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Le metamorfosi dell’economia: Il valore delle idee

Può risultare curioso osservare, nell’epoca in cui in ogni dove si celebra l’importanza della creatività e dell’innovazione, che esista ancora così poca letteratura dedicata al tema dell’impatto della conoscenza sull’economia contemporanea.

L’Ocse, che è uno dei principali protagonisti di queste ricerche fra gli osservatori internazionali, ha solo da pochi anni attivato un gruppo multidisciplinare di studio che vede al lavoro esperti di diversi settori (Consumer Policy, Digital Economy, Science & Technology, Industry and Entrepreneurship, Tax Policy, and Trade) che hanno dato vita a un progetto denominato “New Sources of Growth: Knowledge-based Capital” che ha avuto un recente aggiornamento maturato mentre esplodeva la crisi e ha sollecitato gli esperti a porsi domande sostanziali.

Prima fra tutte: quali possono essere i nuovi driver della crescita?

Prendendo spunto da alcuni lavori precedenti svolti dalla Fed, gli studi Ocse hanno finito con l’identificare una nuova classe di beni capitali, che quindi aggiornano quelli tradizionali (impianti, terra, immobili, eccetera), che sono stati definiti come “knowledge-based capital” (KBC). Ad esempio il design di un prodotto, un software, la proprietà intellettuale che si esprime in licenze, brevetti e il copyright.

Questi nuovi beni capitali condividono una grande difficoltà: è difficile misurarne il valore. E ciò li rende assai poco potabili per le nostre prassi economiche, basate com’è noto sulla misurazione e sul calcolo, anche e soprattutto a fini impositivi.

Ciò nonostante si tratta di asset “strategici per mantenere e costruire la competitività”. Insomma: l’economia della conoscenza, che si basa sul valore delle idee, viene riconosciuta strategica, ma al contempo difficile da incardinare nel sistema corrente dei valori economici. Le idee, come la fiducia, non hanno prezzo. Eppure hanno un valore notevole. Una delle tante imperfezione del mercato.

In un libro recente, La nuova rivoluzione delle macchine, gli autori Erik Brynjlfsson e Andrew McAfee, fotografano bene questa situazione: “C’è un’enorme fetta dell’economia che non compare nei dati ufficiali e non è riportata nemmeno nelle dichiarazioni dei redditi e nei bilanci di quasi tutte le aziende (..) i dollari analogici stanno diventando centesimi digitali (..) ciò porta a economie assai diverse e a speciali problemi di misurazione (..) quando una persona telefona con Skype il gesto che compie potrà anche non spostare un centesimo di pil, ma non è affatto privo di valore (..) costando zero questi servizi sono praticamente invisibili nelle statistiche ufficiali (..)  il pil si trova a viaggiare in direzione opposta al nostro vero benessere (..) ogni anno viene immesso un maggiore volume di beni digitali che non hanno prezzo (..) le statistiche ufficiali si stanno facendo sfuggire una quota crescente del vero valore creato dalla nostra economia (..) la produzione nella seconda età delle macchine si basa meno sui macchinari e sulle strutture fisiche e più sulle quattro categorie di asset intangibili: proprietà intellettuale, capitale organizzativo, contenuti generati dagli utenti e capitale umano (..) serve un’innovazione anche nei nostri parametri economici (..) non tutto quello che conta può essere conteggiato, e non tutto quello che può essere conteggiato conta”.

Queste riflessioni non sono isolate. Qualche tempo fa alcuni noti economisti, Stiglitz, Sen e Fitoussi, presentarono un report proprio per analizzare l’evoluzione possibile degli indicatori del benessere sociale, capace cioé di comprendere nel computo della ricchezza valori esterni rispetto a quelli proposti dall’ortodossia economica. Ma è evidente che ci sono notevoli difficoltà. Che sono di natura culturale, prima ancora che tecnica.

Fra i KBC classificati da Ocse spiccano in particolare i diritti di proprietà intellettuali (IP), ormai rilevanti per tutti i settori della produzione, dal farmaceutico all’artistico. Pensate alla guerra fra i produttori di telefoni mobili: un singolo telefono può avere alle spalle fino a 3.000 licenze. E la rivoluzione di Internet, che ha terremotato l’ambito di applicazione delle leggi sul copyright, ha fatto il resto.

Perciò l’Ocse, che intanto è entrata nella fase due del suo progetto, ha deciso di elaborare dei tool e delle analisi per facilitare il riconoscimento e la classificazione dell’IP, visto che “adesso più che mai i policy makers devono sfruttare driver come la creatività e le idee contenute nelle proprietà intellettuale per stimolare la crescita economica e favorire il benessere sociale”.

Insomma, l’idea di ricchezza sta conoscendo la sua ennesima e sofferta trasformazione che non dovrebbe lasciare indifferente nessuno. Cambiare la definizione di ricchezza, infatti, significa mutare il paradigma economico, ossia il mondo che siamo abituati a conoscere e cambia anche il significato di distribuzione e disuguaglianza. Vuol dire elaborare politiche che servano a stimolare i KBC e soprattutto ci serve a ricordare ciò che sta alla base della ricchezza. Non la terra, l’oro, né la produzione. Ma la persona.

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L’effimera salute dei fondi pensione

Il 2014 è stato un anno meraviglioso per i fondi pensione, e di conseguenza il futuro sarà sempre più a tinte fosche. La tentazione dell’ossimoro mi sfiora mentre leggo l’ultimo focus dell’Ocse sul mercato dei fondi pensione, ma poi capisco che la contraddizione apparente fra un presente roseo e un futuro spaventoso non appartiene alla mia fantasia, ma alla logica stessa della contemporaneità, che colleziona rialzi di borsa e crescenti timori di aggiustamenti vieppiù dolorosi di là da venire. Proprio ciò che nel 2014 ha nutrito i rendimenti dei fondi, e per il sesto anno consecutivo, rischia domani di gettarli sul lastrico di una correzione disordinata, e con loro anche tutti quelli che hanno affidato la speranza di vecchiaia a queste entità, che ormai gestiscono asset, per il totale dei paesi Ocse, per 25 trilioni di dollari.

La parola magica che minaccia la salute di questi colossi della finanza è il “search for yeld”: la fame di rendimento. Il bisogno di far quadrare i conti, in un ambiente dove gli asset più sicuri spuntano rendimenti negativi, costringe i gestori a spingere sul pedale del rischio e perciò l’Ocse non si perita di ricordare che tale attitudine può, in un futuro più o meno lontano “mettere a rischio la solvency dei fondi pensione”. Che poi significa terremotare le rendite dei futuri pensionati che a tali entità hanno affidato la sicurezza della loro vecchiaia.

Per dare l’idea dell’importanza sistemica che ormai queste entità hanno raggiunto bastano poche cifre. Gli asset gestiti, cresciuti dell’8,1% dal 2008, ormai quotano per i paesi OCSE l’84,4% del Pil complessivo, mentre in altri paesi selezionati fuori dall’area il 36,4%, e con i loro 25,2 trilioni di valore rappresentano il 66,8% del totale degli asset per pensioni private. Il resto viene gestito da banche o fondi di investimento, oppure da assicurazioni.

I grafici mostrano che tuttavia il peso specifico dei fondi pensioni è molto diverso fra i singoli paesi. In Olanda i loro asset valgono quasi il 160% del Pil, in Francia appena lo 0,5%. In Italia siamo nell’ordine del 6,7%. Quindi i rischi che ne derivano sono assai disegualmente distribuiti, se non si tiene conto dell’effetto sistemico che comunque queste entità sono in grado di determinare. Negli Stati Uniti, ad esempio, valgono l’83% del Pil, quindi una roba all’incirca da dieci trilioni che vaga per il mondo in cerca di rendimento.

Il ritorno degli investimenti nel 2014 è stato assai diverso, ma comunque positivo per tutti i paesi OCSE, con una forbice compresa fra l’1,2% della Repubblica Ceca al 16,7% della Danimarca. In media nell’area il rendimento è stato del 5%. Fuori dall’OCSE la media è stata dell’1,2%. Nei passati dieci anni, tali rendimenti sono stati positivi in gran parte dei paesi considerati. Al contrario, in alcuni paesi come la Russia, i rendimenti del 2014 sono stati negativi del 7,4%. Ma anche a Hong Kong, con il -3,2%.

Quanto alla composizione dei loro portafogli, il 23,8% è investito in azioni, il 51,3% in titoli obbligazionari e il 9,6% in liquidità e depositi. Questi investimenti tradizionali totalizzano l’84,7% del totale. Il resto quindi è stato investito in strumenti esotici. I paesi non Ocse esaminati, da questo punto di vista, sono più prudenti: gli investimenti tradizionali quotano l’89,6% del totale degli asset.

Di fronte a questi numeri si comprende perché l’OCSE sia parecchio allarmata. “Di fronte a un ambiente di tassi bassi prolungati, i fondi pensioni possono essere spinti a una crescente ricerca di rendimento”, spiega la nota. E questo passaggio può avvenire in tanti modi. Ad esempio spostando fondi dall’obbligazionario all’azionario oppure spostandosi da strumenti tradizionali a quelli esotici, o ancora aumentando la quota di investimenti sull’estero, magari verso paesi che esibiscono rendimenti più attrattivi. E’ stato osservato, ad esempio, che molti fondi di grandi paesi hanno focalizzato investimenti nel private equity brasiliano, oppure su terre e mattone in Canada o prodotti derivati del Regno Unito.

Un’altra cosa utile da osservare è come si siano comportati i loro asset dal 2004 a oggi. Un altro grafico mostra che la crescita del totale degli asset è stata quasi sempre positiva dal 2004 a oggi. Nel 2008, tuttavia i fondi segnarono un calo del 19,4%, peraltro ampiamente recuperato nel prosieguo della crisi. Quando ci fu il crash, insomma, i fondi patirono quanto e più degli altri il terremoto salvo riprendersi.

Ciò dà corpo ai timore OCSE sul comportamento di queste entità. Tanto più oggi, che i tassi sono praticamente negativi e loro devono comunque cumulare ricchezza per soddisfare in futuro i loro sottoscrittori. Specie quelli che hanno piani pensionistici a prestazione definita. Un problema che non riguarda solo i fondi pensione, ovviamente, ma anche le assicurazioni.

L’analisi OCSE ha rilevato che questa ricerca di rendimento si è notata in alcuni paesi che, guarda caso, sono quelli dove i fondi pensione sono fra i più sviluppati. In particolare Brasile, Canada, Regno Unito e Usa. Costoro hanno mostrato la tendenza a spostare i loro investimenti dai tradizionali bond verso investimenti alternativi capaci di maggiore remunerazione e perciò più rischiosi. Ma non sono i soli (vedi grafico). I fondi pensione portoghesi sono quelli che più degli altri si sono rivolti agli investimenti esotici per spuntare qualche decimale di più.

Insomma: per garantire i rendimenti promessi ai sottoscrittori i fondi pensione stanno sempre più giocando il pericoloso gioco della finanza, contribuendo sostanzialmente alla sua instabilità. Che questa roulette sia alimentata con i soldi dei lavoratori, che poi sono quelli chiamati a pagare oggi il prezzo dell’austerità e domani quello di questa instabilità, è solo uno squisito paradosso che deriva dall’aver assimilato la previdenza alla speculazione, quando dovrebbe essere il suo contrario.

Di fronte a questa situazione i celebrati rendimenti di fondi sembrano poco più che una consolazione.

Peraltro effimera.

Le metamorfosi dell’economia: la nuova ricchezza

Ricordo come un sogno allucinato il tempo della new economy dei primi 2000, quando pletore di prezzolati vollero convincere il mondo che si era all’alba di un’era dove la rivoluzione tecnologica avrebbe reso del tutto superflui concetti antichi come quello secondo il quale un investimento debba generare un reddito per essere ripagato. Già da allora malato d’economia, seguivo col fiatone le scorrerie plurimilionarie di sedicenti aziende che venivano scoperte, quotate, arricchite e poi svuotate allorquando i finanziatori si ricordavano che non basta una buona stampa per avere successo negli affari. Servono i flussi di cassa, e di quelli solo pochissimi ne videro e comunque largamente insufficienti a soddisfare le aspettative degli investitori.

Poi il mondo scoprì che era tutta una bolla, modo educato per non dire che era una truffa, e che la new economy somigliava alla passione per i tulipani dell’Olanda del XVII secolo: una follia. E per uno che ci ha guadagnato – conosco un tale che è riuscito a comprarsi casa con la plusvalenza realizzata in una settimana mettendo tutti i suoi soldi su non so quale e-company che si andava quotando – milioni ci hanno perso, e ancora piangono.

Sicché capirete con quanta prudenza oggi possiamo usare il termine Nuova economia, che peraltro evoca legioni di fantasmi che attraversano tutto il Novecento. Anzi, non possiamo usarlo. Se lo usassimo evocheremmo, ultima della lista, la straordinaria ubriacatura di quindici anni fa e il senso del discorso ne uscirebbe falsato. Tanto più che non ci serve una nuova economia. Quel che ci occorre è una metamorfosi della vecchia, che ampli le nostra vedute fino a includere ciò che è evidente eppure rimane inosservato. La metamorfosi dell’economia, come ho detto altrove, passa per una sostanziale rielaborazione dei significati delle parole dell’economia non da un loro diversa modalità applicativa.

La prima parola che dobbiamo rielaborare è ricchezza. E non è certo un caso se inizio da questa. Adam Smith, che la vulgata accredita come l’iniziatore accademico della teoria economica, scrisse il suo capolavoro nel 1776 e si intitolava proprio La ricchezza delle nazioni. Perché già da allora – ma in realtà assai da prima – era questo lo scopo dichiarato della ricerca economia: l’accumulazione della ricchezza. Che Smith la riferisse alle nazioni era un lascito culturale dei primi economisti, ad esempio i mercantilisti, che cercavano metodi per rendere potenti le nazioni dove vivevano, potendo così quest’ultime proteggere i traffici dei mercanti con la spada dell’esercito. Ma, mutatis mutandis, la ricchezza delle nazioni non era poi così diversa da quella cui potevano aspirare gli individui. Bastava seguire le stesse regole.

Prima di Smith, e basta ricordare l’opera di Thomas Mun, mercante inglese del XVII secolo divenuto poi autore di un libro ormai dimenticato (England’s Treasure by Foreign Trade), la ricchezza di una nazione si diceva dipendesse essenzialmente dalla quantità di metallo prezioso, oro ma soprattutto argento, che un paese riusciva a cumulare grazie al commercio estero. Il denaro per questi primi economisti, come ha spiegato egregiamente Sombart nel suo Il Capitalismo moderno, era una sorta di materia prima capace di alimentare la fornace della produzione. Un driver, diremmo oggi. Ricchezza in atto e produzione in potenza, direbbe un aspirante filosofo.

La mania per i metalli preziosi crebbe notevolmente una volta che questi cominciarono ad affluire copiosi dal nuovo mondo, determinando una notevole crescita dei prezzi, di cui per primo diede spiegazione Jean Bodin nel celebre (quanto poco letto) libro La risposta ai paradossi di Malestroit. Prima di allora la ricchezza era collegata a quella che Verga chiamerà “la roba”: terre, animali, uomini. I ricchi erano innanzitutto possidenti, e per lo più aristocratici. Neanche la rivoluzione mercantile e bancaria dell’Italia del basso medioevo aveva cambiato questa consuetudine. Bisognerà arrivare alla formazione degli stati nazionali perché la teoria mercantilista allarghi la concezione della ricchezza collegandola esplicitamente al metallo prezioso, nel senso che abbiamo visto.

Con Smith l’economia conosce una nuova e determinante evoluzione che dura sostanzialmente fino ai nostri giorni. La ricchezza di una nazione, spiegò Smith, dipendeva essenzialmente dalla sua produzione, derivandosi da essa i redditi della collettività secondo l’equazione che farà più tardi Say con la sua celebre e mai passata di moda legge degli sbocchi. “Il reddito annuale di ogni società  – scrive Smith – è sempre esattamente uguale al valore di scambio di tutto il prodotto annuale della sua industria, o meglio si identifica esattamente con il suo valore di scambio. Perciò (..) indirizzare questa industria in modo che il suo prodotto possa avere il massimo valore (..) contribuisce a massimizzare il reddito annuale della società”. E quindi la ricchezza, che perciò dipende principalmente dalla produzione industriale.

Oppure quest’altro passo, preso sempre dal libro di Smith: “E’ la grande moltiplicazione delle produzioni di tutte le differenti arti, in conseguenza della divisione del lavoro, a dar luogo in una società ben governata a quell’universale opulenza che si estende fino alle classi sociali più basse”. Qui troviamo già cenno del principio del lavoro come fonte del valore, anch’esso ereditato dalla tradizione mercantilista, e quindi della ricchezza, ma in quanto capace di trasformare qualcosa in un prodotto. Ossia ciò che è vera ricchezza.

Smith d’altronde scriveva agli albori della rivoluzione industriale e quindi la sua riflessione non poteva che risentirne, essendo il discorso economico null’altro che una rappresentazione dello spirito del tempo.

Il mito della produzione come fonte della ricchezza, però, dura tuttora, ma solo nella rappresentazione stilizzata della realtà: quella delle statistiche e dal dibattito sociale più o meno sensato.

Al contempo però, in consessi più esclusivi, sta crescendo la consapevolezza che l’origine della ricchezza si stia localizzando altrove. L’eredità della vecchia new economy, a parte i debiti che ha lasciato sul suo cammino, consiste sostanzialmente nell’aver diffuso la comprensione che le nuove tecnologie hanno spostato la capacità di creare ricchezza dalla fabbrica dei beni a quella delle idee.

Oggi la fonte della nuova ricchezza è rappresentata da beni immateriali, come i brevetti, le licenze, il copyright. E il fatto che l’Ocse nell’agosto scorso abbia aggiornato un documento saliente in tal senso (Enquiries into intellectuale property’s economy impact) mostra che tale consapevolezza sia ormai matura per traslocare pienamente nel pensiero economico applicato, pur se con tutte le difficoltà che la nostra consuetudine deve affrontare per assimilarle.

Ciò non può che avere conseguenze determinanti, sia sul versante fiscale che su quello occupazionale.

Ma questa è una storia ancora tutta da raccontare.

(2/segue)

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L’economia ai tempi dello “Zero lower bound”: la rivincita di Gesell

Sicché a un certo punto, mentre leggo l’intervento di James McAndrews, banchiere della Fed di New York (“Negative nominal central bank policy rates – where is the lower bound?”), dalla panoplia di studiosi citati dal banchiere americano spunta fuori un personaggio poco noto alle cronache e ormai pressoché dimenticato dalla storia dell’economia: Silvius Gesell.

Mi sembra una raffinata beffa del destino, come sempre molto fantasioso, ritrovare Gesell in una dissertazione molto tecnica e persino un po’ noiosa sulla vita economica ai tempi dello Zero lower bound. Se non altro perché, e lo sa bene chi ha frequentato i testi eterodossi del pensiero economico, Gesell è uno di quei tizi che una certa vulgata definisce frettolosamente eretico, trascurando magari di ricordare come nel suo Trattato della Moneta Keynes abbia dedicato un lungo approfondimento al pensiero del mercante svizzero-argentino, poi divenuto economista per passione, salvo poi definirlo ironicamente un mattoide.

Eppure chi ha frequentato i libri di Gesell, anche per sentito dire, riconosce il suo denaro a scadenza nell’impianto keynesiano.

Pensate all’idea della trappola della liquidità, laddove Keynes esattamente come Gesell riconosce nel poter essere tesaurizzato pressoché senza costi, l’handicap del denaro. Oppure nella preconizzata eutanasia del rentier, laddove Keynes auspicava che le condizioni economiche evolvessero di guisa che non fosse più possibile mantenere una classe di redditieri, vuoi per le evoluzioni economiche, vuoi (forse quello più auspicate dall’economista inglese) per quelle spirituali. In uno dei suoi saggi Keynes scrisse che un giorno forse avremmo capito che il denaro serve a godersi la vita, non ad essere tesaurizzato senza senso alcuno che non sia patologico.

Gesell, dunque, e la sua vita, controversa e border line, debitore riconosciuto del pensiero di un altro controverso personaggio come Rudolf Steiner, che all’economia dedicò alcune conferenze nelle quali venne sviluppata una teoria monetaria il cui perno era proprio l’idea che il denaro dovesse lentamente decumularsi per assolvere alla sua funzione di regolatore degli scambi. Pensiero che rifiuta radicalmente la concezione classica del denaro come merce che risale a Locke e al periodo dello standard aureo, che sempre Keynes definirà un residuo barbarico.

“O felice moneta, che fornisce al genere umano un’ottima bevanda e mantiene i suoi possessori immuni dall’infernale vizio dell’avarizia, poiché non si può seppellire, né conservare per lungo tempo!” , dice Pietro Martire d’Anghiera discorrendo del cacao come moneta da parte degli Aztechi, nel suo De orbe novo del 1530.

Se il nostri soldi fossero di cioccolata sarebbe più piacevole “mangiarseli”, ossia consumarli. Se poi fosse cioccolata che si scioglie se la si tiene chiusa nei forzieri ancor di più.

Tutto questo parrà a molti insensato e astratto, libresco, per così dire. Ma vedete, l’economia ai tempi dello Zero lower bound riserva di queste sorprese. Perché ai giorni nostri, come ha scritto di recente Ocse, “il rovescio della medaglia della ricchezza è il debito”, e poiché non vogliamo cessare d’essere ricchi, dobbiamo attrezzare l’economia affinché tali debiti siano sostenibili, ossia credibili, per un periodo di tempo infinito, trattandosi di debiti eterni come la nostra sete di ricchezza, d’altronde.

Ed ecco allora lo Zero Lower bound, la migliore (per ora) approssimazione possibile dell’idea che il denaro tenuto fermo perda valore. Pensate ai depositi delle banche commerciali presso le banche centrali: ormai da mesi la Bce ha fissato un tasso negativo. Quindi il denaro che tengono fermo lì produce costi.

Ed ecco perché il nostro McAndrews cita Gesell, incredibilmente riesumato dalla polvere dei libri dimenticati  e troppo stravaganti per essere presi sul serio. Però vedete, spesso i mattoidi, per dirla con le parole di Keynes, sono quelli che poi segnano il percorso della storia.

Infatti il nostro banchiere nota che Gesell, e altri come lui, hanno spesso suggerito soluzioni estreme come l’eliminazione della moneta, o la sua tassazione. “Questi – spiega – sono tutti altri modi di imporre tassi nominali negativi sui mezzi di pagamento che le persone usano”.

Gratta gratta, sotto l’idea dei tassi negativi trovi Gesell, Steiner e tutte le stravaganze di una certa economia che nessun economista per bene si sognerebbe di invitare a un pranzo accademico.

Ed è nel tracimare del pensiero lungo i percorsi accidentati di ciò che è incerto, che l’economia ai tempi dello Zero lower bound incontra la sua seconda peculiarità.

Ma la terza è quella più importante.

(2/segue)

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La metamorfosi del lavoro che fa aumentare la disuguaglianza

Nel gran dibattere sulla disuguaglianza cui di recente ha contribuito l’Ocse con il suo ultimo rapporto “In It Together: Why Less Inequality Benefits All” si tende a trascurare un elemento. Ossia che non è, o almeno non più, solo una questione fra ricchi e poveri.

L’aumentata disuguaglianza, infatti, non è solo questione di reddito, pure se il reddito e la ricchezza sono gli elementi distintivi di questo tipo di conteggi. Ormai a fare la differenza, e di conseguenza il reddito, sono l’età e le condizioni di lavoro.

Le autentiche novità che il rapporto fotografa con chiarezza sono essenzialmente due: dagli anni ’80 a oggi è cambiato il modo di lavorare, con la conseguenza che i lavori atipici hanno rappresentato oltre la metà dei nuovi posti di lavoro creati dalla seconda metà dei ’90, e che ciò che una volta era la categoria svantaggiata, ossia gli anziani, oggi hanno ceduto il posto ai giovani: sono loro quelli che oggi subiscono gli effetti deleteri dell’aumentata disuguaglianza.

E ciò solleva un inquietante interrogativo sul loro futuro. Che anziani saranno domani i giovani di oggi?

Che la metamorfosi del lavoro abbia contribuito a questa evoluzione l’Ocse non sembra dubitarne.

Ciò che stupisce, ma forse non dovrebbe, è la magnitudo delle conseguenze che l’oscillazione del pendolo dal lavoro al capitale, per usare una vecchia terminologia, ha determinato sul tessuto sociale.

I dati aggregati testimoniano di questa evoluzione meglio di ogni ragionamento. In molti paesi il gap fra ricchi e poveri è al suo livello più alto degli ultimi 30 anni. Nei paesi Ocse il 10% più ricco della popolazione guadagna in media 9,6 quello che guadagna il 10% più povero, quando nel 1980 non arriva a guadagnare sette volte.

Da lì in poi c’è stato un costante peggioramento. Il rapporto sale a 8 volte nel 1990, a nove nel 2000 per arrivare al 9,6 dei nostri giorni. E come correttamente nota Ocse, più che concentrarci su quanto siano diventati più ricchi i ricchi, è interessante notare quanto siano diventati più poveri i poveri, non soltanto quel 10% più povero, ma il 40%, dentro il quale ci stanno moltissimi che prima non c’erano. E che adesso vedono ampliarsi il solco fra loro e il resto della popolazione.

Il rapporto esordisce notando come ormai i lavori temporanei, parti time o self-employed pesino circa un terzo del totale dei posti di lavoro nei paesi dell’area, sottolineando come “più della metà di tutti i posti di lavoro creati dalla metà degli anni ’90” sono di questo tipo (cd non standard). Con l’aggravante che i giovani, che in gran parte vengono impiegati con tali modalità, sono quelli che hanno “una probabilità più bassa di spostarsi lungo un percorso di carriera più stabile”.

I più penalizzati da quest’andazzo sono i lavoratori poco qualificati (low skilled) che registrano maggiori tassi di povertà (+22%), e questo è stato uno dei driver dell’aumento dell’ineguaglianza. Forse il principale. E poi l’aumentata partecipazione delle donne al lavoro, che porta con sé anche la spiacevole caratteristica di retribuzioni parecchio più basse di quelle maschili.

Il combinato disposto ha fatto salire di un punto l’indice di Gini medio dell’area, che è un indicatore che misura la diseguaglianza in un range da 0, massima uguaglianza, a 1, massima diseguaglianza.

Se questo è il quadro, è interessante vedere cosa sia successo nel nostro Paese, che certo non sfugge alla tendenza generale e anzi, per certi versi, la esaspera.

Dal 1980 al 2013 infatti l’indice di Gini nel nostro Paese è cresciuto parecchio. Da circa 0,30 siamo arrivati a 0,313 nel 2007 e nel 2013 viaggiavamo intorno a 0,327, che vuol dire un peggioramento del 9%. Nel 2013 il 10% più ricco deteneva una quota del 24,7 del reddito nazionale a fronte del 2,2% del 10% più povero, quindi dieci volte tanto, ma è sui valori mediani che spicca la differenza. il 40% più povero, infatti,  ha una quota del 19,7% del reddito nazionale a fronte del 62,8% del 40% più ricco, mentre il 20% più ricco arriva al 39,7%.

Se guardiamo ai tassi di povertà, osserviamo che quello dei giovani (18-25 anni) è del 14,7%, quello dei “maturi” (26-65 anni) del 12,1, mentre quello degli over 65 del 9,3%. Un dato che non dovrebbe sorprendere, solo che si ricordi l‘andamento del reddito equivalente in Italia nell’ultimo ventennio.

Il succo è che ci sono più poveri fra i giovani che fra gli anziani, e anche questa è una curiosa evoluzione del tessuto sociale, come la stessa Ocse rileva.

Se poi guardiamo alla quantità di lavori atipici creati in Italia, notiamo la straordinaria crescita fra il 1995 e il 2007, rispetto a quelli normali cui ha fatto seguito, nel periodo 2007-2013 una robusta perdita di lavoro normali e un minimo guadagno di quelli atipici.

Tutto ciò è più che sufficiente a spiegare perché sia aumentata la diseguaglianza.

Meno a capire chi subirà i danni che ciò può provocare e sui quali l’Ocse disserta a lungo.

Ma non servono tante parole per capirlo. Ne bastano due.

Il futuro.

Delusioni da QE: lo zero virgola italiano

Occuparsi del caso italiano, nella disamina degli effetti reali svolti dal QE (quantitative easing) sulle economie che ne hanno fatto uso, è parecchio istruttivo per la semplice constatazione che l’Italia è, fra i paesi europei, quella che è cresciuta di meno nell’ultimo ventennio e quella che ha patito di più dopo l’appalesarsi della crisi.

Come dire: se il QE funzionerà da noi, figuratevi che faville farà nel resto dell’Eurozona.

Purtroppo, non disponendo di una palla di vetro, devo accontentarmi delle previsioni, notoriamente imperfette, che diversi entità, a cominciare dalla Banca d’Italia, hanno elaborato per provare a quotare l’impatto che le politiche monetaria potranno avere sul nostro Pil.

Senonché, mentre mi decido a scrivere questo post, mi arrivano fresche fresche da Bruxelles le previsioni di primavera della Commissione, che con toni decisamente ottimisti, mi informano che la ripresa prende forza, e che addirittura per il 2015 per l’Italia si prevede un clamoroso +0,6, lo stesso che prevede l’Ocse, che non è ancora il +0,7 previsto dal governo nel DEF, ma è già più dello +0,5% ipotizzato da Bankitalia nell’ultimo bollettino economico, già rivisto al rialzo rispetto al +0,4 del penultimo bollettino.

L’Italia dello zero virgola, con differenze nelle previsioni che ricordano l’errore statistico mi appassiona parecchio. Specie quando leggo un po’ dappertutto che gran parte di questo progresso lo dobbiamo a Mario Draghi e al suo più che benvenuto QE.

Mi appassiona talmente, l’Italia dello zero virgola, che mi torna in mente la corposa audizione della Corte dei conti al DEF di poche settimane fa, e in particolare un agile paragrafo intitolato “Gli effetti sull’economia italiana del Quantitative Easing: opportunità e rischi”.

Alcuni ricorderanno che anche la Banca d’Italia ne ha preparato uno simile, nell’ultimo bollettino economico, a significare il gran dispendio di cervelli che il QE intanto ha provocato.

Dopo aver riepilogato qualità e quantità del QE, che qui vi risparmio, la Corte ha utilizzato il modello DSGE-Prometeia per stimare l’impatto macroeconomico dei 150 miliardi di euro di acquisiti di titoli di stato, pari al 9% del Pil, operati in gran parte dalla Banca d’Italia (130 miliardi su 20), che lo ricordo è un’entità pubblica, su una serie di variabile macro, fra le quali appunto il Pil, e ne ha ricavato una tabella.

La Corte ricorda che 79 miliardi di titoli verranno acquistati nel corso del 2015 e il resto nel 2016.

Giova sottolineare che come tutti i modelli, anche questo va preso con le pinze, anche se “il confronto con
analoghi esercizi effettuati per valutare gli effetti dei QE implementati negli US, in UK e in Giappone conforta sulla dimensione di tali effetti”.

Insomma, le previsioni sembrano ragionevoli.

I risultati, nell’arco del biennio, sono i seguenti: il rendimento dei titoli a lunga scadenza dovrebbe diminuire di 109 punti base, il tasso sugli impieghi delle imprese di 40 punti base. I prestiti alle imprese dovrebbero aumentare dello 0,57%, i consumi dello 0,14%, gli investimenti del 5,02.

Ricordo che dal 2007 gli investimenti italiani sono diminuiti del 30% (vedi grafico).

E il Pil?

Il Pil dovrebbe aumentare ulteriormente dello 0,69% rispetto alle previsioni. In due anni.

Un altro zero virgola per la nostra collezione.

(4/fine)

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Esercizi di retorica sul DEF: l’invenzione del deficit strutturale

Compulsare i vari documenti che le istituzioni stanno producendo per partecipare al grande rito collettivo del DEF è altamente istruttivo. L’evento economico assume un significato sociale che finalmente trascende la sua miseria contabile per assurgere alla dimensione di ciò che è autenticamente il Documento di economia e finanza: un pregevole esercizio retorico che si nutre di congetture economiche al solo fine di sostanziare un’azione politica di governo.

Che ciò sia il DEF, pochi dovrebbero dubitarne.

Stupefacente invece è la constatazione, che ho tratto leggendo le opinioni sul Def dell’Istat, della Banca d’Italia e della Corte dei Conti, di quanto profondo sia tale congetturare.

E, peggio ancora, che tali congetture non si limitino alle stime sul dati del futuro, come pure sarebbe lecito pensare, ma siano inerenti al dato stesso, ossia alla sua costruzione statistica.

Di cosa parliamo, insomma, quando ci riempiamo la bocca e la testa di deficit, indenitamento netto, o, peggio ancora, indebitamento strutturale?

Tecnicamente parliamo di convenzioni statistiche. Non dati oggettivi, quindi, come uno potrebbe pensare, ma costruzioni numeriche discutibili.

In alcuni casi molto discutibili.

Relativamente ai casi nostri, la vicenda del DEF ha un portato di politica, interna e internazionale, che è saggio non sottovalutare. Il governo infatti, nella persona del ministro dell’Economia, ha impugnato la penna e scritto una bella letterina a mamma Commissione Ue per chiedere di poter derogare di un anno il pareggio strutturale di bilancio, che era previsto per il 2015 e invece si propone per il 2016.

Nel 2015, infatti, il deficit strutturale sarà allo 0,1%, e non a zero come aveva assicurato il governo Letta a settembre scorso a fronte di una variazione strutturale in aggiustamento pari allo 0,5% del Pil. Tale deroga dovrà essere approvata dal nostro Parlamento e poi dalle autorità europee.

Tutto questo per un decimo di punto? E che sarà mai?

E invece pesa, perché l’Italia ha un Obiettivo di Medio Termine (OMT) concordato con la Commissione europea che prevedeva, fra le altre cose l’azzeramento del deficit strutturale entro il 2015.

A questo punto le varie tifoserie si saranno scatenate. Solo pochi ficcanaso si sono posti la domanda: ma il deficit strutturale cos’é?

Gli appassionati del genere sanno che il deficit strutturale corrisponde al deficit netto corretto per gli effetti del ciclo economico e delle misure straordinarie. Per dirlo con le parole della Corte dei conti, tratte dall’audizione sul DEF, “l’intento è quello di isolare le variazioni del saldo di bilancio che sono indotte automaticamente dalle oscillazioni del ciclo economico e che, quindi, non possono essere attribuite all’azione discrezionale dei governi”.

In sostanza, il deficit strutturale è un indice della scelleratezza fiscale governativa. E ciò spiega bene perché a Bruxelles ci tengano in tal modo. Tanto più è alto, tanto più il governo non fa il suo dovere: questo è il senso.

Definito l’oggetto, rimane ancora senza risposta la vera domanda: come si calcola una roba del genere?

Deve esser chiaro che rispondere a questa domanda significa credere che sia possibile una risposta sensata. Che nel gergo economico significa una risposta oggettiva e misurabile oggettivamente.

Purtroppo così non è: il calcolo del deficit strutturale è l’ennesimo esercizio di retorica tramite il quale una decisione politica viene camuffata da dato economico che, di conseguenza, genera un’azione politica conseguente.

Penserete che sto esagerando. Ma non dovete ascoltare me, che non so niente. Ascoltate la Corte dei Conti: “La logica sottostante l’adozione di obiettivi di indebitamento strutturale, tesa a sanzionare l’eventuale utilizzo di misure pro-cicliche, si scontra però con un problema di fondo: la non osservabilità dell’indebitamento strutturale”.

Detto in altre parole, non essendo osservabile non dovrebbe esistere.

Perciò si inventa.

“All’inconveniente (la non osservabilità, ndr) si sopperisce mediante l’utilizzo di particolari tecniche statistiche finalizzate a distinguere, all’interno della serie storica del saldo di bilancio, la componente ciclica da quella strutturale”, spiega la Corte, sottolineando però che “queste tecniche possono tuttavia condurre a risultati non univoci e anche fortemente divergenti fra loro a causa dell’ampio ventaglio di ipotesi preliminari che può essere assunto”.

Quindi non solo l’indebitamento strutturale, che decide il nostro futuro, non esiste, ma la sua invenzione sottostà a regole inventate sulle quali non c’è nemmeno concordia, e che potrebbero dare risultati molto diversi fra loro.

La Corte si spinge in avanti e illustra proprio il caso italiano. Da noi “le misurazioni proposte dalla Commissione europea, che individuano la persistenza nel 2014 e l’ampliamento nel 2015 del deficit strutturale, solleciterebbero il Governo all’adozione di misure correttive, laddove un calcolo alternativo del saldo strutturale su dati OCSE indicherebbe, per lo stesso periodo, una situazione di avanzo”.

Avete capito bene: per la Commissione abbiamo un disavanzo strutturale, che dipende dalla loro classificazione statistica dei dati. Se invece usassimo la classificazione Ocse saremmo in avanzo strutturale.

Tale differenza non pensa neanche poco. Nel grafico contenuto nel suo parere, la Corte mostra che nella misurazione svolta dalla Commissione Ue l’Italia ha un deficit strutturale dello 0,6% sul Pil, circa 9 miliardi, che rimane costante nel 2014, per arrivare allo 0,9%, oltre dieci miliardi, nel 2015. Se invece si utilizzasse la rappresentazione statistica dell’Ocse, l’italia sarebbe stata in avanzo strutturale dello 0,3% del Pil nel 2013, circa 4,5 miliardi, altrettanto nel 2014, e dello 0,1% nel 2015.

Considerate che sulla base dei disavanzi strutturali si misura la qualità dell’azione di un governo in sede europea, ma anche la sua credibilità sul mercato del debito.

E non finisce qua: “Anche rimanendo all’interno di un stessa fonte statistica, la misurazione del saldo strutturale è soggetta a continue modifiche, con differenze che
diventano molto consistenti proprio in occasione dei momenti di inversione del ciclo economico”.

Insomma: il nostro futuro dipende da un dato che non esiste, inventato alla bisogna, sul quale non c’è neanche identità di vedute nella cosiddetta letteratura scientifica e che peraltro si comporta in modo incontrollabile nei momenti in cui dovrebbe essere più stabile.

Ma il peggio sta alla fine: “E’ stato infine rilevato come, all’interno della metodologia della Commissione UE, agli attuali valori di indebitamento strutturale corrispondano livelli di
disoccupazione di equilibrio nell’ordine dell’11 per cento, evidentemente inconciliabili con qualsiasi obiettivo di piena occupazione. Sarebbe dunque lo stesso modello statistico
utilizzato per guidare le politiche di bilancio europee a imporre un severo trade-off fra crescita e stabilità delle finanze pubbliche”.

Quale migliore esemplificazione dell’esercizio retorico praticato col linguaggio dell’economia?

La decisione, questa sì politica, impone il “severo trade off fra crescita e stabilità delle finanze pubbliche”. Ciò ha originato un modello statistico che teorizza deficit strutturali, con corrispondente tassi di disoccupazione d’equilibrio, che altri modelli vedono come surplus, sulla base dei quali si impongono politiche restrittive: “aggiustamenti continui”, come dice la Corte.

E gli stati (noi) devono pure pietire una deroga.

Se questo è il gioco, chi voglia salvare la pelle ha solo una chance: deve usare la retorica meglio degli altri.

Deve spararle più grosse.

(2/segue)

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Si prepara la rivolta delle pantere grigie

La resa dei conti non sarà oggi e neanche domani.

Ma dopodomani sì. Eccome.

Solo che sulle barricate non saliranno, come nella migliore tradizione, torme di giovani arrabbiati, ma arrabbiatissimi anziani, alle prese con condizioni di vita difficili, per non dire misere, frutto di un trentennio abbondante di politiche dissennate e poco lungimiranti, sia sul versante del lavoro che su quello della previdenza.

Fuor di metafora, la questione di come far sopravvivere un esercito di anziani da qui a trent’anni, ossia i giovani di oggi, è uno dei problemi più evidenziati nell’ultimo Pension at glance dell’Ocse, pubblicato pochi giorni fa.

La questione riguarda tutti i paesi avanzati che, pur con le dovute differenze relativa ai diversi sistemi pensionistici, dovranno fare i conti con un invecchiamento “storico” della popolazione, da un parte, che richiederà di destinare agli anziani risorse crescenti sotto forma di welfare (pensioni e sanità in testa) e una carenza endemica di tali risorse, che la crisi del nostro tempo ha aggravato.

Il problema demografico e quello finanziario, in pratica, si intrecciano in una situazione inusitata e potenzialmente esplosiva.

Gli anziani, in teoria, dovranno lavorare sempre di più per tenere in ordine della previdenza, ma non affatto detto che questo basti.

Entro il 2050 l’età media Ocse di pensionamento sarà almeno 67 anni, ma non è affatto detto che le regole previdenziali si accordino con quelle del mercato del lavoro che verrà. Innanzitutto perché prolungare l’età pensionabile ha un effetto diretto sulla possibilità dei giovani di trovare lavoro. Poi perché non basta dire che bisogna lavorare fino a 70 anni perché effettivamente si trovi lavoro fino a quell’età.

A ciò si aggiunga, come scrive che l’Ocse, che “le riforme delle pensioni attuate nel corso degli ultimi due decenni hanno diminuito le promesse di prestazioni pensionistiche per i lavoratori che entrano oggi nel mercato del lavoro”. Con la conseguenza che oggi “il rischio povertà è più alto per i giovani”, visto che, al contrario, per gli anziani di oggi”la riduzione della povertà in età avanzata è stato uno dei maggiori successi delle politiche sociali”.

Insomma, gli anziani di oggi se la passano benino. Il loro tasso medio di povertà è diminuito dal 15,1% del 2007 al 12,8% del 2010 e “il reddito delle persone anziane oltre i 65 anni raggiunge in media l’86% del livello medio di reddito disponibile nel’insieme della popolazione”.

Al contrario, gli anziani di domani dovranno fare i conti, oltre che con il calo generalizzato delle rendite provocato dalle riforme pensionistiche (tutti e 34 i paesi Ocse hanno riformato le loro pensioni negli ultimi anni), con gli alti tassi di disoccupazione odierni e l’alto tasso di precarizzazione, che non offrono nessuna garanzia di riuscire a cumulare un montante contributivo sufficiente ad avere una pensione. E “non sarà sufficiente innalzare l’età di pensionamento per garantire che le persone rimangano effettivamente nel mercato del lavoro”.

I giovani di oggi, quindi gli anziani di domani, si troveranno di fronte a pensioni basse o addirittura inesistenti. “I disoccupati – scrive l’Ocse – le persone ammalate e i disabili rischiano di non potere maturare adeguati diritti alla pensione”.

Altre importanti differenza distinguono gli anziani di oggi da quelli di dopodomani, spiega l’Ocse: il patrimonio, immobiliare o finanziario, di cui possono disporre.

“L’alloggio di proprietà e il patrimonio finanziario integrano le prestazioni finanziarie pubbliche. Nei paesi Ocse, in media, oltre il 75% degli ultracinquantacinquenni sono proprietari di un’abitazione (l’80% in italia), che può rappresentare un notevole contributo al tenore di vita dei pensionati. L’impatto del patrimonio sulla povertà delle persone anziane è limitato poiché il patrimonio finanziario è molto concentrato nella fascia superiore della scala dei redditi”.

Questo in generale, ovviamente, sempre tenendo conto delle differenze fra i diversi paesi.

Rimane il fatto che mentre gli anziani di oggi potranno contare sul salvagente di questo patrimonio, quelli di domani rischiano seriamente di esserne del tutto privi. Chi, oggi, riesce a mettere da parte tanto quanto basta per comprare una casa e addirittura tesaurizzare dei risparmi?

Pure tenendo conto dell’effetto-eredità, ossia della circostanza che molti giovani di oggi entreranno in possesso dei patrimoni dei loro genitori, è chiaro a tutti che non basteranno i lasciti, in mancanza di un reddito, a garantire la formazione di un patrimonio-salvagente da vecchi, da una parte, e di una pensione dall’altra.

A cosa è servito, allora, questo ventennio di riforme? Sostanzialmente a rendere sostenibile la spesa pensionistica. E’ una cambiale pagata al presente, assai più che al futuro.

Se guardiamo al caso italiano, esaminato dall’Ocse, la situazioni di criticità ci investiranno in pieno.

Partiamo da un dato. La spesa pensionistica italiana, nel 2013, ha inciso per il 30% della spesa pubblica, a fronte di una media Ocse del 17% e del 3% dell’Islanda.

La riforma Fornero è servita soltanto a garantire la sostenibilità futura dell’impanto previdenziale, obbligando al passaggio al contributivo per tutti e all’innalzamento graduale dell’età pensionistica. “Dal 2021 – scrive l’Ocse – nessun lavoratore sarà in grado di andare in pensione prima dei 67 anni e dopo l’età pensionabile andrà ben oltre il limite dei 67 anni”.

Questa esigenza nasce da un dato di fatto: l’Italia è il paese che spende più di tutti, il relazione al Pil, per le pensioni. Nel 1990 le pensioni costavano il 10,1% del Pil. Nel 2009 eravamo arrivati al 15,4%, a fronte di una media Ocse del 7,8%, un aumento del 53,3%. Sul totale della spesa pubblica, si è passati dal 19,1% del 1990 al 29,8% del 2009. Un primato assoluto, determinato anche dall’alta percentuale di pensionati in relazione alla forza lavoro. In Italia, infatti, le pantere grigie di oggi pesano il 34,5% a fronte di una media Ocse del 25,5.

E secondo le proiezioni, tale quota di spesa, malgrado le varie riforme, rimarrà sostanzialmente costante fino al 2060.

Il problema, sottolinea l’Ocse, è che “il successo delle riforme pensionistiche si basa fondamentalmente sull’andamento del mercato del lavoro”.

Da qui ne deriva che “l’adeguatezza dei redditi pensionistici potrà essere un problema per le future coorti dei pensionati”. “I lavoratori con carriere intermittenti, lavori precari e mal retribuiti saranno più vulnerabili al rischio povertà durante la vecchiaia. In secondo luogo luogo, oltre alle prestazioni sociali (assegno sociale) per le persone di 65 anni e quelle più anziane l’Italia non prevede alcuna pensione sociale per attenuare il rischio di povertà per gli anziani”.

E qui torniamo alla premessa.

Oggi non succederà nulla e domani neanche.

Ma dopodomani, in assenza di fatti nuovi e in un’epoca di bilanci pubblici al lumicino, saranno le pantere grigie a finire sulle barricate.

Minacce Emergenti

Quelli che erano i cavalli sui scommetteva l’economia internazionale rischiano di essere i brocchi che finiranno con l’affossarla.

Le economie emergenti, che avrebbero dovuto trasformarsi nel serbatoio della domanda mondiale fino a gareggiare con i tradizionali mercati di sbocco, oggi sono guardate con sospetto e una crescente preoccupazione da parte degli organismi internazionali.

Il boom creditizio che ne ha sostenuto la crescita negli anni buoni rischia infatti di trasformarsi un uno straordinario boomerang capace di fare danni seri alla fragile ripresa mondiale.

L’ultimo allarme è arrivato dall’Ocse, che al tema ha dedicato un approfondimento nell’ultimo outlook sull’economia mondiale rilasciato di recente.

Gli Emergenti possono far danni su due fronti: lato commercio internazionale e lato interconnessione finanziaria, visto che in moltio paesi emergenti “le condizioni finanziarie si sono molto deteriorate rispetto all’outlook di maggio”. A tal punto che “uno slowdown di questi paesi – scrive – può far diminuire la crescita nelle economie avanzate, i particolare in Europa e Giappone”.

Oltre ad esaminare le relazioni che intercorrono lato commercio internazionale fra Emergenti e Avanzati, rilevando come un rallentamento dei primi rischia di affossare i mercati globali, l’Ocse è particolarmente preoccupato dei collegamenti bancari che la globalizzazione finanziaria ha favorito fra queste due entità. Specie dopo aver assistito con pacato terrore alla reazione dei mercati internazionali all’annuncio (poi ritrattato) del rallentamento degli acquisti di asset da parte della Fed che ha messo in tensione gli Emergenti assai più e prima degi Avanzati.

Le statistiche della Bis, dice l’Ocse, mostra che “l’esposizione delle banche dei paesi avanzati nei confronti degli emergenti è aumentata dopo la crisi”.

E questo è il primo problema.

Gli afflussi sono arrivati da diversi paesi, a cominciare dagli Usa, con le banche americane a caccia di redditizi carry trade incoraggiati dal denaro praticmente gratis, e poi dalla Gran Bretagna e dal Giappone, che condividono tale pratica.

Ma anche l’Europa è molto esposta.

“Segni di una possibile vulnerabilità bancaria è apparsa in alcune economie emergenti – scrive l’organizzazione -. In particolare, la crescita del credito al settore privato è aumentata rapidamente dal 2007. In termini nominali, tale crescita è stata in media del 20% all’anno in molte di queste economie, malgrado, in relazione al Pil nominale, questa crescita sia stata notevole solo in Turchia, Cina e Brasile”.

In tale contesto, “una tale rapida crescita aumenta i rischi di turbolenza finanziaria, in quanto espone le banche a perdite in caso di shock macroeconomici, specialmente se associati a standard di prestito negligenti”.

Ricordo a tutti che in letteratura è ormai pacifico che una rapita crescita del credito sia una delle migliori spie di una possibile crisi finanziaria.

Tali rischi sono aumentati da quando in questi paesi si è cominciata a notare una preoccupante impennata dei non performing loan, cioé i crediti in sofferenza, associata a una generale debolezza dei coefficienti di liquidità delle banche.

Per il momento, tuttavia, il settore bancario degli emergenti risulta ancora in equilibrio, “almeno a livello aggregato”. Ma le preoccupazioni rimangono, anche a causa dell’aumentata vulnerabilità esterna. Ossia il debito estero.

Guardiamo alcuni dati.

La crescita del credito interno è stata impetuosa negli ultimi anni. La Turchia ha visto un tasso annuo medio nominale del 25% l’anno dal 2007, mentre i quattro Bric stanno poco sotto, con la Cina a pochi decimali dalla Turchia, l’India intorno al 20% come anche il Brasile,e la Russia poco sotto il 20%.

Il credito al settore privato non finanziario ha sfondato il 150% del Pil in Cina, (circa 170%), mentre era al di sotto del 150% nel 2007.

La Turchia, seconda in questa classifica, sta poco sotto il 100% del Pil, ma nel 2007 era meno della metà.

La crisi, per questi paesi, si è tradotta in una straordinaria crescita del credito interno, che evidentemente ha supportato la domanda domestica a fronte della contrazione di quella estera.

Il problema sorge quando per dare credito all’interno le banche devono far debiti all’esterno.

E qui arriviamo al debito estero.

 “La crescente dipendenza di alcune economia in deficit estero, in particolare India e Indonesia, dagli afflussi esterni di capitali le ha rese vulnerabili al rischio di deflussi”.

Il tanto temuto sudden stop.

“La vulnerabilità finanziaria è aumentata anche in altre economie emergenti a causa della quota crescente di debito estero sul totale, in particolare in India, Turchia e Polonia, anche a causa dell’aumentata dipendenza dal finanziamento a breve termine dalle banche straniere”.

Alcuni di questi rischi, nota l’Ocse, sono tuttavia mitigati dalla presenza di riserve. Ma le riserve si sa come sono: oggi son qui, domani chissà.

Anche qui qualche numero aiuterà a capire le dimensioni del problema.

In Polonia l’ammontare totale delle passività estere ha superato il 100% del Pil nel 2012. Il debito nei confronti di banche estere pesa il 25% del Pil. Oltre il 50% di queste passività è  finanziato con debito a breve e la posizione netta degli investimenti (NIIP) è negativa per oltre il 60% del Pil.

In Turchia le passività estere hanno superato il 75% del Pil. Il debito nei confronti di banche estere pesa circa il 20% del Pil e la quota di questo debito finanziato a breve con le banche estere sfiora il 60%, mentre la posizione netta è negativa per oltre il 50% del Pil.

Chiunque mastichi questa roba, sa bene che debito estero elevato finanziato a breve è il miglior viatico per una crisi della bilancia dei pagamenti. E con le minacce di exit strategy che girano nel mondo finanziario, tale crisi è qualcosa di più che una semplice possibilità.

La Cina non sta tanto meglio degli altri. L’unica differenza notabile è che, oltre ad essere comunque un creditore globale netto, in relazione al Pil ha meno passività estere, intorno al 40% (ma solo perché il Pil è più alto), e una quota bassa, sempre rispetto al Pil, di debiti verso banche estere. Ma la quota di finanziamenti a breve sfiora l’80% del totale. In compenso, la posizione netta degli investimenti è positiva per oltre il 20%. La Cina, poi, è forte delle sue riserve, che ormai sfiorano il 40% del Pil, il doppio di quelle polacche e circa il triplo di quelle turche.

Non è un caso, perciò, che di recente la Bundesbank, nel suo rapporto sulla stabilità finanziaria, abbia messo nel conto dei rischi di fronte ai quali si trovano le banche tedesche gli oltre 150 miliardi di dollari di esposizione nei cofronti proprio delle banche dei paesi emergenti.

Si può star certi che il caso tedesco non è l’unico: tutti hanno prestato agli Emergenti, lucrandoci pure succulenti guadagni, e ora iniziano a temerne le conseguenze.

La stretta monetaria, se mai arriverà, rischia infatti di colpire prima gli Emergenti, le cui banche potrebbero faticare a trovare il necessario per rifinanziare i propri debiti a breve, e di conseguenza gli Avanzati, che a queste banche i soldi li hanno già prestati.

La bella favola dei paesi emergenti rischia di strasformarsi in un incubo.

L’incubo della Minaccia Emergente.

Il Mattone sulla bilancia del riequilibrio

Poiché tutto è cominciato dall’immobiliare, è facile capire che lì bisogna tornare affinché il riequilibrio faccia il suo corso. Senonché a sei anni dall’esplosione della crisi, la situazione internazionale del settore è ancora molto delicata. Alcuni mercati sembrano avviati sulla via del risanamento, ma la gran parte vedono nell’immobiliare la fonte primaria della propria fragilità finanziaria, visto l’alto grado di interdipendenza fra l’andamento dei corsi immobiliari e il settore bancario.

Chiaro che gli organismi internazionali tengano sotto controllo il Mattone.

Ultima in ordine di apparizione è stata l’Ocse, che nell’aggiornamento del suo outlook sull’economa dei paesi dell’area, pubblicato nei giorni scorsi, dedica proprio all’andamento del Mattone un corposo approfondimento che aiuta a capire molte cose. Una in particolare: i paesi più macroeconomicamente sbilanciati sono praticamente gli stessi che hanno un mercato immobiliare sballato, nel bene come nel male. Per una Spagna, che soffre di un corposo deficit della partite correnti, associato a un mercato immobiliare ancora sopravvalutato, c’è una Germania che “soffre” di un surplus delle partite correnti a fronte di un mercato immobiliare in ripresa, ma ancora sottovalutato.

Tutto si tiene, come è ovvio che sia.

Qualora ci fosse bisogno di una conferma, vale la pena studiare un grafico elaborato dall’Ocse che misura proprio l’andamento degli squilibri globali dal 1996 al 2012. Per la cronaca, nel 1996 tali squilibri pesavano circa l’1% del Pil mondiale. Prima della crisi, quindi fra nel 2007, avevano raggiunto il 4,5% del Pil, per declinare bruscamente nel 2009 sotto il 2%, spinti dal calo di domanda globale sofferto specie dai paesi in deficit. Più o meno il livello di adesso.

Ma attenzione: l’Ocse avvisa che se non si  metteranno in campo politiche di riquilibrio stabili ed efficaci, lo squilibrio è destinato a risalire non appena il ciclo economico mostrerà segni di inversione.

Il solito dilemma fra squilibrio e depressione.

Per capire quanto pesi il Mattone sulla bilancia del riequilibrio basta notare che nella simulazione econometrica elaborata da Ocse, l’andamento dell’immobiliare e del commercio spiega circa il 40% dello squilibrio globale, tanto è vero che la curva che monitora l’andamento di tale squilibrio, aggiustata per il ciclo di Mattone e commercio, mostra, già nel 2012 uno squilibrio del 3% del Pil mondiale.

Se poi andiamo a sbirciare nel futuro (prevedibile) uno scenario di boom immobiliare porterebbe lo squilibrio globale al 4,5% del Pil entro il 2020: lo stesso livello pre-crisi, mentre lo scenario base, quindi a bocce ferme, condurrebbe comunque a uno squilibrio di oltre il 3,5% del Pil. Il Mattone, insomma, fa la differenza.

Per capire in quali paesi la correzione dei valori immobiliari è coerente con le necessità di riequilibrio globale l’Ocse divide i paesi dell’area in cinque categorie:

1) quelli in cui il valore delle case appare nel complesso valutato correttamente. A questa categoria appartengono gli Stati Uniti, dove i prezzi sonon in crescita dopo una correzione sostanziale, l’Italia, dove i prezzi sono in rapido declino, l’Austria, prezzi in crescita, e l’Islanda la Corea del Sud e il Lussemburgo, prezzi piatti;

2) paesi dove i prezzi appaiono sottovalutati e ancora calano. A questa categoria appartengono i paesi che più hanno sofferto la crisi: Grecia, Irlanda, Portogallo, Slovenia, Slovacchia e Repubblica Ceca, ma soprattutto il Giappone;

3) paesi dove i prezzi appaiono sottovalutati ma che ora sono in crescita. Qui troviamo solo Germania e Svizzera, dove il notevole incremento di ricchezza di cui hanno goduto i cittadini in questi anni di crisi ha avviato il ciclo positivo per l’immobiliare;

4) paesi dove i prezzi appaiono sopravvalutati, ma dove adesso sono in calo. Qui troviamo innanzitutto la Spagna, la Gran Bretagna, il Belgio, la Danimarca, la Finlandia, l’Olanda e l’Australia. L’Ocse avvisa che una correzione troppo pronunciata potrebbe mettere a repentaglio la ricchezza delle famiglie , di conseguenza, il settore bancario;

5) paesi dove i prezzi appaiono sopravvalutati e che ancora salgono. In tale situazione incresciosa si trovano il Canada, la Norvegia, la Nuova Zelanda e la Svezia. Queste economie sono quelle più esposte al rischio di correzione dei prezzi, specie qualora dovesse salire il costo del credito (vedi exit strategy) o dovesse rallentare la crescita.

Piccoli squilibri crescono.