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Il QE europeo, ovvero il trionfo dell’egemonia monetaria
Mi ritrovo a navigare, come voi sperduto, nel vasto mare dell’informazione economica con le correnti che mi spingono a volte verso fiumi impetuosi che mi sovrastano, lasciandomi spossato, tal’altre lungo angusti rigagnoli che però nascondono tesori, piccole perle che hanno il potere di illuminare la mia vista da naufrago, onnubilata dall’acqua.
Mentre nuoto, ancora incerto sulla ragione e soprattutto la destinazione, mi piovono addosso notizie di spread europei che collassano insieme alla quotazione della moneta unica, ormai vicina alla parità col dollaro, mentre dalla terra greca si paventano sconquassi come più o meno accade ormai da un lustro. All’orizzonte vedo sorgere un timido arcobaleno, però, che la decisa azione della Bce ha reso persino più colorato di com’è solitamente in natura, con i telegiornali e gli istituti di statistica a spargere ottimismo, che male non fa, pure se non è detto che faccia bene.
Mi convinco per simpatia che non solo va tutto bene, a parte le bizze dei greci che qualcuno raddrizzerà, ma che soprattutto andrà tutto bene. Il QE di Supermario ha già raggiunto il suo obiettivo evidente: ristabilire la fiducia e svalutare l’euro, che comunque male non fa, come ci ricordano i giornali confindustriali, anche se non è detto che faccia bene.
Decido persino di non scriverne più di QE, atteso che tutto quello che c’era da dire e ricordare credo di averlo già fatto.
Ma poi mi capita sotto gli occhi uno speech di Peter Praet, componente del board della Bce, (“Public sector security purchases and monetary dominance in a monetary union without a fiscal union“) e capisco di essere finito in uno di quei rigagnoli di cui vi dicevo prima. Uno di quei posti angusti da dove però puoi guardare l’insieme, solitamente trascurato dalle cronache.
Le riflessioni di Praet mi fanno tornare in mente un post che avevo scritto tanto tempo fa, nel quale senza saperlo avevo invocato un concetto a che a quanto pare esiste davvero nella teoria del central banking, quello di monetary dominance. Nella mia ignoranza (mai sentito prima) avevo parlato invece di egemonia monetaria, riferendola alla logica dell’agire della nostra banca centrale che, proprio perché priva di uno stato alle spalle, deve far leva sul rispetto di alcuni principi essenzialmente monetari per la sua politica. La logica dell’egemonia monetaria si confronta con quella della moneta egemone che caratterizza ad esempio gli Stati Uniti, dove c’è una perfetta saldatura fra stato e banca centrale pur nella diversità dei ruoli.
Figuratevi la sorpresa quando, leggendo Praet, mi sono accorto che il miglior risultato che il QE ha ottenuto, aldilà degli spread declinanti e della fiducia crescente e al netto della Grecia, è stato sui principi: la Bce di fatto con la sua decisione ha segnato il trionfo del principio della monetary dominance. Quindi il suo personale.
Tale principio si basa sull’assunto che una banca centrale debba prendere le sue decisioni in totale indipendenza senza altro riguardo che al suo mandato, quindi nel caso della Bce legato all’obbiettivo di un’inflazione al 2%, senza curarsi né della financial dominance, ossia delle conseguenze che ciò avrà sulle banche e il sistema finanziario, né tantomeno della fiscal dominance, ossia l’esigenza che può avere uno stato di rivolgersi alla sua banca centrale per finanziarsi, per la semplice ragione che uno stato alle spalle la Bce non ce l’ha.
Il trionfo dell’egemonia monetaria, che è un modo totalmente nuovo (anche se ricorda il vecchio gold standard ottocentesco) di concepire il central banking, conferma che l’eurozona è il luogo dove l’internazionalismo monetario si sta facendo i muscoli, e perciò è assai utile seguire il ragionamento di Praet, pur nella consapevolezza che mai e poi mai la moneta egemone cederà la sua supremazia senza combattere.
Vi riassumo qui i tratti salienti.
L’unione monetaria europea senza unione fiscale è possibile in teoria, dice il banchiere, “ma richiede requisiti che assicurino una monetary dominance più stringente”.
Ciò in quanto in una unione monetaria la politica monetaria, che è a sua volta unica, genera dei link con i budget fiscali dei diversi stati. Il perché è evidente: guadagni o perdite dell’attività della banca centrale vengono distribuiti a tutti governi, pure se in quota parte. Quindi se la Bce comprasse titoli di stato di un paese membro ne condividerebbe il rischio con gli altri paesi, il che è semplicemente vietato dai trattati. Ecco: la monetary dominance implica l’indifferenza dell’autorità monetaria nei confronti dei paesi le cui banche centrali (a loro volta teoricamente indipendenti) sono a loro volta azioniste della Bce. La difesa della moneta è lo scopo principale del gioco.
Perché tale monetary dominance sia effettiva occorre ovviamente che la Bce sia credibile anche e soprattutto nei confronti delle autorità fiscali. E infatti per evitare tentazioni di fiscal dominance, l’Ue ha costruito il suoi vari fiscal compact che di fatto imbrigliano i governi nazionali in una matrice di parametri alla quale non possono sfuggire a pena di sanzioni.
Ma monetary dominance significa anche un’altra cose: significa che la banca centrale può farsi carico della politica monetaria ma non di quella creditizia.
Nella distinzione che ne ha fatto Marvin Goodfriend in uno scritto del 2011 “una autentica politica monetaria esiste solo quando la banca centrale acquista e vende bond governativi. Quando invece la banca centrale si impegna in operazioni che implicano rischi di credito, e quindi coinvolge il settore privato, sta facendo politica creditizia a in ultima analisi fiscale”.
Ma “la nozione che un bond governativo non porti con sé rischio può esistere solo in un contesto in cui ci sia pieno consolidamento fra il bilancio della banca centrale e quello dell’autorità fiscale”. Detto in parole comprensibili, una banca centrale può monetizzare un Treasury, e in questo senso è sicuro.
Il problema è che in una unione monetaria senza unione fiscale, un asset del genere non esiste. Nessun titolo degli stati è risk free perché la Bce non può monetizzarlo e perché, nella logica della monetary dominance, uno stato può tranquillamente fallire. L’unico titolo risk free dell’unione europea sono i debiti della Bce, perché emessi da se stessa e quindi infinitamente monetizzabili. Il che dovrebbe farci capire chi comandi davvero in Europa.
Tali considerazioni, che a molti parranno filosofiche, hanno condotto a decisioni molto concrete sia per l’ideazione che la realizzazione del QE della Bce.
Se vi verrà voglia di leggere Praet scoprirete che la decisione presa dal board è assolutamente coerente con questa visione, dove una banca senza stato, che adesso può anche contare su una unione bancaria e su un sistema coordinato di regole fiscali per gli stati, di fatto surroga l’autorità politica pur dicendo il contrario. Nel senso che la politica dell’Ue è la monetary dominance, innanzitutto.
Vi risparmio i dettagli e salto direttamente alle conclusioni: “La decisione del consiglio dei governatori ha dimostrato che siamo (la Bce, ndr) senza vincoli nella nostra capacità di ottemperare al nostro mandato, potendo far pieno uso di tutti gli strumenti di politica monetaria legali ed efficaci di cui disponiamo”.
“Questa – sottolinea – è un’asserzione di monetary dominance, coerente con i principi del Trattato di Maastricht”.
Ma attenzione, avverte: il successo dell’euroarea dipende dal fatto che tutti gli stakeholder facciano la loro parte.
Ripenso ai politici greci mentre Praet recita le sue ultime parole famose: “La Bce non esiste nel vuoto”.
E sento improvvisamente il vuoto dentro di me.
L’ottimismo della volontà: l’unione politica di Supermario
Mentre lucida il suo bazooka, pronto a riporlo se del caso, il presidente della Bce, Mario Draghi, fa sfoggio del suo migliore ottimismo della volontà circa gli esiti della guerra alla deflazione che la banca centrale europea ha iniziato ormai da mesi.
I mercati attendono il prossimo 22 gennaio, quando il consiglio della Bce annuncerà i suoi prossimi passi operativi, come il D-day del quantitative easing in salsa europea, pur consapevoli che quanto farà la banca servirà al più a dare una scossa, ma non sarà certo risolutivo.
Ma il punto non è tanto sapere se e quanti titoli pubblici la Bce comprerà sul mercato primario, opzione peraltro controversa e invisa ai paesi nordeuropei. La questione saliente è squisitamente politica. In gioco non c’è soltanto un pacchetto di miliardi che la Bce, magari per il tramite delle banche centrali nazionali, inietterà sul mercato. Ciò di cui discute è l’assetto dell’unione monetaria, la sua precisa costituente.
A tal proposito il nostro Supermario ha le idee chiarissime e chiunque abbia letto i suoi tanti interventi negli ultimi anni lo sa bene.
Ai più distratti vale la pena segnalarne uno che Draghi ha rilasciato lo scorso 2 gennaio nell’ambito del Projcet Syndicate, dal titolo eloquente: “Stability and prosperity in Monetary Union”.
Un paio di paginette appena, ma pregne, come si dice. Già dall’inizio.
“C’è un comune malinteso sul fatto che l’euro area sia un’unione monetaria senza un’unione politica – osserva – . Ma questo riflette un profondo fraintendimento su ciò che un’unione monetaria sia. Un’unione monetaria è possibile solo in virtù di una sostanziale integrazione già acquisita fra i paesi europei, e condividere una moneta unica approfondisce questa integrazione”.
Il punto di vista, insomma, è esattamente l’opposto di quello contrabbandato in questi anni da tanta stampa. L’unione monetaria è stata possibile solo perché c’era già una sostanziale unità d’intenti sull’unione politica.
D’altronde chi frequenti la storia europea questo lo sapeva già. Guardando in casa nostra, basta ricordare un celebre saggio di Luigi Einaudi, intitolato “Per una federazione economica europea”, dove già si delineava la necessità di una moneta comune, manifestandosi con ciò la volontà di superare i vecchi stati nazionali, delegando la sovranità economica e militare a un’entità sovranazionale. Ricordo a tal proposito il fallimento, determinato dai francesi, della Comunità europea di difesa del 1953, che avrebbe dato sostanza a questa visione assai prima dell’euro.
Il tema, quindi, non è tanto quello del più Europa, come incita la pubblicista mainstream, ma quello della presa d’atto che il più Europa c’è già. Manca solo di essere statuito.
A tal proposito Draghi ha gioco facile a ricordare che gli osservatori hanno sottostimato l’investimento politico che l’Europa ha fatto sulla moneta unica, segnale evidente dell’intento, che data ormai più di sessant’anni, di arrivare a una sostanziale unione politica,passando magari per succedanei di un bilancio fiscale unico.
Ciò non vuol dire che i giochi siano fatti. Lo stesso Draghi riconosce che “l’unione monetaria è ancora incompleta”. E all’uopo ricorda la lettera dei quattro presidenti che un paio di anni fa le principali autorità europee, compreso lui, rilasciarono all’opinione pubblica per illustrare il percorso di integrazione dell’Unione, rispetto al quale “importanti progressi sono stati fatti”.
Ma cosa significa esattamente unione incompleta? La risposta è molto pragmatica: “Significa disporre di condizioni grazie alle quali i paesi membri sono più stabili e prosperi di quanto non sarebbero se fossero fuori dall’Unione”. Risposta ovvia, ma incompleta a sua volta. La domanda è come creare queste condizioni.
“In altre unioni politiche – sottolinea Draghi – la coesione è mantenuta attraverso una forte identità comune, ma spesso anche tramite trasferimenti fiscali permanenti dalle regioni ricche a quelle più povere. Nell’euro area questi trasferimenti non sono previsti. Questo significa che abbiamo bisogno di un approccio differente per creare le condizioni che assicurino che ogni paese tragga vantaggio dall’Unione”.
Ciò ci permette di capire quale sia, nella visione di Draghi, la via europea all’Unione politica. Il primo passo è che le regole europee devono mettere ogni paese nella condizione di prosperare autonomamente: “Tutti i paesi membri devono essere in grado di sfruttare i vantaggi comparativi all’interno del mercato unico, attrarre capitali e generare posti di lavoro. E hanno bisogno di avere sufficiente flessibilità per rispondere rapidamente a shock a breve termine. Questo deriva dall’adozione di riforme strutturali che stimolino la concorrenza, riducano la burocrazia superflua, e rendano i mercati del lavoro più flessibili”.
Le riforme, dunque.
Il problema è che finora la decisione di adottare o meno tali riforme è stata “largamente una prerogativa nazionale”, mentre “in un’Unione sono un chiaro interesse comune”. Come dire: se l’Italia non fa le riforme, che sono anche interesse della Germania, l’entità sovranazionale dovrebbe disporre degli strumenti per “costringere” l’Italia a farle. Ciò significa “passare da un coordinamento a un processo decisionale comune, dalle regole alle istituzioni”.
La seconda implicazione dell’assenza di trasferimenti fiscali è che “i paesi devono investire di più in altri meccanismi per condividere il costo degli shock”. “Anche nelle economie più flessibili – sottolinea – gli aggiustamenti interni saranno sempre più lenti di quanto sarebbero se i paesi avessero la libertà di disporre del loro tasso di cambio”. Quindi? La soluzione è creare un meccanismo di condivisione del rischio “per evitare che le recessioni lascino cicatrici permanenti e rafforzino le divergenze economiche”.
La strada indicata per sviluppare meccanismi di risk-sharing è quella di approfondire l’integrazione finanziaria: “Meno condivisione pubblica del rischio vogliamo, più serve condivisione privata del rischio”. Ed ecco spiegata la logica dell’unione bancaria e degli altri profondi quanto poco osservati cambiamenti intrapresi dall’infrastruttura finanziaria europea. Condividere il rischio privato, infatti, significa responsabilizzare tutte le banche, ma anche i mercati dei capitali, per arrivare a una rapida unione finanziaria.
E ciò malgrado la variabile fiscale riveste e rivestirà sempre un’importanza vitale. Uno shock fiscale in un paese ha conseguenza chiare su tutti gli altri, quindi “è fondamentale che le politiche fiscali nazionali siano in grado di interpretare un ruolo di stabilizzazione”. E questo spiega i vari fiscal compact che affliggono le nostre contabilità pubbliche.
Ma c’è un caveat: “Per consentire alle fiscalità nazionali di funzionare, un governo deve potersi finanziare a un costo sostenibile in periodi di stress. Un forte framework fiscale è indispensabile, ma l’esperienza della crisi suggerisce che in tempi di tensione estrema anche un paese con una posizione fiscale soddisfacente può essere soggetto a contagio”. E questo ci riporta alla riunione del 22 gennaio prossimo, quando il principio teorico dovrebbe tramutarsi in pratica, come anche ha ribadito in un’intervista all’Irish Time Benoit Couré, componente del direttorio Bce, sottolineando che perché tale politica funzioni “deve essere grande”.
Per questo serve l’unione economica, che ristabilisce fiducia nei momenti di crisi: “Con l’impegno dei governi a attuare le riforme strutturali, l’unione economica rafforza la credibilità circa la capacità dei paesi dell’unione di crescere senza fare debiti”.
Sicché, “per completare l’unione monetaria dobbiamo approfondire ulteriormente la nostra unione politica: definire i diritti e doveri in un ordine istituzionale rinnovato”. E state pur certi che la Bce farà la sua parte, nella costruzione della nuova costituzione materiale dell’eurozona, visto che quella formale è stata bocciata (sempre dai francesi). Cominciando proprio dal suo personalissimo QE.
Ma attenzione: approfondire ulteriormente l’Unione politica. Non cominciare a farla.
Per il semplice fatto che c’è già.
(2/segue)
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Le banche centrali fanno aumentare la disuguaglianza
Poiché la disuguaglianza è tornata di moda, forse perché aumenta, molti ne scrivono e ancor di più si interrogano sul perché e sul percome tale sgradevole controindicazione continui ad abitare il meraviglioso mondo magico che ci ostiniamo a credere sia, o dovrebbe essere, il nostro.
Nulla di strano che tale arrovellarsi finisca col coinvolgere anche i nostri banchieri centrali, ormai veri e propri virgilii nell’inferno della contemporaneità, che adesso si chiedono se, hai visto mai, la loro dissennata politica dei tassi a zero, e anzi negativi, non finisca per avere effetti redistribuitivi che sono del tutto esorbitanti rispetto ai compiti di una banca centrale. che dovrebbero limitarsi alla stabilità dei prezzi, come è il caso della Bce, o al più alla stabilità finanziaria e del mercato interno, come si spingono a fare la Fed e la Boj.
L’ultimo ad arrovellarsi sul tema Banche centrali&disuguaglianza è stato Yves Mersch, componente del board della Bce, ultima arrivata, ma non per questo meno espansiva, fra le banche centrali che hanno deciso/dovuto fare uno straordinario allentamento monetario per provare a rimettere in equilibrio le stanche economie dei loro paesi, pigre e deflazionarie come mai negli ultimi anni.
Il tema della disuguaglianza si collega proprio a questo. O meglio alla risposta alla domanda se la politica monetaria abbia o no effetti redistributivi. La qualcosa parrà quantomeno astrusa a quelli come noi, che usano il buon senso del padre di famiglia, mentre è di primissimo interesse per i nostri banchieri centrali che, sbirciando fuori dalla loro torre eburnea si accorgono adesso che effettivamente mettere i tassi in territorio negativo, far gonfiare i prezzi degli asset e compagnia cantante, è molto probabile interferisca sulla distribuzione della ricchezza.
Ma per comprendere il punto di vista di Mersch bisogna provare a mettersi nei panni di un banchiere centrale. “Finora – spiega – il tema della disuguaglianza non ha fatto parte dell’analisi della politiche monetaria. Ma questo può cambiare”.
E le ragioni son presto dette. “L’aumento della disuguaglianza ha impatto sulla stabilità finanziaria”, sottolinea, e alcune evidenze fattuali mostrano come sia possibile un collegamento fra disuguaglianza e crisi finanziarie. Ma soprattutto, Mersch riconosce l’evidenza che agire sui tassi di interesse ha di per sé effetti redistributivi.
Abbassare i tassi può essere un vantaggio per i debitori, che pagano meno interessi, ma altrettanto per i creditori, che vedono salire i prezzi degli asset. Costoro d’altronde, se hanno investito in asset “sicuri” quanto possono esserlo oggi gli asset, ad esempio depositi od obbligazioni, rischiano di essere penalizzati da una politica di tassi bassi, esattamente come può succedere ai debitori, specie quelli che appartengono alla fascia più povera della popolazione, che magari a causa delle frizioni economiche che rendono necessaria tale politica, perdono il lavoro.
Uno studio del Nber di qualche anno ricordato da Mersch fa individua almeno cinque canali attraverso i quali la politica monetaria impatta sulla distribuzione del reddito. Una politica monetaria espansiva che faccia salire i profitti più dei salari, ad esempio, avvantaggia quelle persone che ricevono i loro guadagni dagli affari o dalla finanza, che evidentemente sono già i più ricchi della popolazione e che perciò lo diventano ancor di più.
Al tempo stesso tale politica avvantaggia i cittadini più a loro agio con i mercati finanziari, che, incidentalmente, sono sempre i più ricchi. Inoltre, poiché i cittadini a più basso reddito hanno generalmente la tendenza a accumulare la poca liquidità che hanno, magari tendendola in banca, i potenziali effetti inflazionistici originati dall’azione delle banche centrali rischiano di tradursi in un effettivo trasferimento di ricchezza da loro ai più ricchi. Senza contare che una politica di tassi bassi colpirà anche il rendimento dei loro conti correnti.
Tali assunzioni teoriche hanno trovato una prima conferma sperimentale stimando gli effetti della politica monetaria sulla redistribuzione negli Usa a partire dal 1980. L’analisi ha mostrato una certa sensitività della disuguaglianza alle politiche a tasso zero che, addirittura, hanno effetti simili, quando l’economia richiederebbe tassi negativi, a quando si adottino politiche restrittive.
Un rapporto del McKinsey global institute di un anno fa ha stimato che l’ambiente di tassi bassi nelle principali economia globali (Usa, Uk e EZ) ha determinato minori incassi per 630 miliardi per i depositanti e gli obbligazionisti. A tali perdite, corrispondono evidenti guadagni per le banche, che su tali conti correnti hanno risparmiato, e per chi emette obbligazioni, stati in testa. Ma tali perdite, avvisa Mersch, possono essere annullate dall’aumento del prezzo degli asset che la politica monetaria porta con sé.
Un altro studio di James Bullard, presidente della Fed di San Louis, è arrivato alla conclusione che la politica di quantitative easing della Fed ha depresso i rendimento degli asset sicuri, spingendo quindi i cittadini verso gli asset più rischiosi, ossia tutto il contrario della stabilità finanziaria che pure le banche centrali dovrebbero monitorare. E poiché le azioni sono possedute soltanto da metà della popolazione, e sono concentrate fra i più ricchi, il QE ha finito col migliorare la loro posizione relativa.
Se guardiamo al Giappone, che da un ventennio prova a uscire dalla deflazione pompando liquidità nel sistema finanziario, quello che se ne trae è un’altra conferma. Una ricerca di Ayako Saiki e Jon Frost alla De Nederlandsche Bank ha evidenziato come queste politiche non convenzionali siano servite allo scopo di far ripartire l’economia, ma al prezzo però di un più elevata disuguaglianza tramite il cosiddetto “canale di portafoglio”, ossia il meccanismo che abbiamo visto agisce quando l’aumento della base monetaria tende ad aumentare il valore degli asset. I soldi fanno soldi, dicevano gli antichi. Con l’avvertenza che tali effetti potrebbero essere ancora più grandi in Europa, Usa e Gran Bretagna, dove le famiglie hanno attivi di portafoglio in azioni e bond anche maggiori rispetto al Giappone.
A proposito. Nell’eurozona la Bce ha messo in piedi una database con i dati di 62.000 famiglie di 15 paesi. Le prime analisi mostrano che fra il 2008 e il 2013 le famiglie a maggior reddito sono quelle che hanno sofferto le maggiori perdite di ricchezza, ma al tempo stesso le famiglie più povere sono state penalizzate dal notevole aumento della disoccupazione, che ha abbattuto anche indirettamente i loro redditi. Insomma; se i ricchi perdono capitale, ma i poveri il lavoro, il risultato finale è comunque un aumento della disuguaglianza, atteso che è più facile recuperare una perdita sulle azioni, tramite il canale del portafoglio, piuttosto che ritrovare un lavoro.
La disarmante conclusione di Mersch è che le banche centrali devono essere consapevoli che provocano conseguenze distributive con le loro politiche monetarie che, di recente, hanno sortito come conseguenza l’aver fatto aumentare la diseguaglianza, anche se lui dice che questa conclusione “non ha ancora una chiara evidenza”. “Tuttavia – aggiunge – le politiche non convenzionali, e in particolare il largo acquisto di asset, sembrano aumentare la diseguaglianza, anche se è difficile stabilire in che quantità”. Questa “controindicazione distributiva deve essere tollerata”, aggiunge, “ma chiaramente non deve durare e questa deve essere un’altra ragione per riconoscere che queste misure di politica monetaria non standard devono essere temporanee”.
Insomma; le banche centrali stanno contribuendo all’aumento della disuglianza, ma vorrebbero tanto non farlo.
Notoriamente, di buone intenzioni è lastricato l’inferno.
Si prepara la quaresima per il capitale fittizio
E’ tutto molto semplice in realtà: le banche centrali, ieri la Fed, la Boe e la BoJ, oggi anche la Bce, hanno fatto una scommessa secondo la quale l’allentamento monetario avrebbe stimolato la crescita e hanno generato enormi quantità di capitale fittizio, ossia obbligazioni sostanzialmente irredimibili in quanto basate sul loro bilancio, per favorire, abbassandone anche il costo, la circolazione di denaro. Ciò nella logica neoclassica per la quale, per dirla con Say, l’offerta crea la domanda. Quindi innanzitutto di moneta.
Al contempo, per mondarsi la coscienza, le banche centrali hanno detto e ripetuto che la creazione di liquidità non sarebbe stata eterna, ma che sarebbe servita solo a guadagnar tempo, per consentire ai governi di fare le sempre più evocate riforme strutturali, iniziando dalle necessarie correzioni fiscali, avvisando pure che politiche monetarie troppo rilassate e mantenute a lungo generano più problemi di quanto si pensa ne risolvano.
Ora il tempo è scaduto.
Siamo entrati nell’era della normalizzazione monetaria che, non a caso, rima con distruzione. Distruzione di capitale fittizio, quindi, che dopo il godurioso carnevale che ha eccitato gli asset e le borse di mezzo mondo, deve ora prepararsi per una quaresima che sarà tanto lunga quanto imprevedibile.
Questo non lo dico io, che mi limito ad osservare, ma gli economisti del Fondo monetario che si scervellano da anni – l’ultimo frutto di cotante riflessioni è stato lo spillover report di luglio – per cercare di quantificare gli effetti che tale normalizzazione avrà sull’economia globale, e quindi su ognuno di noi.
Gli occhi, per ragioni evidenti, sono principalmente puntati sulla Fed ma, mutatis mutandis, lo stesso ordine di problemi dovranno affrontarlo anche le altre banche centrali.
Per la banca centrale americana la “normalizzazione” avverrà lungo i due canali lungo i quali è stata sviluppata la politica di quantitative easing degli ultimi anni: il bilancio della banca, gonfiato di asset, e la gestione dei tassi di riferimento. Bisognerà, da un lato, alleggerire il bilancio della banca, pressoché quadruplicato dal 2008 a oggi, e poi riportare i tassi dallo zero al quale attualmente si trovano verso un livello giudicato “normale”.
Per scoraggiare sarabande speculative e frenare i timori dei mercati, la Fed ha spiegato per grandi linee come intende muoversi. Il FOMC, ossia il comitato che gestisce la banca, già dal giugno 2011 ha spiegato che alleggerire il bilancio della banca è parte integrante del processo di normalizzazione. E non potrebbe essere diversamente, se ci pensate. Solo che si pone il problema di cosa farne degli oltre tremila miliardi di dollari iin portafoglio, fra obbligazioni basate su mutui immobiliari e titoli del Tesoro, che ha Fed ha collezionato in questi anni senza provocare i prevedibili sconquassi che deriverebbero dal metterli sic et simpliciter sul mercato.
Insomma: bisogna distruggere sì il capitale fittizio, ma dolcemente: killing it softly.
Ciò spiega perché il FOMC abbia annunciato che non intende mettere sul mercato gli MBS, ossia le obbligazioni immobiliari, ma probabilmente pensa, questa almeno è la deduzione del Fmi, di smettere semplicemente di acquistarne – ormai gli acquisti mensili della Fed sono ridotti al lumicino – e magari portarli a scadenza. Senonché le scadenze di questi titoli sono mediamente lunghe e si stima che la “normalizzazione” del livello di MBS non arriverà prima della metà degli anni Venti.
Il Fmi glissa sulla sorte della montagna di debito pubblico comprato dalla Fed e affronta poi la questione dei tassi. La forward guidance della Fed indica che si procederà a un graduale innalzamento dei tassi a partire dalla seconda metà del 2015. Le aspettative della Fed, coerenti con quelle del mercato, disegnano una curva mediana dei tassi nominali innalzarsi dal livello attuale fino a quasi il 4% intorno al 2018-19, quindi almeno 300 punti base superiore al livello odierno.
Vale la pena osservare che tale livello di tassi nominali è coerente con quello della Taylor Rule, ossia la regola che fissa il livello di tassi che una banca centrale dovrebbe adottare in risposta all’andamento dell’inflazione. Ciò implica che la Fed, come anche il mercato, stima un aumento di inflazione coerente con un andamento dei tassi crescenti. Ossia crede che la Fed riuscirà a generare inflazione entro i prossimi anni, tanto da bilanciare e rendere almeno neutro il livello dei tassi reali.
E’ chiaro a tutti che si tratta di una scommessa. L’ennesima.
Tutto ciò con l’avvertenza che “data la natura senza precedenti dell’uscita dalle politiche non convenzionali, il processo di normalizzazione è improbabile sarà lineare, quanto piuttosto assai volatile, oltre che dover gestire alcuni fattori che possono provocare deviazioni dallo scenario base”. In primis dipenderà dall’esito finale della scommessa iniziale del 2008: l’andamento della crescita.
E qui diventa interessante leggere un’altro scenario del Fmi che analizza gli effetti della normalizzazione monetaria angloamericana su 40 economie.
La prima ipotesi presa in esame è che l’impulso verso la normalizzazione derivi da un’espansione della domanda domestica, per consumi e investimenti, capace di provocare un innalzamento del tasso base in Uk e Usa di 100 punti base nominali a partire dal terzo quarto 2014 e fino al 2016. In questo scenario “una moderata crescita dell’inflazione e del prodotto in Uk e Usa è associata con un piccolo incremento nel resto del mondo, visto che altre economie avanzate sperimenterebbero afflussi di capitali e apprezzamento del cambio”. Ne risulterebbe un aumento del prodotto dello 0,8% per Usa e Uk, e dello 0,2% del resto del mondo entro il 2015.
Tutto bene quel che finisce bene, insomma. Ma rimane la domanda: da dove dovrebbe arrivare questo impulso alla domanda domestica?
Il Fmi non lo dice. Osserva per converso che le economie di Usa e Uk hanno una grande influenza su quelle del resto del mondo. E chiunque abbia un po’ di dimestichezza con questa roba non se ne stupirà. Il Fmi ha condotto un’analisi nel periodo 2003 e 2014 e ne ha tratto l’evidenza empirica che una crescita di 100 punti base del tasso a lungo termine sui bond americani provoca la crescita dei tassi delle altre economie, seppure a livelli diversi in ragione dello stato generale dei loro conti. Quindi riduzione di prezzi delle azioni e svalutazione della moneta rispetto sia al dollaro che alla sterlina.
E poiché il Fmi non ci fa mai mancare i numeri, eccovene altri. Nell’ipotesi in cui la normalizzazione avvenisse non per slancio della domanda, ma per per le preoccupazioni dei mercati capaci di fare alzare i tassi sul mercato monetario di 50 punti base, sempre in coerenza con l’ipotesi che i tassi a lunga crescano di 100 punti, ciò potrebbe provocare un calo del 10% dei valori azionari, svalutazioni delle altre monete nell’ordine dell’8-10% e aumento dei tassi sui decennali fino a 150 punti base per le economie emergenti, ossia il grande vaso di coccio fra Usa e Eurozona. In tal scenario la crescita per il 2015 diminuirebbe dell’1,2% nel Regno Unito e negli Usa, dello 0,7% nelle altre economie avanzate e dell’1% nelle economie emergenti più vulnerabili.
In entrambi gli scenari, uno buono e l’altro meno, una cosa non cambia: il capitale fittizio diminuirà.
Redde Rationem: l’anno della resa dei conti
S’inizia così, sotto auspici foschi, l’autunno del 2014 che prelude a un inverno in cui il nostro scontento minaccia di trasformarsi in pura infelicità.
L’estate trascorsa, pigra e deflazionaria come s’intravedeva già da primavera, ci consegna un mondo incerto, in bilico sul crinale di una depressione incipiente che gli artifizi delle banche centrali, Fed in testa, hanno travestito nutrendo un boom insensato dei valori mobiliari e timidi rimbalzi di alcuni mercati immobiliari, che hanno restituito alle corrispondenti popolazioni l’illusione di un rinnovato benessere che, essendo di natura puramente monetaria, è illusorio anch’esso, come la moneta di cui si alimenta.
Senonché ogni bel gioco dura poco, e quello della fantafinanza, ossia del denaro virtuale che alimenta ricchezze virtuali, è destinato a soccombere alla logica, questa si stringente, del decumulo cui è destinato tanto affastellarsi numerario di titoli e obbligazioni per i quali il redde rationem, e quindi la resa dei conti, per quanto dilazionato e anzi opportunamente allontanato, verrà prima o poi a conclamarsi, allorquando i tanti creditori degli ancor maggiori debitori inizieranno a convincersi sul serio che la loro ricchezza è scritta sull’acqua limacciosa di un debito incerto.
Tale stato dell’anima, che il mondo ha già sperimentato non più tardi di sei anni fa, si erige e si fortifica ogni qual volta leggiamo di un dato scoraggiante, è evidente, ma al tempo stesso e a differenza del passato, fra quest’anno e il prossimo ci sono alcuni appuntamenti salienti nei quali la campanella della fine ricreazione suonerà più squillante e spaventosa del solito, chiamando gli svogliati scolari che devono governare a decidere e a metterci la faccia, dopo essersi nascosti per un settennio dietro quella del governatore della Bce e degli altri banchieri centrali.
Ciò spiega perché la terza stagione di TheWalkingDebt, che inizia oggi, sarà dedicata al Redde Rationem, dopo che la prima è stata dedicata all’analisi degli squilibri, e la seconda al tentativo di riequilibrio, riuscito solo in parte, delle innumerevoli partite debitorie/creditorie che circolano per il mondo. Si tratterà di capire se la pulsione deflazionaria nella quale si sono infilate le economia dell’Occidente, riuscirà ad essere invertita dalle politiche monetarie espansive della banche centrali, divenendo così inflazionaria quel tanto che serve a trasformare finanze pubbliche ormai avviate verso l’insostenibilità, con grave nocumento per la credibilità degli stati, verso percorsi di risanamento cui certo gran parte della responsabilità è assegnata al Grande Miraggio di quest’epoca economicizzata fino allo sfinimento: la crescita.
Tutti dicono, e con buona ragione, che solo la crescita può salvare le nostre economie. Ma non specificano che ciò dipende dal fatto che abbiamo creato un’economia che, dipendendo dal debito, abbisogna di un reddito crescente per poterlo ripagare. E poiché la crescita dei debiti è ormai fuori controllo, essendo di fatto impagabili, logica vorrebbe che fosse altrettanto fuori controllo anche la crescita, ossia potenzialmente infinita. Ma è chiaro a tutti che così non è e perciò ci si accontenta della versione affievolite di tale utopia, ossia una crescita capace di rendere sostenibili i debiti, intendendosi con ciò il pedissequo soddisfacimento di questa o quella formuletta scritta dagli economisti.
Purtroppo la realtà non sempre obbedisce alla fantasia, per quanto quest’ultima ci s’intigni. E così la pigrizia della nostra società, ben disposte a indebitarsi ma poco vogliose di ripagare questi debiti, oggi ha generato l’ansia di riforme strutturali che ormai coinvolge tutto il mondo, disegnando così una nuova mitologia dove i vecchi non invecchiano, le persone non si ammalano e i giovani nascono già istruiti, visto che soldi pubblici per soddisfare queste pretese ormai non ce n’è più. A patto di fare le riforme, il sol dell’avvenire tornerà a splendere su di noi.
Aldilà del mito, tuttavia, la realtà sempre in agguato ci ricorda tre appuntamenti della stagione che comincia oggi che sarebbe poco saggio ignorare e che qui riepilogo, segnando ognuno un momento topico del nostro redde rationem, personale o sociale che sia.
Il primo, peraltro imminente, è l’avvio della supervisione Bce sulle banche europee che partirà dal primo novembre, dopo che, in ottobre, verranno svelati gli esiti dei temutissimi stress test che Francoforte ha svolto negli ultimi mesi sui pezzi grossi del credito europeo. Ad ottobre, quindi, sapremo quali e quante banche dovrebbero essere ricapitalizzate, e soprattutto da chi, visto che sul tema la confusione in cielo è assai grande.
Gli ultimi due appuntamenti riguardano gli Stati Uniti, che piaccia o no, sono i signori dell’economia contemporanea. Il primo si consumerà alla metà di marzo 2015, quando scadrà la proroga del tetto sul debito deciso dai politici americani a fine 2013, dopo che il mondo ha patito, e non poco, gli esiti dello shut down e le paure di un possibile default, per quanto tecnico, degli Usa.
Il secondo momento americano è quello di metà 2015, quando secondo gran parte degli osservatori la Fed dovrebbe iniziare a rialzare i tassi di interesse. Che ciò possa scatenare una resa dei conti dolorosa è chiaro a tutti, basta vedere cosa è successo con la prova generale di un anno fa.
Questo è il quadro che ci attende, e che naturalmente verrà arricchito dalla cronache, sempre imprevedibili. Come si comporrà lo scopriremo insieme.
Buona lettura e grazie per l’attenzione.
La fine dell’indipendenza delle banche centrali
Al culmine dell’età delle banche centrali, come ebbe a definirla un bel libro di Curzio Giannini del 2004, scopriamo che è iniziato il loro inesorabile declino.
Dieci anni dopo un paper della Bis (“The exit from non-conventional monetary policy: what challenges?”) sommarizza tale tramonto questionando su quella che poi è la peculiarità delle banche centrali, ossia la loro capacità di essere indipendenti dai governi e dai mercati. E questo fa piazza pulita di un dogma – quello della credibilità, appunto – finora mai messo in discussione per la semplice circostanza che farlo avrebbe significato indebolire il presupposto stesso delle banche centrali e, in ultima analisi, l’intero costrutto che su di loro si basa per far circolare il credito.
La fine dell’indipendenza delle banche centrali, insomma, strette nella morsa delle esigenze fiscali dei governi e dell’insaziabilità dei mercati, fa scricchiolare la fede nella loro credibilità, che in un regime di fiat money è ciò che rende le banche centrali ciò che sono: custodi della stabilità.
Senza indipendenza non può esserci credibilità. E senza credibilità non può esserci credito, ossia ciò che le banche centrali alimentano virtualmente senza limiti.
Senza indipendenza viene strappato il velo di Maya grazie al quale queste entità venivano percepite, rivelandosi per ciò che sono: la punta avanzata dell’intervento pubblico in economia, da una parte, e i recettori di ultima istanza di tutta la spazzatura finanziaria generata dall’intervento privato nell’economia.
Sicché oggi, dopo una crisi devastante, troviamo banche centrali con i bilanci gonfi di asset, che finiscono col farle somigliare a un gigantesco debito (pubblico) fuori bilancio che gli stati hanno acceso per socializzare debiti altrettanto giganteschi del settore privato.
Questo infingimento globale viene perpetuato per dare sostanza – ossia liquidità – al circuito economico, sperando che chissà come la macchina imballata dell’economia globale si rimetta in marcia.
Il rito viene celebrato ogni volta che una banca centrale accende una speranza, inevitabilmente costosa. Il banchiere centrale parla, promette più soldi, le borse salgono, i governi si rilassano, i cittadini sperano. Ma poiché la costituente della crisi che stiamo vivendo è spirituale – ossia non materiale – tale infingimento è per sua natura destinato a perpetuarsi senza fine, pena il redde rationem: la resa dei conti.
Ossia quello che tutti vogliono evitare.
Ed è per questo che la Bis mostra di essere così preoccupata. “L’uscita (dalle politiche monetarie straordinarie, ndr) avrà successo solo se le banche centrali rimarranno libere dalla dominanza fiscale e da quella finanziaria”. Ossia se riusciranno, sostanzialmente, a infischiarsene della realtà.
Capite bene di che razza di atto di fede sto parlando.
Il fatto è che la crisi ha mostrato come falsi i tre dogmi principali che hanno retto il central banking negli ultimi trent’anni. Ossia che le operazioni di mercato aperto non cambino i prezzi relativi degli asset; che il tasso a breve sia l’unico strumento di politica monetaria a disposizione delle BC per perseguire i propri obiettivi di politica economica; che la liquidità delle banche commerciali sia un problema irrilevante, se le banche hanno i bilanci in ordine.
La realtà post-2008 ha fatto piazza pulita di queste teorizzazione astratte, rendendo chiaro un’evidenza che a me, uso a fare i conti della serva piuttosti, è evidente a naso: “Il bilancio della Banca centrale conta”, per dirla con le parole del paper. “Gli acquisti su larga scala di bond e asset hanno abbassato i tassi a lungo, la netta separazione fra le operazione di mercato aperto delle BC e la gestione del debito dei governi si è offuscata e le banche adesso fanno molta più attenzione alla liquidità dei loro bilanci”.
In sostanza, la favoletta del central banking, che vedeva le BC come entità sostanzialmente sovrannaturali – ha mostrato la sua fallacia alla prima seria prova dei fatti. Con l’aggravante che “a causa dell’allungamento della maturità degli asset delle BC le decisioni prese durante la crisi avranno conseguenze più durature e incerte nel tempo”.
La constatazione perciò che “nello scorso decennio i bilanci delle banche centrali siano cresciuti quasi dovunque più di quanto ognuno avrebbe mai pensato” diventa la questione centrale delle BC e del loro rapporto col futuro dell’economia.
Prendiamo la Bce. Francoforte ha concentrato la sua azione con prestiti a medio termine alle banche, tramite i quali le banche hanno comprato titoli di stato, “supportando un profittevole carry trade che ha aiutato le banche a ricapitalizzarsi“. La BoE, la BoJ e e Fed hanno comprato direttamente bond per far scendere i tassi nazionali, ma di fatto “riallocando tutti i portafogli internazionali di bond e quindi influenzando i tassi di cambio”.
“Altrettanto importante – spiega – come le BC abbiano alterato la dimenzione e gli scopi del loro bilancio per rispondere alle condizioni economiche e finanziarie creando aspettative nel settore privato su quello che le BC faranno in futuro”. E infatti le BC sono state costrette a elaborare la dottrina della forward guidance per tenere calma la bestia dei mercati.
Con l’aumentare dei bilanci delle BC, è aumentata anche la liquidità delle banche commerciali, che si sono imbottite di riserve. Negli Usa, ad esempio, all’eccezionale espansione di bilancio della Fed (oltre il 20% del Pil) ha corriposto un livello di riserve delle banche commerciali che ormai quota il 25% del totale dei depositi, mentre nel 2008 erano quasi a zero. Comprensibile che le banche siano diventate prudenti sul versante della liquidità, visto i disastri che si sono verificati nell’autunno del 2008.
Ma la domanda è: un livello di riserve così elevato può creare problemi allorquando la BC deciderà di normalizzare la politica monetaria?
Quanto agli acquisti di bond a lungo termine, che la Fed aveva sperimentato in precedenza solo durante la seconda guerra mondiale, questa pratica ha creato un link difficile da gestire fra gli obiettivi di politica monetaria e la gestione del debito da parte dei governi.
“Nel dopoguerra molte banche centrali erano coinvolte nella gestione del debito dei governi, ma non erano indipendenti”, nota il paper. Col che si capisce bene che, di fatto, non lo sono più neanche adesso.
La lezione degli anni ’80, quando gli stati ingolfati dalla stagflazione iniziarono formalmente a separarsi dalle loro BC, sembra sia andata definitivamente perduta. A meno che non si voglia credere davvero che la Fed non tenga conto del governo quando decide le sue operazioni di acquisto di bond.
O che, almeno, non tenga conto dei mercati.
“Abbassare i tassi a lungo termine (comprando bond pubblici, ndr) ha contribuito a ricondurre i prezzi degli asset nelle economie core a livello pre-Lehman, o ancora più in alto”. La domanda stavolta è: l’uscita dalle politiche non convenzionali sarà in grado di evitare conseguenza negative in futuro su questi asset?
Una risposta rassicurante esiste: l’aumento di ricchezza (finanziaria) determinata dalle politiche espansive delle BC avròà effetti sulla domanda globale, senza considerare che una valutazione più elevata degli asset renderà possibile accendere debiti più elevati, se li si usano come collaterali.
L’aspetto rassicurante, perciò, porta con sé l’ipotesi che ci sia un crescita costante di domanda, ovvero di debito.
Ma il problema, con questa risposta rassicurante è che “la recente recessione è durata troppo a lungo”. “I prezzi degli asset sono cresciuti, ma gli effetti benefici sulla crescita reale che avrebbe dovuto conseguirne non si è ancora materializzata” e questa “sconnessione è preoccupante”. “Stiamo creando una bolla destinata a sgonfiarsi”, si chiede (un po’ retoricamente) l’autore.
Oltre ai rischi di bolla, che aumentano sempre più, c’è un altro rischio che si alimenta al ritmo del forsennato turbinare delle emissioni numerarie delle BC: il rischio di esposizione ai tassi di interesse.
“Al centro di questo rischio c’è il debito in Treasury detenuto al di fuori della Fed, cresciuto dai 3 trilioni del 2007, con un rendimento medio del 5%) a otto trilioni (con un rendimento medio dell’1% a metà 2013″. Un aumento dei tassi può avere effetti devastanti su questi asset.
Di fronte a tutto ciò i banchieri centrali dicono ormai da anni di voler uscire dalle politiche non convenzionali, ma in realtà non riescono a smetterla di usarle. Le Fed ha ridotto gli acquisti di bond, ma in compenso la Bce ha armato il bazooka. Col risultato che non solo i bilanci aumentano, ma anche la maturità delle scadenze.
Le BC sono sempre più pesantemente coinvolte nelle politiche dei governi e dei mercati, anche se dicono convintamente il contrario. Anche perché “è impossibile quantificare come reagirebbe il mercato dei bond a vendite da parte delle banche centrali”. Anche qui non serve essere esperti per saperlo: reagirebbe come reagisce ogni mercato quando si vende massicciamente: con un calo. Quindi perdita sui corsi e aumento dei rendimenti, ossia il contrario di quello che le BC dicono di voler perseguire.
Conclusione: le BC non possono smettere di comprare bond statali (Fed) perché ormai sono troppo interconnesse con le tesorerie dei governi, né possono pensare di venderli, perché aumenterebbero i tassi. Sicché assistiamo a dichiarazioni che prevedono tassi a zero molto a lungo, e insieme a bilanci che si gonfiano sempre più per riuscirci.
“C’è una grande incertezza sul quando e quanto velocemente le BC potranno ridurre il loro possesso di bond”.
E in tale incertezza che emerge con prepotenza l’unica certezza: le BC non possono più decidere senza tenere conto del governo e dei mercati. “L’allarme dell’ex vice presidente della Fed sull’aumento delle minacce all’autonomia delle banche centrali vanno prese molto seriamente”.
Altro che indipendenti.
Le bugie dei Grandi Numeri: la rimozione dell’incertezza
Dubitare delle statistiche è atto profondamente eversivo, ed è facile capire perché. I grandi numeri sono la base del ragionare economico contemporaneo, e osservare, pure timidamente, che non c’è alcuna certezza che non sia ipotetica nelle astrussime rilevazione dei istituti che se ne occupano, è capace di far franare la costituente stessa delle nostre economie, basate sul calcolo e la congettura, visto che per calcolare e congetturare servono dati certi.
Ora parrà a molti che questo argomentare appartenga alla percezione dilettantesca di chi, come me, sfogli a volo d’uccello questioni così complesse. Eppure, vedete: non è così. Ci sono fior di studiosi che si occupano di questa roba e fra i tanti ne ho scovato uno, Charles F. Manski, che ha pubblicato un Paper per il NBER eloquente già dal titolo: “Communicating Uncertainty in Official Economic Statistics”.
Capirete la mia sorpresa quando ho scoperto che le mie intuizioni malfondate sono meritevoli di disamina “scientifica”, e addirittura di conclusioni così disarmanti: “Non sappiamo essenzialmente nulla su come il processo decisionale (quindi della politica, ndr) potrebbe cambiare se le agenzie di statistica comunicassero con trasparenza e con regolarità l’incertezza statistica”.
Già, l’incertezza.
Perché, vedete, il problema è che tutta la statistica, e la comunicazione che se ne fa, si basa su una sistematica rimozione proprio dell’incertezza di tali rilevazioni, che, al contrario, vengono vissute come stime puntuali sulle quali basare le proprie decisioni. Ciò spiega perché il nostro autore proponga alcuni metodi per rilevare tale incertezza e imparare a comunicarla, al fine di evitare errori.
Ma non è questo il punto focale. Ciò che conta rilevare è che “le agenzie governative di statistica riportano i dati come stime puntuali senza accompagnarle con misurazioni degli errori che possono contenere”.
Ne consegue che “le notizie pubblicate che comunicano le statistiche ufficiali al pubblico presentano le stime con poche o addirittura nessuna menzione sulle possibilità di errori”.
Il dibattito, perciò, spesso si costruisce su dati lanciato in pasto all’opinione pubblica senza un minimo di caveat che potrebbero ridurli a ciò che sono, ossia congetture, e quindi cambiare la natura stessa del dibattito.
Faccio un esempio. Di recente l’Istat ha rilasciato il dato sul Pil del primo trimestre 2014, registrando un calo dello 0,1%, che misurato in valore pesa circa 1,5 miliardi di euro di prodotto in meno. Per giorni non si è parlato di altro, in maniera alquanto demenziale, con le borse terremotate insieme alla salute del governo. Lo stesso copione al contrario l’abbiamo visto quando l’Istat ha rilasciato il dato del Pil del quarto trimestre 2013, quando invece l’indice segnava un aumento dello 0,1%. In quel caso furono applausi e sospiri di sollievo.
Ma cosa sarebbe successo se l’istituto avesse messo come caveat che il valore di uno 0,1% di un Pil, distribuito sull’insieme delle voci del prodotto, può facilmente equivalere proprio al margine standard dell’errore statistico di misurazione?
Come vedete, la rimozione dell’incertezza è funzionale al governo delle nostre società. Perché se dubitassimo dei numeri, non potremmo articolare alcun discorso politico sui numeri, dimostrandosi con ciò che l’economia, che si costruisce sulla statistica, è di per sé un atto politico, in barba ai tanto decantati principi di neutralità e scientificità.
Vale la pena, perciò, continuare a leggere il paper di Manski, se non altro per sentirsi meno soli, quando si pensano certe cose.
Tipo quando scrive che “riportare i dati statistici come stime puntuali è una tendenza comune a molti analisti che tendono a proiettare incredibile certezza (il corsivo NON è mio, ndr), incoraggiando i policy makers e il pubblico a credere che gli errori sono piccoli e senza conseguenza”.
Notate il verbo credere.
“In assenza di un’agency guidance – continua – le persone che capiscono che le statistiche ufficiali sono soggette ad errori devono autonomamente congetturare la magnitudine di questi errori. Così chi utilizza le statistiche ufficiali può mal interpretare le informazioni che le statistiche forniscono”. E questo, aggiungo io, nel migliore dei mondi possibili. Quello, vale a dire, dove uno che legga i dati non si accontenti del numeretto, ma si vada a leggere le definizioni che sostanziano i dati e che spesso dicono cose molto diverse da quello che uno pensa.
La conseguenza di questa situazione è che si parla con la massima certezza di questioni che sono profondamente incerte. E questo lascia ampia margini alla conduzione retorica del ragionare economico, che in tal modo diventa strumentale a quello politico.
“Le agenzie statistiche potrebbero mitigare le interpretazioni sbagliate delle statistiche ufficiali se misurassero l’incertezza e la riportassero nelle loro news release e pubblicazioni tecniche”, visto che “la qualità delle decisioni può risentirne”.
Il problema è che misurare gli errori, campionari o no, (sampling error, o non sampling error) “è molto sfidante per le agenzie”. “Questi errori possono essere originati da molte fonti e non c’è consenso su come misurarli”. E tuttavia, “avere uno staff nelle agenzie che analizza gli errori avrebbe certo maggiore capacità informative che avere rapporti statistici che vengono considerati come verità”.
Ciò spiega perché il nostro studioso arrivi a ipotizzare addirittura tre tipi di incertezza statistica: transitoria, permanente e concettuale.
Ecco vedete: una volta rimossa la rimozione, l’incertezza mostra il suo volto di hydra dalle mille teste. Può dubitarsi di ogni cosa, pure di consuetudini mentali come il concetto di dato aggiustato per la stagione (seasonal adjustement) “che porta con sé un tipo di incertezza concettuale alquanto fastidiosa”, visto che “lo scopo della destagionalizzazione è facile da spiegare, ma assai meno da facile da realizzare”.
Nel dettaglio, nota Manski, la destagionalizzazione, nella sua definizione, si propone di rimuovere le influenze dei eventi prevedibili sugli andamenti stagionali, “ma non si specifica come”.
Sicché tocca agli econometristi trovare il modo, elaborando supercazzole (il testo cita il metodo X-12- ARIMA method) che nessuno ormai sa più spiegare.
E anche qui incontriamo un grande vulnus della statistica: le definizioni. Sappiamo già che sono le definizioni a delimitare l’ambito della rilevazione. Ma come si fa capire il senso di tali definizioni se queste ultime sono di per sé interpretabili?
Ciò spiega perché i tecnici tengano ben chiuso questo vaso di pandora: nessuno ha voglia di parlare di questioni statistiche, materia assai difficile, quando tutti possono parlare di economia, che non è meno difficile ma assai più popolare (e soprattuto remunerativa). In tal modo tutti insieme, appassionatamente, possono parlare di politica.
La lettura del paper di Manski, da questo punto di vista, è assai utile.
In sostanza, ad ogni forma di incertezza analizzata può corrispondere una diversa revisione del valor statistico, che l’autore sperimenta analizzando, fra gli altri, i dati (e i metodi) del Bureau of economic analysis americano che riporta i dati trimestrali del Pil.
Argomento attualissimo, visto che di recente il Bureau ha riportato la stima del Pil Usa nel primo trimestre 2014 americano registrando un inquietante -1%.
Leggendo Manski scopriamo però che nella stima iniziale del pil trimestrale, circa il 25% dei dati necessari al calcolo, specie quelli realtivi al settore dei servizi, non sono disponibili. Le revisioni successive possono essere significative, ma il punto è che “il dato della stima iniziale fornisce una fotografia dell’attività economica che somiglia ai primi secondi di un’immagine Polaroid nella quale l’immagine sia confusa”.
Chiaro no?
Col risultato, nel caso preso in esame dal paper, che una stima del Pil del +2,7, diventa, una volta rivista, del 2%. Il che significa un errore statistico dello 0,7%. Altro che il nostro misero 0,1%.
Solo che mentre si spendono fiumi di parole e di inchiostro sui dati statistici, solo pochi addetti lavori sprecano tempo a parlare di della loro incertezza. E a questo punto dovrebbe essere chiaro perché.
Ciò, malgrado tali errori abbiano conseguenze importanti sull’economia. E anche questo dovrebbe esser chiaro. “Fino ad ora – nota l’autore citando Croushore – gli studiosi di macroeconomia hanno ipotizzato che le revisioni dei dati statistici fossero di piccole entità ed episodiche, e che comunque non avessero effetti sui modelli economici, le analisi e le previsioni. Ma i ricercatori hanno mostrato quanto questa assunzione sia falsa e che le revisioni dei dati possono avere influenza per diverse ragioni”.
Bello anche l’esempio: nel gennaio 2009, nel mezzo della crisi iniziata a settembre 2008, la stima iniziale sul Pil evidenziò un declino del 3,8% (a tasso annuale) nel quarto trimestre, ma un mese dopo il dato fu rivisto al ribasso del 2,4%, mostrando un declino del Pil reale del 6,2%. “La revisione di 2,4 punti fu la più ampia mai registrata sul dato trimestrale – nota – è questa larga revisione è arrivata proprio in un momento inopportuno”.
O forse no. Vi ricordo solo che due mesi dopo la Fed, già partita da fine novembre 2008 con il suo QE, aveva raggiunto quota 1,7 trilioni di acquisti di MBS, spinta certo dalle pressanti necessità di rivitalizzare l’economia.
Lungi da me voler fomentare la dietrologia. Ma – vedete – i grandi numeri offrono grandi opportunità.
Basta saperle cogliere.
(2/fine)
