Ecofin di ieri, dove era attesa la decisione dei 28 ministri sui due pilastri mancanti dell’Unione Bancaria. I ministri si sono ritrovati a dover dipanare una matassa intricatissima, ossia quale fosse l’autorità deputata a decidere sul fallimento di una banca, e insieme chi dovesse pagare il conto a partire dal ottobre del 2014, quando inizierà la sorveglianza della Bce sui principali istituti di credito europeo.

Dopo la solita maratona notturna, si è deciso di prendersi qualche altro giorno. L’accordo per grandi linee è stato definito, ma bisogna mettere a punto i dettagli, mei quali com’è è noto si annida sempre il diavolo.

Nel caso in ispecie, anche il quadro generale è un po’ confuso. Ancora non è ben chiaro se e come sarà costituità l’autorità sovranazionale di risoluzione, nè come e chi pagherà il conto. I documenti circolati in queste ore lasciano aperte più domande di quante risposte diano. Quindi toccherà attendere per capire meglio.

Rimane il fatto che queste decisioni, assolutamente tecniche, hanno pesanti ripercussioni politiche che impattano in maniera rilevante sul futuro dell’eurozona, innanzitutto, ma di tutta l’Unione europea.

Ciò spiega perché siano aumentate le pressioni sui governi europei affinché la smettano di cincischiare e decidano il da farsi.

E’ stata fissata anche una scadenza: l’accordo dell’Ecofin deve arrivare entro la metà della prossima settimana, prima quindi del vertice fra i capi di stato e di governo, che si incontreranno fra il 19 e il 20 dicembre che dovrebbe asseverare tali decisioni e quindi aprire di fatto l’iter parlamentare, che dovrebbe procedere a tappe forzate fino all’aprile del 2014, quando l’europarlamento chiuderà per elezioni.

Insomma: ora o chissà quando. Per non dire mai più.

Anche perché, e qui ha ragione Letta, è difficile fare previsione sul prossimo europarlamento, che magari verrà fuori dalle urne assai piùù euroscettico di quanto non sia oggi, e quindi assai meno disposto a recepire una roba sistemica come un’Unione bancaria.

Per capire il nostro destino, e più precisamente quello dell’Unione bancaria dal quale dipende quello della buona salute dell’Unione monetaria, basterà quindi aspettare una decina di giorni.

La prima questione, quella di identificare la fisionomia del Risolutore, dicono i beneinformati, vedeva due inediti schieramenti. Da una parte coloro che vorrebbero che tale struttura coincidesse con il gruppone dell’Ecofin, con tanto di diritto di veto, che dovrebbe esser chiamato a decidere sui fallimenti bancari. Qui troviamo la Germania, la Finlandia e la Slovacchia. Dall’altra parte, ossia fra coloro che vorrebbero che il risolutore fosse un’entità sovranazionale, troviamo il resto dei paesi dell’Ue, oltre alla Bce e la Commissione europea, che ha già presentato una proposta di risoluzione in tal senso.

Si può questionare a lungo sul perché la Germania non voglia che sul fallimento della sue banche decida uno “straniero”. Ma è chiaro che se nascerà l’autorità sovranazionale di risoluzione, come è molto probabile che sia, allora la Germania dovrà incassare un pesante ridimensionamento politico che cambierà, anche a livello di percezione pubblica, il suo ruolo nel lungo processo di costruzione europea. Si capirebbe, vale a dire, che le dispute europee non sono autenticamente fra i singoli stati, come gran parte della pubblicistica contemporanea induce a credere, ma fra le entità sovranazionali (compreso il Fmi) e gli stati nazionali.

Sulla seconda questione, quella del finanziamento del fondo sui salvataggi bancari, bisogna capire se i soldi arriveranno dagli stati, come dice la Bce, o se si potrà attingere ai fondi dell’ESM, come propongono alcuni ministri dell’Ue, almeno fino a quando il fondo unico di risoluzione (Single Resolution Fund), che sarà alimentato dalle stesse banche europee, non avrà sufficiente capienza finanziaria.

Anche qui, la Germania si oppone all’idea di usare l’Esm, adducendo a cagione il fatto che sarebbe un modo indiretto per socializzare le perdite fa tutti gli Stati. Dal punto di vista tedesco è molto più opportuno che siano gli azionisti e gli obbligazionisti a pagare, e anche i depositanti non assicurati (bail-in). Opinione che peraltro è diventata patrimonio della legislazione europea, ma a partire dal 2018. Quindi è probabile che pur di spuntarla su questo punto, elettoralmente assai più sensibile, ottenendo magari l’anticipazione dell’entrata in vigore delle regole del bail-in la Germania ceda sul primo, che però è assai più intrusivo nel perimetro della sovranità finanziaria. Sarebbe una vittoria di Pirro.

Anche qui la decisione finale, se mai arriverà, ci dirà molto sul peso politico reale della Germania.

Molti osservatori in queste settimane hanno messo sull’avviso di un accordo al ribasso che, dicono, minerebbe la fiducia nella reale capacità dell’Ue, e dell’eurozona in particolare, di fare quanto è necessario, per usare un’espressione resa celebra da Draghi, per uscire in maniera strutturale dalla crisi.

E proprio ieri Mario Draghi, parlando a un convegno in Banca d’Italia in memoria di Curzio Giannini, ha insistito sulla necessità di arrivare al più presto all’approvazione dell’Unione bancaria. E guarda il caso, la stessa cosa ha detto la presidente del Fmi Lagarde che, sempre ieri, ha rilasciato un discorso con un outlook sull’eurozona.

Insomma, il grande mondo della finanza si aspetta che i governi europei approvino presto e bene l’Unione bancaria.

L’alternativa, assai rischiosa, non sembra contemplata.

Almeno per i prossimi dieci giorni.

Le regole sui bond sovrani spaccano in due l’Europa

Con discrezione davvero svizzera, la Bri ha acceso una miccetta capace di far deflagrare la bomba accesa sul tavolo dei regolatori sul futuro trattamento dei bond sovrani.

Nell’ultimo Quaterly Bulletin a un certo punto, dopo un lungo studio sull’andamento del rischio nel mondo, la Bri ha infilato un box di due paginette appena che di sicuro solo pochi maniaci hanno letto con attenzione più di una volta. Si intitola “Il trattamento del rischio sovrano nello schema di regolamentazione patrimoniale di Basilea”.

Comincia così: “E’ stato talvolta affermato che lo schema di regolamentazione patrimoniale di Basilea prescrive una ponderazione di rischio pari a zero per le esposizioni delle banche nei confronti dei soggetti sovrani. Tale affermazione non è corretta”.

Bum.

Perché bum? Poco più di due mesi fa sul Financial Times è apparso un articolo del boss della Bundesbank, Jens Weidmann nel quale il banchiere esortava a spezzare il legame perverso fra titoli di stato e banche. Fra i tanti argomenti citati a sostegno della sua tesi, anche il riferimento alla circostanza che “la corrente assunzione regolamentare (Basilea II e III, ndr) che i bond governativi siano risk free è stata sconfessata dalla recente esperienza. I tempi sono maturi – conclude – per affrontare il trattamento normativo dei bond sovrani. Senza tale revisione non vedo possibilità di spezzare il legame fra banche e debito sovrano”.

Anche di recente, in una lunga intervista al Sole 24 Ore, lo stesso Weidmann ha sottolineato che “il trattamento regolamentare attuale dell’esposizione delle banche al debito sovrano crea uno svantaggio per il credito alle imprese rispetto a quello ai governi. Abolire tale privilegi avrebbe un effetto positivo sull’erogazione del credito”.

Senonché, Weidmann non dice esattamente la verità. Non sono le regole di Basilea ad aver assegnato ai titoli di stato la qualifica di risk free, ma l’interpretazione che a tali regole hanno dato le autorità europee, chiamate a recepirle.

Perciò le due pagine che “sbugiardano” il potente banchiere centrale tedesco.

Ma non è mica finita qui. Dulcis in fundo, in una piccola nota a margine, i banchieri della Bri ricordano un’altra chicca che finirà col mettere fuorigioco i bond sovrani di mezza Europa, ossia di quei paesi che non aderiscono all’euro.

Vediamo perché.

Le regola di Basilea, fra le tante altre cose, disciplinano esattamente come debba essere trattato il rischio derivante dai titoli di stato, ossia capire quanto capitale di vigilanza (concetto espresso da Basilea I) debbano avere le banche a fronte dell’esposizione in questa classe di prestiti. Lo scopo del capitale di vigilanza, che sostanzialmente è una riserva, è quello di conferire una maggiore stabilità alla banca. Come tutti i tipi di riserve, anche la quota di risorse impegnata nel capitale di vigilanza deve rimanere immobilizzata. Ergo: sono soldi che non possono essere prestati. Quindi più il capitale di vigilanza è alto, meno soldi possono essere prestati, meno sarà redditizia l’impresa bancaria.

Con Basilea I si arrivò a quantificare tale capitale con l’equivalente di un coefficiente patrimoniale dell’8%. In sostanza una semplice frazione con, al numeratore il capitale da vigilanza da accantonare, e al denominatore il totale degli impieghi. Il risultato di tale frazione doveva fare 0,08, ossia 8%.

Con Basilea II si decise di precisare meglio la quantificazione degli impieghi per associare a loro i rischi ad essi inerenti, svolgendo, a secondo della classe di asset, una certa ponderazione. La frazione, tuttavia, doveva sempre fare 0,08. Ossia il coefficienta patrimoniale doveva arrivare all’8%.

Queste regole comprendevano anche i bond sovrani. “Basilea II e Basilea III – scrive la Bri – prescrivono requisiti patrimoniali minimi commensurati al rischio di credito sottostante, in linea con l’obiettivo di assicurare sensibilità al rischio”. Quanto ai bond sovrani, “in gran parte delle giurisdizioni (ossia i paesi ai quali si applicano le regole, ndr) il trattamento verso tali esposizioni si conforma alle disposizioni contenute nello schema di Basilea II”.

Ma allora di che parla Weidmann?

La questione riguarda proprio la ponderazione dei rischi di credito, uno delle tre tipologie di rischio (insieme al rischio di mercato e al rischio operativo) che Basilea II impone alle banche di calcoare per avere più stabilità e sicurezza.

Le regole prevedono che tale rischio di credito si possa misurare in due modi. Secondo un approccio standard, che richiama le regole di Basilea I, e un approccio interno, (Internal rating based) fondato su rating interni elaborati dagli istituti di credito.

Qualunque sia il metodo usato, lo scopo è ottenere un coefficiente per ponderare gli impieghi di tutti gli asset, compresi quindi anche i bond sovrani.

Un esempio (approccio standard) aiuterà a capire. Se una banca ha un’esposizione di mille euro in titoli di stato, per sapere qual è il requisito patrimoniale che mi serve per aggiungere una somma al capitale di vigilanza devo moltiplicare l’esposizione per il coefficiente di ponderazione, che nel caso di approccio standard dipende dal rating, per 0,08 (ossia il coefficiente patrimoniale fissato da Basilea per per banche).

Quindi se il mio titolo di stato ha un rating da AAA a AA-, il coefficiente di ponderazione è zero. Significa che la mia moltiplicazione finale da zero (1000*0*0,08). Ossia che non devo accantonare niente nel capitale di vigilanza per la mia esposizione in titoli sovrani con questo rating. Se invece il mio bond sovrano ha un rating da A+ a A-, il coefficiente di ponderazione vale il 20% (0,2). Quindi la mia moltiplicazione vale sedici euro (1.000*0,2*0,08). Quindi devo accantonare 16 euro per ogni mille euro di bond sovrani con quel rating. Nel caso la mia esposizione sia verso titoli senza rating, il coefficiente vale 100% (1), e quindi il mio accantonamento vale 80 euro (1.000*1*0,08). La logica è chiara: più il titolo è rischioso, più capitale bisogna accantonare.

Se invece dell’approccio standard usiamo l’IRB, la logica non cambia, cambiano solo i risultati. In entrambi i casi i bond sovrani sono soggetti ad accantonamenti. Sempre che le giurisdizioni decidano di farlo.

E qui viene fuori il punto. “Esistono differenza sostanziali nell’applicazione delle regole di Basilea – scirive la Bri – nella varie giurisdizioni. Nell’Unione europea le autorità hanno accordato agli organi di vigilanza la facoltà di consentire alle banche che seguono il metodo IRB di continuare ad applicare in via permanente il metodo standardizzato alle esposizioni verso soggetti sovrani”. Quindi le banche dell’Ue possoo applicare il metodo standard (basato sui rating) per prezzare il rischio sui bond sovrani.

Ma non finisce qui: “Inoltre – aggiunge – le autorità della Ue hanno posto pari a zero la ponderazione di rischio da applicare non soltanto alle esposizioni sovrane verso soggetti sovrani denominati e finanziati nella moneta dello stato membro corrispondente, ma anche alle esposizioni di questo tipo denominate e finanziate nella moneta di qualunque stato membro”.

Quindi non erano le regole di Basilea l’oggetto degli strali di Weidmann, ma le “autorità europee” richiamate dalla Bri. Come dire, parlare a nuora perché suocera intenda.

La sottolineatura della Bri merita un approfondimento. Se l’Ue non avesse messo un coefficiente zero per tutti i bond sovrani dell’Unione, le banche sarebbero state incoraggiate a finanziare solo il debito più sicuro, per non avere ricadute sul proprio capitale di vigilanza. La clausola del risk free sarebbe valsa solo per i paesi più forti, non per gli altri.

La scelta di applicarla a tutti però, non soltanto a quelli dell’eurozona, ma a tutti gli stati dell’Unione, ha provocato l’effetto opposto: ha azzerato il rischio per qualunque titolo di stato dell’Ue. Todos caballeros.

Non valendo per i bond degli altri statiextra Ue, questa regola ha favorito una sorta di dumping finanziario: le banche europee erano incoraggiate a comprare debito sovrano europeo, sostanzialmente.

Ciò ha sicuramente fornito un notevole incentivo ai prestiti transfrontalieri da parte delle banche dei paesi core a quelle dei Piigs, tanto per cominciare, mettendo ottime radici alle futura crisi degli spread.

Tale regime vige tuttora, essendo stato confermato anche da Basilea III e, soprattutto dalla quarta direttiva sui requisiti patrimoniali (CRD IV), approvata nel giugno scorso, che entrerà in vigore nel gennaio 2014.

Quest’ultima ha cambiato però un elemento molto importante.

L’articolo 114 del regolamento, infatti, conferma un coefficiente di ponderazione pari a zero per le esposizioni verso la Bce (comma 3) e verso le banche centrali e i bond delle ammnistrazioni centrali emessi in valuta nazionale (comma 4). Quindi se una banca rumena è esposta verso titoli di stato rumeni, questi titoli saranno considerati risk free. Il comma 5, però, cambia le regole del gioco per gli altri bond.

Quest’ultimo, infatti, dispone che fino al 2017 valeva la vecchia regola di un coefficiente zero per qualunque bond sovrano dell’Ue, quindi anche diverso da quello emesso in valuta nazionale. Nel nostro esempio, una banca rumena aveva rischio zero anche per un titolo cipriota o tedesco. Ma nei successivi tre anni questa regola cambierà. Per i titoli di un altro stato europeo, emessi in valuta diversa da quella nazionale, le banche acquirenti dovranno iniziare a ponderare i rischi. Quidi, tornando al nostro esempio, se una banca rumena comprerà un titolo tedesco o cipriota, dal 2018 in poi dovrà aumentare il capitale di vigilanza.

Una rivoluzione.

Nel 2018 (comma 6 lettera a) il coefficiente di ponderazione sarà pari al 20% del fattore di ponderazione assegnato a quel titolo. Se io ad esempio ho un titolo di stato con un rating da BBB+ a BBB-, che prevede un fattore di ponderazione del 50%, nel 2018, il mio coefficiente di ponderazione sarà il 20% del 50%, quindi il 10%. Nel 2019 (comma 6 lettera b) il coefficiente di ponderazione sarà il 50% del fattore di ponderazione (nel mio esempio il 50% del 50%, ossia il 25%); nel 2020 (comma 6 lettera c) il coefficiente di ponderazione sarà il 100% del fattore di ponderazione. Quindi nel mio esempio sarà il 100% di 50%, ossia il 50%.

Questa rivoluzione silenziosa renderà sostanzialmente più caro per le banche dell’eurozona detenere titoli di altri extra euro e viceversa. I bond sovrani denominati in euro, infatti, rimarranno a rischio zero (per la sicura infelicità di Weidmann), mentre quelli extra-euro verranno di fatto assimilati a bond sovrani esteri.

In pratica l’Europa si spacca in due.

Un potente incentivo a entrare nell’unione monetaria, o almeno in quella bancaria.

E di sicuro a non uscirne.

I bond sovrani finiscono sotto stress (test)

Fuori dal campo della discussione pubblica, come sempre accade per le cose importanti, si sta giocando una partita che sarà dirimente per gli assetti futuri dell’Europa e per la nostra serenità economica.

La Bce, infatti, sta lentamente delineando, con la collaborazione dell’Eba, la fisionomia degli stress test ai quali sottoporrà le banche dell’eurozona nell’ambito dell’asset quality review degli attivi bancari la cui conclusione è prevista per ottobre 2014.

I temi all’attenzione sono numerosi.

Ma uno in particolare merita di essere approfondito, visto l’impatto che potrà avere sui bilanci bancari e, di conseguenza, sugli stati: il trattamento dei bond sovrani.

In pratica bisognerà decidere (la Bce lo deciderà) se i titoli di stato, detenuti in grande quantità dalle banche residenti, siano da considerare a rischio zero, come prevedono le norme di Basilea, più volte criticate dai banchieri della Bundesbank, oppure debbano implicare una qualche forma di necessità di capitale.

Una roba tecnica, ma di grande importanza. Se le regole richiederanno capitale per i bond sovrani, le banche esposte sui questi titoli si troveranno a rischio carenza di requisiti patrimoniali e quindi candidate alla ricapitalizzazione (ancora non sappiamo a spese di chi) o alla risoluzione (ancora non sappiamo decisa da chi).

Ho scritto più volte su questa materia, provando a spiegare (spero dignitosamente) la rilevanza sistemica di questa decisione. Quindi non ci tornerò. Mi limito a ricordare che il trattamento dei bond sovrani avrà ripercussioni importanti sull’autonomia fiscale di uno stato. Spezzare il legame fra banche e debito sovrano, in tal senso, è un ottimo succedaneo, per via (unione) bancaria, di quell’unione fiscale che gli stati nazionali sono ancora riluttanti a concedere.

Non lo dico io, che sono un modesto dilettante. Se non ci credete leggetevi l’ultimo intervento di Jens Weidmann, boss della Buba, dal titolo “Europe’s Monetary Union: making it prosperous and resilient”.

Qui però vorrei provare a fare un’altra cosa: una breve sintesi di quello che ho orecchiato finora sul futuro della partita sul trattamento dei bond sovrani.

Una prima indicazione l’ho trovata leggendo l’intervento di Yves Mersch a Francoforte il 18 novembre scorso, intitolato “On the road to a banking union: the way from the Ecb perspective”.

Dopo aver ricordato che “condizioni uniformi servono a stabilire un singolo sistema bancario che accompagni la moneta unica” e che “questo non è un caso di ‘più Europa’ solo per il gusto di farlo”, ma sempre per il nostro bene, Mersch delinea il percorso e il significato della supervisione che verrà.

Ve lo riepilogo brevemente.

Il comprehensive assessment sulle 130 principali banche europee, iniziato a fine ottobre scorso, durerà un anno e si comporrà di tre elementi: un risk assessment, un assessment sui bilanci bancari e uno stress test da condurre in cooperazione con l’Eba, l’Autorità bancaria europea.

Il risk assessment dovrà determinare la classi più rischiose di asset e portafogli, basandosi su fattori di analisi come il rischio di liquidità e di rifinanziamento.

Basandosi sul risk assessment, inizierà l’assessment dei bilanci bancari che dovrebbe concludersi entro la metà del prossimo anno, dopo la chiusura dei bilanci 2013.

Il supervisore selezionerà i portafogli degli istituti secondo i criteri fissati dal supervisore nazionale “che saranno controllati e eventualmente emendati dalla Bce”. Dopodiché verranno esaminati e si arriverà al controllo dei risultati ottenuti.

Poi inizieranno i famosi stress test.

La differenza fra l’assessment dei bilanci e gli stress test è la stessa che c’è fra una fotografia e un film. Tanto la prima è statica, ossia offre una rappresentazione di una situazione in un preciso momento, tanto i secondi sono dinamici, ossia considerano una serie di situazioni possibili a partire dalla situazione di partenza in un arco di tempo.

Nel caso degli stress test BCE, tale arco dovrebbero durare tre anni, articolandosi fra uno scenario base e uno scenario stressato. Il meglio e il peggio che può capitare, per farvela semplice.

“Di sicuro – dice Mersch – le banche stanno meglio di prima”, anche perché hanno ottenuto 275 miliardi dagli stati e altri 225 miliardi li hanno raccolti da sole, ma “può succedere che le nostre investigazioni scoprano carenze in termini di capitale”.

E qui veniamo al problema. Cosa determina una carenza di capitale?

Come ogni cosa, tutto dipende dalle premesse.

Nella fase di assessment dei bilanci bancari, ossia nella foto dei bilanci, e nello scenario base dello stress test, i banchieri prevedono di usare un core capital ratio (common equity tier 1) almeno all’8%, ossia in linea con quanto previsto dalle regole di Basilea III. Quindi le banche che avranno almeno questo livello percentuale non avranno problemi.

Ma il punto, come vi dicevo, è un altro:

Come valutare i bond statali?

“Un ulteriore problema che stiamo discutendo internamente riguarda come debba essere valutata l’esposizione ai titoli di Stato. Mentre, per rispettare la legislazione vigente (sempre di Basilea, ndr), i titoli di stato richiedono un requisito patrimoniale zero nella fase dell’assessment dei bilanci, tracciando una distinzione fra portafoglio bancario e portafoglio di trading, nessuna decisione è stata ancora presa sul requisito patrimoniale da assegnare ai titoli di stato nella fase dello stress test. Ma anche solo tendendo conto del rischio di mercato e della durata dello stress test, combinati alla durata di tali obbligazioni, tali attività saranno inevitabilmente stressate”.

Provo a tradurre.

La prima notizia è che nella fase di assessment dei bilanci, che dovrebbe finire entro giugno 2014, i titoli di stato verranno considerati a rischio zero, quindi esenti da necessità di capitale per le banche, pur nella distinzione fra i diversi tipi di portafogli.

La seconda notizia è che ancora non si è deciso (la Bce non ha ancora deciso) come trattare i bond sovrani nella fase di stress test, che inizierà l’estate 2014.

La terza notizia è che, qualunque sarà la decisione della Bce, queste attività finiranno sotto stress a causa delle prevedibili tensioni sui mercati che gli stress test finiranno col provocare.

Rischiamo insomma, un’altra crisi da spread per via bancaria.

Dopodiché si arriverà all’attivazione della supervisione centralizzata. Ricordo che per allora dovrebbero già essere stati approvati gli altri due pilastri dell’Unione bancaria.

Lascio Mersch (anche se ne consiglio la lettura perché molto istruttivo) e vengo a Moody’s, che proprio in questi giorni ha rilasciato un rapporto sull’avvio del comprehensive assessment della Bce sulle banche europee.

Dopo aver premesso che l’azione della Bce è una cosa buona e giusta, l’agenzia sottolinea che “dettagli importanti rimangono ancora sconosciuti”.

Fra questi rifà capolino “come specificamente verranno valutati le esposizioni delle banche nei confronti dei bond sovrani”.

Domande alle quali la Bce dovrà dare risposta dovendo fare i conti col dilemma fra credibilità e sostenibilità. Se i test saranno troppo deboli, nota Moody’s, l’intera operazione (e la Bce) andrà a monte. Se sarà troppo severa, e in assenza di strumenti di salvataggio, la Bce rischia di scatenare forti turbolenze di mercato.

Insomma: il comprehensive assessment della Bce rischia di provocare, per ragioni differenti, gli stessi disastri del tapering della Fed. A dimostrazione che ormai il nostro futuro dipende dalle banche centrali più di quanto non ci venga detto.

Concludo con una nota di gossip, ma neanche tanto.

La Bce si è trovata a dover smentire un articolo pubblicato su Der Spiegel il 25 novembre, secondo il quale Mario Draghi, che oltre ad essere governatore della Bce è anche presidente dell’ESRB (European systemic risk board), sarebbe intervenuto per bloccare una decisione del board dell’ESRB che si proponeva proprio di innalzare i requisiti di capitale per le banche che hanno bond sovrani.

Un portavoce della Bce è intervenuto spiegando che Draghi non ha fatto nulla del genere. “Il board ha deciso a settembre di rivedere il rapporto e pubblicarlo dopo la rivisitazione”.

Quindi un giornale tedesco accusa Draghi, indirettamente, di favorire le banche spagnole e italiane (le più esposte sui bond sovrani) bloccando un rapporto che proponeva di alzare i requisiti di capitale per i bond sovrani, costringendo la Banca centrale a una smentita.

Il solito teatrino, viene da dire.

Ma questo è il livello.

A livello nostro quello che succederà è molto facilmente prevedibile.

Abbiamo davanti altri anni difficili.

Anni di stress (test).

2014: la sindrome giapponese che minaccia l’eurozona

Da quando l’inflazione nella zona euro ha cominciato a scendere, i nostri banchieri centrali hanno iniziato a darsi un gran daffare per spiegare urbi et orbi che non c’è da preoccuparsi.

La prospettiva che si finisca in deflazione, dicono pressoché unanimi, è assolutamente infondata. E ancor di più lo è la paura che anche da noi si ripeta il copione già visto in Giappone negli anni ’90, quelli che nella storia economia sono stati definiti “il decennio perduto” dell’economia del Sol Levante.

Per chi non lo ricordasse, dopo la crisi di fine anni ’80 il Giappone entrò in una spirale deflazionaria durata vent’anni provocata da scelte politiche sbagliate e ritardi nell’azione di riforma del sistema finanziario. Una spirale che, forse, solo con la politica monetaria ultra espansiva varata nei mesi scorsi dalla BoJ troverà la strada per una normalizzazione.

Nel frattempo il governo giapponese ha dovuto caricarsi un debito che ormai supera il 240% del Pil per pagare il prezzo dei tanti stimoli varati nel corso del ventennio.

Capirete perché appena i nostri banchieri centrali sentono parlare di “decennio perduto” in Europa, mettano mano  al loro arsenale teorico per ricordare che mai e poi mai la Bce permetterà che l’inflazione crolli sottozero.

“Molti strumenti rimangono a nostra disposizione per evitare che tale rischio si materializzi”, ha detto di recente Christian Noyer, governatore della Banca di Francia, al Wall Street Journal. Persino in un contesto, ricordato dallo stesso Noyer, in cui “moneta e credito stanno crescendo molto lentamente nell’eurozona”.

Senza dimenticare, sottolinea, che “una bassa inflazione è molto differente dalla deflazione” e che “nell’area euro l’inflazione è prevista rimanga intorno all’1,5% l’anno prossimo”, seppure “il tasso di inflazione vari all’interno delle singole economia dell’area”.

“In alcune economie periferiche – conclude – l’inflazione è particolarmente bassa e questo, da una parte, è una buona cosa perché contribuisce a migliorare la competitività”. Dall’altra, appesantisce il valore reale del debito. Ma questo il banchiere non lo dice.

Si limita a osservare che “più è bassa l’inflazione è più è alto il rischio che uno shock inaspettato spinga l’economia nella deflazione”.

Esattamente quello che è successo in Giappone.

Sarà per questo che Jorg Asmussen, componente del board della Bce, ha dedicato al tema il suo intervento del 21 novembre scorso al Council of Foreign relations di New York, intitolato pudicamente “Europe 2014, an outlook from the Ecb”.

Il banchiere spazza subito via l’equivoco dal tavolo. Abbiamo imparato la lezione giapponese, dice. “I cambiamenti adottati nell’euro area ci consentiranno di prendere una strada diversa da quella del Giappone, sebbene, aggiunge – occorra perseverare per essere sicuri di evitare che il rischio di un “decennio perduto” sia evitato”.

Siamo salvi, insomma.

Quasi.

Già, perché quello che ci differenzia dal Giappone è che l’eurozona ha messo subito mano alle riforme strutturali. Quindi il decennio peduto giapponese va letto, secondo il banchiere, come l’effetto del ritardo col quale i giapponesi misero mano ai loro problemi, a cominciare da quelli finanziari provocati dalla cosiddette “banche zombie”.

Le banche europee, a contrario, sono state oggetto delle amorevoli cure degli stati, che dal 2008 all’ottobre scorso, hanno iniettato nelle loro pance ben 275 miliardi di euro di fondi freschi. Dal canto loro le banche, nello stesso periodo, hanno raccolto altri 225 miliardi di capitale. “Il risultato – dice – è che il Tier 1 capital ratio delle banche dell’euro zona ora è intorno al 12%”.

E tuttavia non è che sulle banche europee splenda il sole.

“Possiamo vedere – dice – che gli investitori non sono ancora ancora convinti che il settore bancario sia sano”. A convincerli dovrebbe servire l’asset quality review annunciato dalla Bce e, soprattutto, il completamento del processo di Unione bancaria, sul quale la finanza europea ha fondato tutte le ragione del suo ottimismo.

Aldilà delle questioni finanziarie, Asmussen nota che, sempre a differenza del Giappone, l’eurozona ha compiuto riforme importanti sul lato dell’economia reale “in particolare nei paesi sotto stress”. A spagnoli, greci e portoghesi, farà di sicuro piacere sapere che “secondo gli indicatori Ocse”, i mercati del lavoro in questi paesi “sono più flessibili che quello francese, tedesco od olandese”.

“In Giappone, invece, le riforme strutturali non partirono prima del 2001”, osserva.

E anche sul lato monetario il rischio più temuto, quello deflazionario, viene bollato come inesistente nel medio termine.

Nessuno decennio perduto per l’eurozona, quindi, ma un decennio impegnativo sì.

L’aggiustamento, infatti, spiega Asmussen, ha avuto un costo che oggi, paradossalmente, si estrinseca nel surplus di conto corrente del 2% previsto nel 2013.

“Ci hanno accusato di avere adottato un approccio ‘beggar-thy-neighbour’, visto che l’eurozona sta importando domanda globale, ma trovo questo atteggiamento contraddittorio. Gli osservatori non possono chiederci di evitare gli errori giapponesi, da una parte, e dall’altra criticarci per le inevitabili conseguenza economiche che evitare tale rischio comporta”.

Traduco: per evitare la sindrome giapponese abbiamo dovuto farci un po’ di sani fatti nostri (come eurozona).

Anche perché “prima delle crisi la domanda europea, cresciuta con troppo debito a livello aggregato, aveva contribuito alla domanda globale”.

Nel futuro l’Europa farà a sua parte, dice, “ma in una maniera sostenibile”. E a tal fine sarebbe opportuno accelerare gli accordi regionali di commercio, e in particolare la Trade and investment partnership (TTIP) fra Usa ed Europa, “che potrebbe portare a una crescita di prodotto di circa 119 miliardi di euro l’anno a a creare 400mila posti di lavoro”.

Al proprio interno tuttavia, l’eurozona dovrà imparare a regolare bene i propri conti.

La questione tedesca, ossia il grosso surplus sulle partite correnti, cela secondo il nostro banchiere alcune circostanze.

“Il surplus tedesco verso l’euro area si è più che dimezzato dal 2007, dal 4% al 2%, e quello con i paesi sotto stress è virtualmente scomparso, cadendo dal 2% allo 0,5%. Questo è stato guidato in larga parte da una domanda domestica più elevata”. Ma probabilmente anche dal fatto che è crollata quella estera dei Piigs, visto che il 2% su surplus in meno nei loro confronti ha dimezzato il surplus complessivo.

Soprattutto, dice Asmussen, “la soluzione per riequilibrare è che i paesi sotto stress diventino più competitivi, non che la Germania lo diventi di meno, come dimostrano i risultati ottenuti, dal 2011, da Portogallo e Spagna”. Un vecchio refrain.

E tuttavia, la Germania dovrà fare la sua parte innanzitutto innalzando il suo tasso di investimento interno, che “è l’1% più basso del livello del 2007 e che quest’anno è il più basso dell’eurozona”.

L’aumento degli investimenti interni contribuirà a riassorbire il surplus, sottolinea.

L’eurozona non conoscerà il suo decennio perduto, giura Asmussen. “Il decennio di aggiustamenti di fronte al quale ci troviamo (quindi almeno fino al 2017, ndr) sta correggendo gli errori del precedente decennio. Ma io sono convinto che risolveremo i nostri problemi alla radice”.

Nessuna sindrome giapponese per l’eurozona, quindi.

Al limite quella tedesca.

Bruxelles e Francoforte accerchiano Berlino

Così anche a Bruxelles si sono accorti (meglio tardi che mai) che la Germania vive diversi squilibri macroeconomici.

A modo suo, certo.

Per il momento la Commissione si è limitata a fornire alcuni dati, a cominciare dal surplus di conto corrente che ormai veleggia intorno al 7% del Pil, e a decidere che bisognerà dedicare a Berlino un’analisi approfondita della situazione tedesca per arrivare a determinare se effettivamente la circostanza che la Germania sfori alcuni indicatori da anni sia la prova che il paese è squilibrato.

E’ questo il senso dell’Alert mechanism report rilasciato di recente dalla Commissione, che altro non è che l’avvio di un nuovo ciclo di macronomic imbalance procedure (Mip),ossia di altre analisi il cui scopo è quello di identificare squilibri capaci di creare problemi all’economia europea e all’unione monetaria.

A tal fine vengono redatte le In depth review (Idr), al cui termine si decide se tali eventuali squilibri necessitino di un’azione correttiva oppure no.

Per il momento, perciò, l’ingresso della Germania (anche dell’Italia, ma questa è una non notizia) nell’Amr e quindi il fatto che meriti un’Idr, equivale a una sostanziale messa in mora, i cui esiti si conosceranno soltanto nella primavera dell’anno prossimo, quando i risultati saranno resi noti, e andranno a fornire il materiale per il prossimo semestre europeo di coordinamento della politiche economiche. Ossia la sede dove eventuali decisioni verranno prese.

Tutto questo serve a capire quanto sia cervellotica la buropolitica di Bruxelles.

Degna di nota la circostanza che la Germania finisca all’indice della Commissione europee poche settimane dopo (ma sarà di sicuro un caso) il rapporto del Tesoro americano che ha accusato Berlino di essere una fonte di squilibri globali, a causa dei suoi attivi commerciali.

A quest’attacco “politico” arrivato di qua e al di là dell’Atlantico, Berlino ha risposto con un rapporto redatto da cinque saggi dell’economia (tutti tedeschi) secondo il quale non è vero che i surplus tedeschi siano un problema.

Questo è il succo, anche se all’interno dei saggi le opinioni sono assai più sfumate.

Il problema è che all’attacco “politico” se ne è aggiunto un altro assai più silente ma altrettanto insidioso: quello condotto dalla Bce lato Unione bancaria.

Le cronache raccontano dell’orientamento che starebbe sorgendo all’interno del futuro governo tedesco per evitare che il meccanismo di risoluzione bancario (SRM), secondo pilastro dell’Unione bancaria, venga costituito a livello sovranazionale, come è stato per il meccanismo di sorveglianza (SSM) che è stato affidato proprio alla Bce.

I tedeschi, secondo quanto dicono i bene informati, vorrebbero che il Risolutore fosse composto da autorità nazionali: sul modello dell’EBA, quindi.

Al contrario nella proposta formulata dalla Commissione, si propone un’entità sovranazionale alla quale far partecipare anche i rappresentanti degli stati e in qualche modo la Bce.

I banchieri centrali, dal canto loro, hanno più volte fatto capire di essere d’accordo con questa impostazione, visto che solo un risolutore assolutamente indipendente e credibile sarebbe capace di restituire fiducia alle banche europee conducendo a un risultato giudicato assolutamente irrinunciabile: il taglio del nodo che tutta esiste (e che la crisi ha rinforzato) fra il debito sovrano e le banche residenti.

Al di là dei tecnicismi, che comunque appassionano solo pochi, quello che conta è che la Germania stia subendo un vero e proprio accerchiamento, sia sul lato della propria politica economica che su quello bancario, che mira chiaramente a edulcorare il suo peso politico e, di conseguenza si traduce in un indebolimento della sua sovranità nazionale.

Ed è esattamente questo il punto.

Il processo di Grande convergenza, che viene proposto come unica soluzione ai vari trilemmi che affliggono l’eurozona, non poteva che concludersi mirando al bersaglio grosso: la Germania. Ossia l’unico stato nazionale che la crisi ha paradossalmente rinforzato (lo vedremo in un altro post) e che perciò rischia di essere un ostacolo invalicabile lungo il gagliardo percorso di crescita dell’Unione Europea.

Percorso che si nutre della crisi degli stati nazionali, come è noto. Ovvero della loro incapacità a fornire risposte alle sfide della globalizzazione.

Solo che, mentre era facile applicare la teoria degli effetti benefici della crisi ai poveri PIIGS, incapaci di difendersi a causa dei propri debiti, assai più difficile prendersela con i pezzi grossi che hanno anche la ventura di essere i creditori.

Sempre la Germania.

Il Grande Creditore diventa improvvisamente un pericolo. E le sue banche un fattore di instabilità da tenere sotto controllo.

Vedremo come reagirà Berlino all’accerchiamento.

Certo non basteranno cinque saggi.

Di buono c’è che lo capiremo presto, visto che tutti questi processi andranno in cottura entro il 2014.

Intanto vale la pena sottolineare il paradosso per il quale tutti coloro che hanno coltivato sentimenti di inimicia nei confronti della Germania oggi dovrebbero augurarsi che riesca a resistere all’attacco (travestito di innocui rilievi tecnici) concentrico di Ue e Bce, se hanno a cuore la sovranità degli stati europei.

La “caduta” della Germania, infatti, segnerebbe il definitivo tramonto della sovranità nazionale e il trionfo delle entità sovranazionali.

Il dilemma di Thomas Mann fra una Germania europea e un’Europa tedesca verrebbe finalmente sciolto  a favore dell’Unione Europea tout court. E certo non è un caso che lo scrittore tedesco lo abbia formulato nel lontano 1953, due anni dopo la nascita della CECA.

La Germania, tutt’al più, sarebbe un’azionista di riferimento dell’Ue.

In ogni caso, un passaggio storico.

Meditate gente, meditate.

Un altro trilemma per l’eurozona

Siccome viviamo tempi difficili non basta più dover affrontare semplici dilemmi.

Ormai l’eurozona si trova di fronte solo trilemmi.

Deve vedersela con un celebre trilemma monetario, e deve far fronte ad un altro impegnativo trilemma politico.

Ma da quando è esplosa la crisi è arrivato un altro trilemma: quello finanziario.

L’ultimo a parlarne è stato Vitor Constancio, vide presidente della Bce, in una recente conferenza organizzata dalla Banca Santander a Madrid. Il tema ve lo potete immaginare: l’Unione Bancaria.

Lontano dal clamore delle cronache, i nostri banchieri centrali si stanno dando un gran daffare per spiegare urbi et orbi (ma sempre in ambienti tecnici) la bellezza e la bontà della nascente Unione bancaria. Tutti costoro concordano sull’origine della crisi europea e intravedono nella nuova unione bancaria il rimedio più sicuro per curare i sintomi del malessere sin dalla loro origine, che poi è molto semplice: il credito facile.

E’ stato il credito facile infatti a generare gli afflussi di denaro in conto capitale dei PIIGS e il relativo deficit sulle partite correnti. “L’esposizione delle banche dei paesi core verso i paesi periferici è più che quintuplicata dal 1999 al 2007”, dice il nostro banchiere.

E’ stata la ritirata del credito facile a rendere insostenibili debiti privati gonfiati fino allo sfinimento dal credito facile e a provocare l’esplosione del debito pubblico, chiamato a metterci una pezza e quindi finito in crisi anch’esso.

Dulcis in fundo, è arrivata la crisi dello spread, conseguenza diretta della crisi del debito pubblico, che ha “costretto” le banche a farsi carico del finanziamento dei debiti sovrani, opportunamente foraggiate dalla Bce.

Così siamo arrivati alla fine del problema che corrisponde all’inizio: le banche.

Sono le banche, oggi, il problema dell’eurozona, come ieri, secondo i nostri banchieri centrali, erano le monete volatili.

Sicché è del tutto logico che all’unione monetaria succeda un’unione bancaria.

Questo è il succo della narrazione di Constancio che prepara la ricetta che conosciamo bene: meccanismo unico di supervisione e poi di risoluzione, una volta chiarito a norma di legge chi dovrà mettere i soldi sul tappeto per tappare eventuali falle scovate dal supervisore sovranazionale una volta che la Bce avrà concluso il suo assessment sulle principali banche europee a fine ottobre del 2014.

“Il Single supervisory mechanism – spiega Constancio – inizierà formalmente la supervisione nel novembre 2014 – sottolinea Constancio – ed è stato disegnato per risolvere il trilemma finanziario provocato dal livello nazionale di supervisione, al fine di garantire l’integrazione e la stabilità finanziaria spostando la supervisione a livello sovrazionale”.

Ecco il punto: anche il trilemma finanziario, al pari degli altri due, si risolve spostando potere dal livello nazionale a quello sovranazionale.

Vale la pena approfondire.

Il concetto di trilemma finanziario è stato elaborato da Dirk Schoenmaker, studioso di finanza bancaria, che nell’aprile 2011 ha pubblicato uno studio (“The financial trilemma”) che ha scalato le classifiche delle banche centrali.

Schoenmaker è una delle firme illustri della Duisenberg school of finance, presso la quale ha pubblicato diversi paper dedicati proprio all’analisi delle questioni bancarie europee, che è un’istituzione intitolata, non a caso, al primo presidente olandese della Bce, Wim Duisenberg.

Questo serve a contestualizzare un po’ l’analisi.

Al termine di una lunga dissertazione, il nostro economista definisce il nuovo trilemma in questi termini: non è possibile avere allo stesso tempo la stabilità finanziaria, banche transfrontaliere e la supervisione nazionale. Bisogna scegliere di rinunciare a una cosa per avere le altre due.

Il trilemma, insomma, ricalca lo schema classico: fisso tre opzioni, le rendo simultaneamente incompatibili e “suggerisco” a quale rinunciare.

Un espediente retorico.

E sarà pure un caso, ma tutti i trilemmi finiscono con la rinuncia a qualcosa di nazionale.

Infatti lo stesso Schoenmaker, pochi mesi dopo, nel gennaio 2012, pubblica un altro paper dal titolo “Banking Supervision and Resolution: The European Dimension”, dove propone una personalissima soluzione al trilemma da lui stesso inventato: “Bisogna muovere la supervisione bancaria dal livello nazionale a quello sovranazionale. E fare ciò renderà necessario mettere in mani europee la risoluzione delle crisi, basata su una credibile dotazione finanziaria e accordi legali”.

Ma non è che bisognava essere economisti di spicco per trovare questa soluzione. Alla stabilità finanziaria, infatti, nessuno vuole o può rinunciare. Che le banche siano ormai transfrontaliere è un dato di fatto, da quando c’è totale libertà di movimento dei capitali. Rimane la supervisione nazionale, e capirai: se ne può tranquillamente fare a meno per avere le altre due cose.

E infatti a giugno 2012 il Consiglio europeo, pressato dalla crisi e dalla frammentazione finanziaria europea, fissa i paletti della futura Unione bancaria, fissando i tre pilastri, primo fra i quali la supervisione, che viene affidata alla Bce.

Sicché si capisce beneperché Constancio concluda manifestando la convinzione che “la lezione più importante che abbiamo imparato è che un mercato finanziario unico con una moneta unica necessita di un meccanismo sovranazionale unico di supervisione e di risoluzione”.

E poi dice che gli economisti non servono.

Servono eccome.

In tutti i sensi.

Dall’Ue all’UeP: ritorno al futuro

Sappiamo dove siamo: l’eurozona vive uno squilibrio delle bilance dei pagamenti che ha generato la crisi dei debito, pubblico e privato, e le sofferenze dei paesi fragili, chiamati con le cattive a rientrare dalla loro esposizione con i paesi forti.

Sappiamo che è in atto una correzione di questi squilibri che sta provocando forti fibrillazioni politiche e il desiderio in molti di rompere l’unione monetaria, accusata di essere la causa di questi squilibri per i suoi difetti di costruzione.

Sappiamo al contempo che a livello sovranazionale sta procedendo a tappe forzate il progetto di Unione bancaria, che si propone di aggiustare gli squilibri agendo su alcuni fattori giudicati di instabilità, come il nesso profondo che c’è fra le banche e il debito degli stati dove sono residenti, e restituendo la fiducia alle banche europee attraverso un profondo processo di assessment ed eventuale risoluzione, sempre che si riesca ad accordarsi sulle norme per tempo.

Un progetto ancora per nulla metabolizzato dalle opinioni pubbliche europee, confinato com’è nel sapere specialistico, che sono invece impegnate nella battaglia che si propone di restituire agli stati la sovranità monetaria, mentre a Bruxelles si prepara la tappa successiva dell’Unione europea: l’unione fiscale.

In sostanza, la crisi ha esarcebato la dialettica, finora silente, fra gli stati nazionali dell’eurozona e le istituzioni sovranazionali, e nessuno sa come andrà a finire.

Poniamoci una semplice domanda: cosa dovrebbe fare l’eurozona, ma più in generale l’Europa, per uscire dalla crisi, che non risparmia neanche i paesi fuori dall’Unione monetaria?

Tutti dicono: serve la crescita.

E come dovrebbe ripartire?

Poiché il futuro è quantomai incerto, riavvolgiamo il nastro della storia, che come dice il proverbio è (o dovrebbe essere) maestra di vita.

L’Europa si è trovata in condizioni assai peggiori di quelle in cui si trova adesso, eppure è stata capace di inventare uno strumento che in pochi anni ha contribuito a generare il miracolo economico degli anni 50. Vale la pena, perciò, tornare a raccontare questa storia.

1947. L’Europa è uscita a pezzi dalla guerra. Le città e i sistemi produttivi sono distrutti. I paesi sono pesantemente indebitati. Gli Stati Uniti si trovano nella situazione opposta: hanno un sistema industriale integro, anzi rafforzato dall’economia di guerra, e sono diventati i grandi creditori del mondo occidentale.

Hanno un sacco di crediti, che minacciano di diventare inesigibili se i paesi europei non si riprenderanno, e un sacco di merci che devono essere vendute a qualcuno che non ha i soldi per pagarle.

In questa temperie trova la sua origine il piano Marshall.

Nel giugno di quell’anno ci fu il celebre discorso di Marshall sulle scale del Memorial Church di Harvard che sfociò poi, un mese dopo nell’apertura della conferenza sul Piano di Parigi. Gli americani, che alla fine dei quattro anni di vigenza del piano versarono agli stati europei circa 17 miliardi di dollari dell’epoca, insistettero a lungo sulla necessità che i paesi europei usassero gli aiuti non solo per comprare cibo e benzina, ma soprattutto per sviluppare la libertà di commercio e l’integrazione europea.

Il seme dell’Europa unita fu piantato allora.

Infatti un anno dopo, nel 1948, Truman firmò il decreto che istituiva l’ECA, Economic cooperation administration, che doveva occuparsi di amministrare gli aiuti del piano Marshall. Contestualmente all’ECA, fu fondata in Europa la OECE, un’organizzazione che avrebbe dovuto occuparsi di sviluppare la cooperazione economica in Europa, oltre a controllare la distribuzione dei fondi gestiti dall’ECA. All’OECE, che di fatto fu la prima istituzione sovranazionale del nostro continente, aderiscono subito 16 paesi europei: Austria, Belgio, Danimarca, Francia, Grecia, Irlanda, Islanda, Italia, Lussemburgo, Norvegia, Paesi bassi, Portogallo, Regno Unito, Svezia, Svizzera e persino la Turchia. Un anno dopo aderì anchela Germania federale.

E furono proprio i paesi dell’OECE i protagonisti dell'”invenzione” tecnica che rivoluzionò le sorti dell’Europa: l’Unione europea dei pagamenti, UeP.

Non fu un percorso facile. Un paio di vignette che ho trovato on line lo raccontano meglio di mille parole. In una, pubbicata il 28 dicembre del ’49 dal cartoonist inglese David Low, si vedono i politici europei impelegati in discussioni sull’integrazione europea, mentre un bimbetto alato con in testa il cilindro americano e la scritta 1950 sul pannolino esorta a fare presto :”Time, gentlemen, Time”. In un’altra, pubblicata il 28 marzo 1950 sempre da Low, si vedono i leader europei dell’UeP nuotare in una piscina insieme, mentre sul bordo, che confina con un’altra piscina, quella dell’area valutaria della sterlina, ci stanno politici inglesi evidentemente indecisi su dove tuffarsi.

Sembra storia di oggi.

L’Uep fu fondata nel 1950 col preciso scopo di sviluppare il commercio fra i paesi europei. Il meccanismo di base prevedeva l’utilizzo di una clearing house, che fu individuata nella Banca dei regolamenti internazionali (BRI), presso la quale i paesi aderenti avevano aperto dei conti dove venivano registrati i flussi monetari provenienti da export e import dei singoli paesi. Ogni mese la banca calcolava i saldi e comminava un pagamento di interessi ai paesi in debito e un riconoscimento di utile a quelli in surplus.

Ma la trovata che fece funzionare il meccanismo fu la multilateralità delle compensazioni. Fino ad allora i paesi europei avevano concluso un gran numero di accordi bilaterali – se ne contarono oltre 400 dal ’47 in poi – ma tali accordi rivelavano il loro limite nel fatto che i crediti di un paese non potevano essere compensati con i debiti verso un paese terzo. Tutto ciò, in un momento di grande scarsità di capitale e di riserve delle banche centrali, rendeva i flussi di commercio anemici e incapaci di risollevare le sorti dell’industria europea.

La clearing house, invece, fu dotata di fondi sufficienti a finanziare i deficit temporanei delle bilance commerciali dei paesi in deficit per il tempo necessario a rientrare, grazie alle loro esportazioni, dei loro debiti. Tali fondi arrivarono proprio dal Piano Marshall, e forse furono quelli spesi meglio.

Questo primo esperimento di autentica cooperazione monetaria in Europa aveva un’altra caratteristica che lo rendeva unico: così come scoraggiava il debitore ad accumulare deficit, imponendo un interesse sugli scoperti, allo stesso tempo scoraggiava il creditore dall’accumulare surplus. I  creditori, infatti, avevano diritto a vedersi rimborsare dall’Uep solo una parte dei surplus e se volevano di più dovevano chiedere una deroga al consiglio direttivo dell’Uep, che di conseguenza disponeva di un formidabile strumento di pressione per spingere il paese creditore a liberalizzare i propri commerci o aumentare le importazioni.

In pratica il sistema intereuropeo dei pagamenti tendeva al naturale riequilibrio.

E che fosse l’equilibrio il principale obiettivo di questo sistema sistema si capisce leggendo anche i documenti dell’epoca.

In un memorandum segreto del 14 dicembre 1949 scritto a Parigi per la delegazione inglese, intitolato “The future of intra-european payment”, l’autore stigmatizza alcune misure che, scrive, “non scoraggiano i creditori e i debitori dal mantenere uno stato di squilibrio” ed esorta la delegazione a farsi carico di modifiche che impongano “al debitore di migliorare la sua posizione potendo contare sul deficit senza alcuna obbligazione da parte sua”, mentre per bisognava fare in modo che il paese creditore potesse “importare sempre più liberamente dai suoi debitori”.

Lo scopo del gioco era innanzitutto quello di evitare, grazie alla compensazione multilaterale, lo spostamento di oro o dollari dalle riserve dei paesi, che erano risicate. E tuttavia, “tali spostamenti non possono essere esclusi”, dice l’anonimo estensore. In ogni caso “sarebbe desiderabile che i creditori e i debitori trovassero un modo alternativo per ripristinare l’equilibrio attraverso l’aumento di importazioni del creditore, la svalutazione della valuta o la deflazione interna del debitore, o il contrario per il creditore, oppure la restrizione dell’import per il debitore”.

Parole che oggi ci sono diventate familiari.

Concetti simili sono ribaditi in un altro memorandum del marzo 1950 presentato dalla delegazione Belga all’OECE, che sottolinea come l’obiettivo fondamentale e immediato dell’UeP sia quello di “ristabilire l’equilibrio finanziario interno, e di conseguenza esterno, dei paesi partecipanti al sistema che deve agire come un fondo di stabilizzazione che contiene in se stesso i correttiviti necessari per opporsi sia all’inflazione che alla deflazione”. Altri obiettivi: “l’allargamento del mercato interno, l’aumento della produttività e della produzione totale” (anche questo vi dovrebbe suonare familiare) e poi “una liberalizzazione completa degli scambi e delle transazioni” e la “ricostituzione delle riserve delle banche centrali”.

Per regolare le compensazioni, ovviamente, occorreva che ci fosse una parità fissata fra le valute nazionali e l’unità di conto internazionale, che fu fissata in grammi d’oro basandosi sul valore aureo del dollaro. Alla fine di ogni mese si procedeva alle copensazioni che venivano saldate in oro o crediti presso l’UeP.

Per dare un’idea del successo ottenuto dall’UeP bastano alcuni dati tratti da studi internazionali. Dopo l’Uep il commercio intraeuropeo aumentò del 130%, le esportazioni verso gli Stai Uniti addirittura del 206%. L’occupazione aumentò del 10%, il Prodotto nazionale lordo reale del 48%.

Fu l’inizio del boom.

Proprio quello che ci servirebbe oggi.

Fatto sta che il 28 dicembre 1958 l’Uep fu chiusa. Gli Stati, e le loro banche centrali, sentivano ormai di essere forti abbastanza per affrontare il cambio fisso col dollaro come era stato previsto a Bretton Woods. Il suo posto fu preso dall’EMA, European monetary agreement, ossia l’Accordo monetario europeo, che avrebbe segnato l’inizio della convertibilità delle monete europee e che era stato siglato il 5 agosto del 1955 al fine di istituire un fondo di riserva europeo (il papà dell’ESM) per quei paesi la cui bilancia dei pagamenti mostrava un deficit, un sistema di compensazione oltre a un sistema di perequazione basato sui tassi di cambio al fine di tenerli più stabili possibile.

L’AME avrebbe dovuto sostituire L’UeP, ma alla fine non funzionò perché a differenza dell’UeP, il sistema di compensazione multilaterale e della concessione dei prestiti fra paesi non era obbligatorio né automatico.

Il pendolo della storia si era spostato dall’entità sovranazionale agli stati nazionali, ormai gagliardamente tornati protagonisti della storia.

Esattamente il contrario di quello che sta avvendendo oggi.

La domanda perciò che sarebbe opportuno farsi è: possiamo mutuare un qualche insegnamento dal nostro passato?

Una riposta affermativa l’ho trovata  in un libro pubblicato l’anno scorso da due economisti e storici dell’economia, Massimo Amato e Luca Fantacci (Come salvare il mercato dal capitalismo, Donzelli). Secondo i due studiosi non solo occorre una nuova Unione europei dei pagamenti, ma disponiamo già dell’infrastruttura finanziaria per attuarla. La camera di compensazione, osservano, oggi si chiama Target 2, il sistema di pagamento utilizzato dalla Bce per gestire i regolamenti fra le banche centrali dell’eurosistema. Target 2 è servito  a finanziare i deficit dei paesi colpiti dalla crisi, tramite le loro banche centrali.

Come sappiamo tali saldi sono tuttora squilibrati, Basterebbe allora applicare il sistema della UeP degli oneri simmetrici per il riaggiustamento (quindi oneri per i debitori, ma anche per i creditori) per trasformare Target 2 nella nuova Unione europea dei pagamenti. In omaggio a questa logica, bisognerebbe imporre limiti all’accumulazione di deficit e surplus, oltre a fissare un tasso di interesse sugli uni e sugli altri, e la possibilità di aggiustare i tassi reali, se non nominali, in caso di squilibri persistenti.

In questo sistema l’esistenza di valute nazionali è un dettaglio, purché i cambi siano fissi o aggiustabili ma non in maniera unilaterale, e quindi potrebbero partecipare alla nuova UeP anche i paesi fuori dall’euro. La stessa Turchia, come era sessant’anni fa.

Un salto nel passato.

E un ritorno al futuro.

Il sorpasso (bancario)

C’è una rappresentazione alquanto plastica della tanto decantata distanza della politica dalla realtà. Il vertice dei capi di stato e di governo che andrà in scena domani e domani l’altro a Bruxelles, che arriva con due giorni di ritardo dalla pubblicazione del Comprehensive assessment sulle banche europee lanciato oggi dalla Bce.

Da una parte una pletora di uomini politici chiamati a decidere le prossime mosse dell’Ue su un nutrito elenco di questioni, fra le quali spiccano quelle relative all’Unione bancaria.

Dall’altra un board di governatori centrali che annuncia a 130 banche europee che per un anno i loro bilanci saranno passati al setaccio prima di finire sotto la supervisione effettiva della Banca centrale.

Da una parte 28 capi di stato o di governo che si impiccheranno su aggettivi e avverbi per trovare un compromesso più o meno inconcludente.

Dall’altra l’inizio di un percorso, già operativo, destinato a mutare il volto della finanza europea e, di conseguenza, l’Europa stessa.

Vi sembra un’esagerazione?

Chi ha seguito il lungo e articolato dibattito sull’Unione bancaria con i suoi annessi e connessi, sa bene che la questione delle banche nazionali è diventato il vero punto di snodo dell’evoluzione dell’architetture europea. Decidere cosa le banche possano avere in pancia – in fondo questo è il senso della supervisione bancaria – in questo senso, è uno strumento assai potente che condurrà in maniera naturale alla prossima tappa del processo di integrazione europeo: l’unione fiscale.

Perciò chi si appassiona alle dispute fra i singoli stati dell’Unione, notando che la Germania vuole questo mentre la Francia vuole quello, perde di vista la direzione scambiandola col dito.

La direzione, che il documento approvato oggi dalla Bce indica con chiarezza, è che le banche europee devono piacere al mercato, se vogliono continuare a stare in piedi (e di conseguenza sostenere l’economia degli stati). E poi che del monitoraggio della qualità della banche europee è stata incaricata un’entità sovranazionale che, in virtù della sua indipendenza, offrirà ampie garanzie al mercato circa l’esito dei suoi monitoraggi e degli stress test

Su questi ultimi gli stati nazionali non hanno più praticamente alcuna voce in capitolo, salvo che dovrebbero concordarne i requisiti con l’Eba. Altra entità sovranazionale.

Il dito è che ci siano stati che tirano da una parte piuttosto che da un’altra per il futuro dell’Unione Bancaria. Ma è solo un gioco della parti.

Tutti i capi di stato, in particolare quello dell’eurozona, sanno che l’Unione bancaria è un fatto ineludibile. Le discussioni di queste settimane servono soltanto a capire chi dovrà pagare il conto  e come.

Pensateci un attimo. Una volta che una banca sia trovata carente dalla Bce, della sua risoluzione farà prima ad occuparsi il mercato o il Risolutore la cui fisionomia, con fatica, il Consiglio europeo dovrebbe individuare fra pochi giorni?

Per farvela semplice, la costruzione degli altri due pilastri dell’Unione bancaria, quindi il meccanismo di risoluzione e la garanzie europea sui depositi, sono di per sé una derivata del primo pilastro. L’impronta del primo non può che influenzare gli altri due, che piaccia o no agli stati che, appunto, sono impelagati in altre e più robuste questioni.

Per un singolo stato, ad esempio, è molto più importante capire se le sue banche, secondo i criteri elaborati dal supervisore e dall’Eba, sono coerenti con la qualità degli attivi giudicata ottimale oppure no.

Sapere, ad esempio, come verranno valutati i titoli di stato in pancia alle banche residenti.

Da questo punto di vista l’assemblea dei capi di stato e di governo è una cerimonia che si consuma in nome di un principio, quello della rappresentanza democratica, ormai palesemente superato dal tecnicismo bancario, almeno nelle materie economico-finanziarie. Quest’ultimo detta la linea. Il Consiglio europeo la recepisce facendo finta di dettarla.

Volete un esempio?

La Bce chiederà alle banche che abbiano un indice di capitale (common equity tier 1) pari all’8% e al termine dell’assessment, completo di stress test, pubblicherà i risultati a fine ottobre 2014, ossia prima della presa in carico della supervisione prevista per il mese successivo. E’ la Bce, insieme con l’Eba, a decidere quali indicatori usare e a quale livello. E quindi sono queste due entità a stabilire lo stato di salute di una banca, tedesca o italiana che sia.

Comunque sia, l’ottobre 2014 sarà un momento memorabile per la finanza europea. Avremo modo di capire quale livello di divaricazione si sia ormai accumulato fra le istituzioni europee e gli stati nazionali, compresi gli azionisti di maggioranza, Germania in testa, cui le banche provocano non pochi grattacapi.

Nel frattempo il Consiglio europeo dovrebbe riuscire a trovare un accordo per approvare gli altri pilastri dell’Unione bancaria entro le nuove elezioni europee (aprile 2014).

Secondo voi a quale scadenza crederà di più il mercato, a quella della Bce o quella dei capi di stato europei?

Non è una roba di poco conto. Scegliere a chi credere significa decidere chi sarà il domatore della belva finanziaria. Se, vala dire, sarà il Consiglio d’Europa o la Bce.

A dirla tutta, usare la frusta dei mercati finanziari per placare l’altra belva, quella degli stati nazionali, è di sicuro la trovata più interessante partorita dai banchieri centrali negli ultimi sessant’anni. Atteso che poi sono bravissimi ad utilizzare la frusta degli stati, via regolazione, contro la belva dei mercati.

Sempre per il bene comune, ovviamente.

A guardarla così, la dichiarazione di Mario Draghi, secondo la quale “l’esame degli attivi delle banche europee rappresenta un passo avanti importante per l’Europa” dice molto di più di quello che sembra. L’esame, sottolinea il Governatore “migliorerà la fiducia del settore privato nella solidità delle banche europee”. E, di conseguenza, costringerà gli stati a mollare la presa sulle proprie banche, visto che verrà spezzato una volta per tutte quel legame che le lega ai debiti sovrani che tanto indigna i nostri banchieri centrali.

Non bisogna essere maghi per sapere che spezzare tale legame  sarà uno dei costituenti della fiducia nelle banche europee e quindi un ottimo viatico all’Unione fiscale, della quale ormai si parla apertamente in tutti i consessi europei.

Sicché mentre domani i politici si metteranno in fila a Bruxelles, la Bce si esibisce nella sua migliore specialità:

il sorpasso.

E così sceglie pure la direzione.

C’è del marcio in Danimarca?

Le ultime che arrivano dalla Danimarca ci raccontano dell’intenso dibattito politico, che potrebbe sfociare in un referendum, fra il governo e i partiti euroscettici su una serie di questioni europee: dall’adesione alla normativa Ue sui brevetti, all’Unione bancaria.

A parte provare una sana e benevole invidia – addirittura un paese dove si parla di cose reali – mi sono chiesto come mai la Danimarca, che pure è uno dei paesi creditori del mondo ed è fuori dall’euro (sempre dopo un referendum, lo ricorderete), abbia iniziato a discutere di queste cose, quando il buon senso dovrebbe suggerirle di non mischiarsi con i pasticcioni dell’eurozona, seppure per il tramite dell’adesione indiretta per via bancaria.

Poi mi sono capitati fra le mani un paio di discorsi. Uno del vicegovernatore della banca centrale finlandese Pentti Hakkarainen alla Mansion House di Londra. E l’altro del governatore della banca centrale danese, Lars Rohde, all’associazione della banche danesi che si occupano di mutui.

Il primo ha detto a chiare lettere che la regione nordica, ossia quel gruppo di paesi che vede insieme Svezia, Danimarca, Finlandia e Norvegia, avrebbe tutto da guadagnare se aderisse al meccanismo di supervisione bancaria (SSM) di recente approvato a Strasburgo, che vede la Bce nel ruolo di supervisore di 130 banche dell’area euro.

La ragione è presto detta: l’area nordica, come di recente ha illustrato con chiarezza anche uno staff report del Fondo monetario internazionale, è profondamente interrelata sul versante bancario. Talché una crisi bancaria in uno dei paesi avrebbe conseguenza devastante anche per gli altri, come peraltro dimostra l’esperienza della crisi bancaria di fine anni ’80 che travolse la Svezia.

La Finlandia, in quanto aderente all’euro, nell’Unione bancaria entrerà di diritto. E poiché sul suo territorio ospita diverse filiali di banche degli altri paesi dell’area del Nord, in ogni caso la Bce finirebbe col doversene occupare. Meglio sarebbe, di conseguenza, entrare direttamente nella sorveglianza unificata “per dare coerenza e semplificare la struttura di supervisione”, dice il nostro banchiere. Sarebbe un fatto tecnico, quindi, non eminentemente politico.

Peraltro tale opinione viene condivisa anche da diversi analisti. Una ricerca pubblicata da Bruegel, un think-tank economico, sottolinea che la Danimarca, ma anche la Svezia, “dovrebbero essere pronti a entrare” nel meccanismo SSM, per superare alcuni svantaggi competitivi.

In Svezia il dibattito per ora rimane sullo sfondo. Al contrario di quanto accade in Danimarca. E leggere quello che dice il governatore danese ci aiuta a capire perché.

Alcuni dati evidenziano la sostanza del problema. Con l’esplosione della crisi del 2008 il governo danese dovette mettere sul piatto una quantità ingentissima di risorse per mettere al sicuro il proprio sistema bancario. Il primo Bank reascue package previde garanzie esplicite del governo per 4.200 miliardi di corone per le banche danesi. Con il secondo Bank rescue package, il governo iniettò 46 miliardi di corone nel settore finanziario per evitare potenziali credit crunch, oltre a garantire 194 miliardi di corone di emissioni di debito.

Cinque anni dopo il governo aveva iniettato altri 31 miliardi di corone nelle sue banche. “Finora – dice il governatore – il governo non ha avuto costi diretti che non siano stati coperti, ma i rischi sono stati enormi. In questa prospettiva – conclude, non c’è alcun dubbio che si fosse bisogno di una stretta”.

Ma cosa aveva combinato il settore bancario danese per costringere il governo a farsi carico di questi “rischi enormi”?

Il problema, per la Danimarca come anche per tutta l’area nordica, è innanzitutto il debito privato. Le famiglie danesi sono imbottite di debiti, per lo più contratti per comprare casa, e l’andamento del settore non è rassicurante, con la conseguenza che “la crescita in Danimarca – dice il governatore – sta sotto il suo livello potenziale”, anche a causa dell’andamento piatto del consumo privato, cui certo non giova un alto livello di debiti.

Ad aggravare la situazione l’andamento dei corsi immobiliari, crollati nel biennio 2008-9, e declinati di circa il 10% anche nel 2011. Solo nel 2012 i prezzi sono risaliti, ma in maniera diseguale sul territorio. Nella capitale, l’anno scorso, i prezzi sono saliti del 10%. Ma non è andata così in tutto il paese. E tuttavia il sospetto che ci si possa trovare di fronte a unsettore squilibrato rimane.

Un’indagine svolta dalla banca centrale danese nella sua ultima Monetary review, citata dal governatore, compara i prezzi delle case a Copenhagen con altre capitali europee e sottolinea come 100 metri quadri nella capitale danesi costerebbero 2,3 milioni di corone, il doppio rispetto ad Oslo e Stoccolma e addirittura il triplo rispetto a Parigi, mentre a Berlino il costo sarebbe di circa 1,9 milioni di corone.

Ciò fa dire al nostro banchiere che “il livello dei prezzi a Copenhagen non è particolarmente alto rispetto a una prospettiva internazionale, ma non è probabile che i prezzi continuino a salire al passo che abbiamo visto l’anno scorso e neanche dovrebbero”. I prezzi immobiliari – dice “sono vicini al loro livello di equilibrio” anche se la storia insegna che “ci possono essere rilevanti deviazioni dal trend” anche a causa “della tassazione sulle case che contribuisce all’instabilità del settore”.

La stabilità del settore immobiliare è un pre-requisito della stabilità finanziaria delle banche danesi. E, indirettamente, vista l’esperienza storica, dell’equilibrio fiscale.

A proposito, la politica fiscale, dice il banchiere, “non dovrebbe essere rilassata”. Malgrado il deficit sia intorno al 3% scritto nelle tavole della legge ed è previsto rimanga a quel livello fino al 2015, non ci sono spazi per fare politica espansiva.

Perché? uno dei motivi è che dal lato credito bancario, dal 2008 in poi l’attività di prestito si è rafforzata nel settore delle banche che rilasciano mutui, mentre si è contratta nelle banche tradizionali. Significa che famiglie e imprese hanno acceso mutui invece che prestiti “normali” e le imprese, i particolare, hanno preferito finanziarsi emettendo bond piuttosto che chiedendo un affidamento bancario.

Ma questo significa solo che il rischio si è spostato da un settore bancario all’altro. E stante l’alto livello di indebitamento delle famiglie questo può essere un grave fattore di instabilità con conseguenze, in ultima analisi, anche per i conti dello stato.

A tal proposito è interessante notare che il governatore non crede che l’alto livello di debito privato possa destabilizzare le banche, perché dice, “i cittadini tendono a dare proprità al pagamento del mutuo sopra ogni cosa”, ma certo, ammette, potrebbero esserci effetti indiretti sulla domanda aggregata (già piatta) e quindi sull’equilibrio fiscale (già ai confini del deficit) qualora si verificasse una qualche forma di shock sui tassi d’interessi.

Si capisce perché la banca centrale danese si eserciti in diversi scenari apocalittici, finora più o meno rassicuranti. E anche perché si parli così tanto di Unione bancaria.

Per quanto il governatore sia convinto che “il settore finanziaro danese si è stabilizzato dal collasso della Roskilde bank del 2008”, lui stesso riconosce che ci sono un paio di questioni sul tappeto che suscitano qualche preoccupazione.

La prima è quella dei prestiti chiamati F1, ossia mutui che vengono rifinanziati annualmente. Quindi debito lungo che viene finanziato a breve. Un potente fattore di instabilità.

“Cosa succederebbe – dice – se una banca che opera nei mutui si trovasse nell’impossibilità di venderei suoi bond a breve coi quali finanzia i suoi prestiti a lungo?”

Risposta: “La banca centrale si comporterebbe come prestatore di ultima istanza, sempre che la banca in difficoltà abbia collaterali in quantità e qualità tali da avere credito”. E poiché i bond delle banche che erogano mutui sono entrati nei collaterali accettati dalla banca centrale, il problema sembra di facile soluzione.

Provo a tradurre: in caso queste banche non piazzino i propri bond sul mercato, li comprerà la banca centrale usando come collaterali gli stessi bond che nessuno vuole comprare. Di fatto significa buttare sulle spalle del bilancio dello stato il rischio di questi finanziamenti. 

Ti credo che “non c’è rischio per la stabilità finanziaria”. Anche se “è importante trovare una soluzione di lungo termine”.

La seconda questione riguarda proprio la regolazione. “La crisi ha rivelato molte debolezze e le regole sono state rinforzate” dice, “ma adesso sembra che la crisi finanziaria sia stata già dimenticata e, come abbiamo già visto in passato, ci saranno pressioni per allentare le regole”.

Meglio mettersi sotto l’ala della Bce e tenere le dita incrociate.

Evidentemente c’è del marcio in Danimarcia.

Ops, Danimarca.

Il Lamento di Confindustria e la Sindrome di Bruxelles

Chissà perché mi è venuto in mente il Lamento di Portnoy di Philip Roth di fronte all’ennesimo campanello d’allarme suonato dalla Confindustria dal palco internazionale di Berlino. Forse perché il romanzo di Roth racconta con grande divertimento la nevrosi di un uomo che gode dell’astio che nutre per sue radici, un po’ come la nostra grande industria, ormai vocata all’internazionalizzazione, a differenza della piccola, e molto spesso critica nei confronti del proprio paese.

Mentre non mi ha stupito il plauso rivolto dal presidente di Confindustria Squinzi a Mario Draghi, “che ha salvato l’euro”, mi ha sorpreso l’endorsement dello stesso Squinzi per l’unione bancaria. Il leader degli industriali ha detto che bisogna assolutamente concludere il processo. Un’affermazione che prima di lui avevano fatto solo il ministro del Tesoro Saccomanni (ex banchiere centrale) e l’attuale governatore di Bankitalia Visco.

Il resto della classe politica italiana semplicemente non pervenuta.

Dimmi con chi vai e ti dirò chi sei, insegna la saggezza popolare.

Da tali circostanze ho dedotto che evidentemente i nostri confindustriali sono assolutamente convinti della necessità e dell’importanza strategica dell’attuale costruzione monetaria e (presto) bancaria.

E allora mi è sorta una domanda: perché?

A scuola mi hanno insegnato che gli imprenditori guadagnano vendendo i loro beni e servizi. Più riescono a vendere più guadagnano, sempre che riescano a produrre a un prezzo che superi il più possibile il costo di produzione.

Quindi, mi sono detto, evidentemente l’unione monetaria e (presto) bancaria è un ambiente favorevole per gli affari.

Allora mi sono andato a vedere gli ultimi dati Istat ed Eurostat sulla bilancia commerciale dell’Eurozona e del nostro Paese seguendo il filo di un semplice ragionamento: se i nostri confindustriali esportano più beni all’estero, vuol dire che effettivamente fanno bene a difendere lo status quo. In questa fase di debito estero crescente, meglio far arrivare più denari possibili da oltrefrontiera.

L’Istat, che ha rilasciato i dati sul commercio estero pochi giorni fa, dice che a luglio 2013 c’è stato un calo delle esportazione del 2,3% rispetto a giugno, con un forte calo per i beni di consumi durevoli (-6%) e strumentali (-4,4%).

Se andiamo aldilà del dato congiunturale e guardiamo al tendenziale, osserviamo che dal luglio 2011 a luglio 2013 la curva dell’export è sostanzialmente piatta, a differenza di quella dell’import, in netto ribasso. Con una precisazione: è piatta quella dell’export verso i paesi Ue e in lieve rialzo quella verso i paesi extra Ue, in particolare Cina, Russia e Giappone.

Quindi il nostro saldo commerciale  è migliorato perché abbiamo importato di meno, che poi significa consumato di meno. E meno consumi interni non dovrebbero essere una buona notizia per gli industriali, anche se confindustriali.

Se da Istat passiamo ad Eurostat, cambia poco. L’eurozona esibisce un surplus di 18,2 miliardi di euro a luglio 2013, in crescita rispetto ai 13,9 del luglio 2013.

Senonché se si vanno a vedere i dati di giugno 2013, scopriamo che è accaduto il contrario: rispetto a giugno 2012 il valore assoluto delle esportazioni dell’eurozona è diminuito del 3% (da 162 miliardi, nel giugno 2012 a 157,3 di giugno 2013). Il saldo, tuttavia, era già positivo per 12,8 miliardi, a giugno 2012, ed è arrivato a 16,5 a giugno 2013. Ma anche qui,la differenza l’han fatta le importazioni, crollate dai 149,2 miliardi di giugno 2012 a 140,8 del 2013.

Se guardiamo a un periodo più lungo, da gennaio a luglio, vediamo che fra il 2012 e il 2013 le esportazioni sono aumentate del 2% (da 1.086,4 miliardi a 1.104,9), mentre l’import è calato del 4% (da 1.051,3 a 1.014,1). Il saldo è passato da un surplus di 35,1 miliardi a 90,8.

Senonché l’eurozona, come dovremmo aver imparato tutti, è fortemente frammentata. Riferendoci sempre al periodo gennaio-luglio, vediamo che per l’Italia l’export totale è rimasto lo stesso, da 195,3 mld a 194,5 (la famosa curva piatta Istat) mentre l’import è crollato del 7%. Ma c’è di più: anche la super Germania è piatta: da 549,2 mld nel 2012 è addirittura in leggero calo a 547,1, mentre l’import è sceso del 2%. La Francia esibisce una contrazione dell’export dell’1% e dell’import del 3%, il Lussemburgo ha esportato addirittura il 16% in meno. Ma se i pezzi grossi hanno fatto flop, da dove è arrivato il surplus?

Nell’eurozona il meglio l’hanno fatto la Grecia (+5%), la Spagna (+6%), Cipro (+9%) il Portogallo (+3%). Come dire: più sono disgraziati (e quindi più competitivi) più esportano.

Vale la pena sottolineare che la Gran Bretagna ha fatto un +15% nel periodo considerato. Forse c’entra qualche cosa la politica monetaria della BoE?

Rimaniamo col dubbio e con la domanda di prima: perché i nostri confindustriali tifano euro+unione bancaria?

Se allunghiamo lo sguardo al conto merci dal 2008 al 2013, scopriamo (valori storici/Bankitalia) che i nostri crediti da export sono rimasti pressoché costanti. Erano 377 miliardi nei dodici mesi conclusi a luglio 2008, sono stati 387 a luglio 2013, dopo aver recuperato il crollo subito fra il 2009 e il 2010 (314 mld). In pratica un leggerissimo miglioramento.

Lato debiti/import siamo passati dai 374 mld dei dodici mesi finiti a luglio 2008 ai 355 mld di luglio 2013, dopo aver toccato un picco di import nel luglio 2010 a quota 390 mld.

Anche nel medio periodo, quindi, il miglioramento del saldo commerciale non dipende dal fatto che i nostri imprenditori hanno venduto di più. Semmai il contrario.

Poiché dalle merci non è arrivata una risposta convincente, sono andato a vedere tutto il conto corrente della bilancia dei pagamenti, non soltanto il conto commerciale.

Prendiamo la voce servizi e guardiamo i dati dal 2008 in poi (a valori storici/Bankitalia). I nostri crediti da servizi nei 12 mesi terminati a luglio 2008 erano pari a 82,1 mld,lo stesso valore di luglio 2013. Quindi neanche lato servizi il sistema Italia, imprese incluse, hanno fatto grandi progressi.

Rimane la voce dei redditi che, lo ricordiamo, conteggia come credito il rendimento degli investimenti all’estero dei nostri residenti e come debito il rendimento che i non residenti guadagnano dai loro investimenti in Italia. Nel luglio 2008 i crediti erano 67 miliardi e i debiti 94. Nel 2013 i crediti erano poco più di 49 miliardi e i debiti 61.

Ciò dipende da due cose. Lato crediti dal fatto che i residenti hanno disinvestito i propri asset esteri, sia di portafoglio che diretti. Lato debito che è rientrato molto debito estero, specie quello dello stato, per le note ragioni di credit crunch e che quindi ci abbiamo pagato meno interessi.

Lato imprenditori, l’unica voce “dedicata” che potrebbe dirci qualcosa è quella degli investimenti diretti all’estero. Nei dodici mesi finiti a luglio 2008 i cittadini italiani avevano oltre 48 mld di investimenti diretti all’estero. A luglio 2013 sono poco più di 10 miliardi. In pratica si sono ridotti di un quarto. Chi si è internazionalizzato ha fatto quello che doveva fare ma oggi gli italiani, imprenditori in primis, sembrano sempre più rinchiusi nel recinto delle proprie frontiere.

Insomma, da qualunque lato guardo la cosa, il lamento di Confindustria, con tanto di endorsement, non lo capisco proprio.

Ma sarà un mio limite.

Perciò sono andato a leggere il sole 24 Ore, il massimo organo di informazione economica italiano, per incidente di proprietà della Confindustria.

Se non me lo spiegano loro…

L’edizione del 17 settembre dedica ben due pagine alla “questione industriale”.

E meno male, penso.

Leggo tutto, anche le didascalie.

Una doviziosa cronaca dice che Draghi e Squinzi si sono trovati d’accordo sul fatto che la priorità dell’eurozona deve essere il rilancio della crescita e dell’occupazione. Un titolo spiega che Draghi esorta al completamento dell’Unione bancaria “con un forte meccanismo di risoluzione“. Un sommario avvisa che “La Bce non può sostituire i governi che devono riformare sistemi politici inefficienti”. Ma la parola d’ordine di Draghi è sempre la stessa: bisogna aumentare la competitività.

Mi sono immaginato Squinzi applaudire in quel preciso momento.

Dopodiché mi è caduto l’occhio su un robusto editoriale intitolato “L’industria europea alza la voce”. E questo vociare chiede “più Europa, più credibile, efficiente e competitiva”. Quindi riforme strutturali, lato lavoro innanzitutto. “Chi pare non aver capito sono i governi”, commenta l’articolista.

I soliti politici arruffoni e arraffoni.

Ma il pezzo forte è l’apertura della pagine dispari, quindi quelle più visibile nella grammatica dei giornali.

Un poderoso virgolettato di Squinzi avverte: “Il cuneo (fiscale, ndr) banco di prova del governo”. Perché non si dica che gli industriali vogliono salari più bassi, ma un costo del lavoro più basso. Quindi un taglio della contribuzione e degli oneri legati alla retribuzione.

Ma i soldi, dove li prende lo Stato? “Di rigore si può anche morire”, spiega Squinzi.

Poi c’è un altro eloquente titoletto: “Le confindustrie dei principali paesi europei chiedono politiche ambiziose per rafforzare l’euro”.

Ancora? Ma perché? “Perché l’euro è la nostra valuta e un importante strumento per lo sviluppo del mercato interno europeo”, spiega un sommarietto.

Alquanto apodittico, ne converrete.

Scoraggiato ha concluso la lettura con l’esortazione del presidente della confindustria tedesca, Dieter Hundt, che ha invitato i governi europei a fare i compiti a casa, ridurre il debito pubblico e fare le strabenedette riforme strutturali per rilanciare la competitività.

Parole che abbiamo sentito ripetere più volte da Draghi e dal presidente della Commissione Ue Barroso.

Allora ho capito.

Gli industriali sono vittime del più classico caso di sindrome di Stoccolma. Si sono innamorati del loro sequestratore.

Senonché Stoccolma è fuori dall’euro.

Potremmo chiamarla Sindrome di Bruxelles.