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Il calo delle commodity affossa gli Emergenti

Poiché le brutte notizie camminano sempre in compagnia, non mi stupisco di leggere, sfogliando un capitolo dell’ultimo World economic outlook del Fmi, una preoccupata analisi sull’andamento dei mercati delle materie prime, che solleva una questione parecchio importante: l’effetto del calo delle quotazioni delle commodity sull’economia dei paesi esportatori.

Questi ultimi, essendo paesi emergenti, vedono quindi complicarsi una situazione già resa complessa dagli alti livello di indebitamento che hanno raggiunto le loro economie, in un contesto finanziario che inizia ad esser loro avverso. Un rallentamento delle commodity implica necessariamente un calo degli introiti, da un parte, e ha effetti sulla crescita, dall’altra, andando a impattare sul funzionamento profondo di questi paesi. Ne deriva che dovranno faticare ancor di più per ripagare i propri debiti e insieme garantire la sicurezza economica delle loro popolazioni.

Qualche cinico penserà che in fondo sono problemi loro. Anzi sarà pure contento, visto che il calo delle quotazioni finisce col provocare un sostanzioso trasferimento di ricchezza dai paesi esportatori a quelli importatori. Ossia da molti poveri a pochi ricchi. Ma costui dovrebbe ricordare che le interconnessioni del nostro meraviglioso mondo tendono a esportare i problemi ben lungi da dove sono originati, come sa chiunque abbia dimestichezza con l’analisi dei flussi bancari fra le economie avanzate e quelle emergenti.

Come ogni cosa, anche il rallentamento delle quotazioni delle commodity parte da lontano, ed è utile osservare l’andamento di questi mercati fin dal 1960, grazie a un grafico che il Fmi mette a disposizione del suo studio. Qui salta all’occhio l’impennata del prezzo delle commodity nei primi anni del 2000, e in particolare di quelle energetiche e dei metalli, anche se pressioni al rialzo si notano anche in quelle alimentari.

Il rallentamento iniziato ormai da un anno ha raffreddato il boom, ma come si può osservare in alcuni mercati, siamo ancora ben oltre il livello “storico”. E ciò è un motivo più che sufficiente per sollevare l’interrogativo se possa esserci una correzione ulteriore e, nel caso, quanto andrà ad impattare sulla crescita dei paesi coinvolti.

L’Fmi ha condotto una simulazione dalla quale emerge che il calo già subito potrebbe impattare per circa l’1% sul tasso di crescita dei paesi esportatori nel periodo 2015-17, rispetto alla crescita che si è registrata fra il 2012-14. Nei paesi esportatori di energia, tale calo sarà ancora più pronunciato: si stima si possa arrivare fino al 2,25% in media ogni anno.

Ciò viene aggravato dalla circostanza che l’effetto sull’economia potrebbe non essere semplicemente ciclico, ma strutturale: “Gli investimenti e quindi l’output potenziale tendono a crescere più lentamente durante una fase di ribasso dei prezzi delle commodity”, spiega uno degli analisti.

Il fattore strutturale, a sua volta, si avvita con quello congiunturale, il che peggiora le conseguenze dello slowdown. Dal che il Fmi deduce che “i policymaker dei paesi esportatori di commodity dovranno andare aldilà della politiche di supporto alla domanda, e adottare riforme strutturali per migliorare il capitale umano, aumentare gli investimenti e ottenere più elevati tassi di crescita della produttività”.

Gira e rigira, arrivano sempre le riforme strutturali. “Un cambio più flessibile e regole capaci di evitare gli effetti procicliche della politiche fiscali può alleggerire il peso dei ribassi sulle economie esportatrici”, nota il Fmi. E poi ci sono quelle riforme che fanno bene a tutti: creare un clima favorevole al business, migliorare l’istruzione, eccetera.

Ma lo studio del Fmi, stime a parte, è utile perché è stato condotto esaminando i dati di 40 paesi esportatori negli ultimi 50 anni. E non è tanto importante il fatto che molti di questi paesi dipendano pesantemente dagli incassi esteri per la loro politica fiscale, né che tali entrate siano procicliche, quindi aiutano quando tutto va bene e danneggiano quando i prezzi calano.

Il fatto sul quale il Fmi sorvola ma che giova rilevare è che queste economie raggruppano miliardi di persone. Che prima non stavano bene e adesso rischiano di stare peggio.

Il ritorno del dollaro cinese

L’economia ridotta a tecnica, e quindi cavillo giuridico e calcolo, c’inganna nascondendo in recessi remoti il senso profondo dei sommovimenti che la animano. E perciò chi voglia comprendere, non contentandosi delle veline che s’usa dare in pasto al pubblico, deve infilarsi in sgabuzzini scomodi, come le note a pie’ di pagina dei libri o certi rapporti internazionali tipo quello pubblicato in agosto dal Fmi sui metodi di valutazione del SDR.

Capirei chiunque di voi smettesse qui di leggere questo post, ma vi chiedo una sforzo di pazienza che d’altronde ho imposto anche a me stesso, infliggendomi ancora fresco di ferie una roba indigeribile come questa. Il gioco vale la candela, ho scoperto poi. Perché nei rivoli di questo arido resoconto ho intravisto l’alba di una nuova moneta che presto o tardi inizierà a far risplendere i suoi raggi di liquidità su tutto il mondo: il dollaro cinese.

Un ritorno, viene da dire. L’ultima volta che si era visto in giro, il dollaro cinese, è stato nel 1928, quando il governo nazionalista di Chiang Kai-shek riunificò buona parte della Cina sotto le insegne della Repubblica cinese. Non quella popolare di Mao, che si imporrà più tardi. Ma quella di Nanchino che dopo le alterne vicende della guerra finì confinata a Taiwan, dove ancora alligna.

La caratteristica del dollaro cinese, al di là delle tecnicalità che di sicuro faranno le gioie dei numismatici ma non certo le nostre, è che era espressione di uno stato che aveva il supporto delle comunità internazionale dell’epoca.

In tal senso l’evoluzione del Renmimbi, o Yuan se preferite, con l’eventuale ingresso nel basket di valute che compone gli Speciali diritti di prelievo (SDR), ossia la moneta unità di conto gestita dal Fmi, somiglia grandemente al riconoscimento politico che ancora alla Cina manca e al quale ovviamente ambisce: l’essere una grande fra i grandi. Neanche Chiang Kai-shek ambiva a tanto.

Senonché per diventare il nuovo “dollaro cinese”, ossia una valuta che abbia dignità di riserva di valore, di unità di conto e di mezzo di scambio internazionali, lo Yuan deve ancora fare parecchia strada e le autorità di Pechino lo sanno. E infatti si danno un gran daffare per aggiustare codicilli e regolamenti mentre la moneta cinese conquista sempre maggiori spazi nel mondo, a cominciare dall’Asia, dove ormai primeggia sulle fatture commerciali.

Senonché l’alba del nuovo dollaro cinese dipenderà solo in parte dalla Cina. La decisione se inserire o no lo yuan nel basket di valute che compone i i diritti speciali di prelievo (SDR) spetterà infatti al board dei direttori del Fmi, come prevede una procedura ormai abitudinaria secondo la quale ogni cinque anni il basket deve essere aggiornato. E poiché l’ultima volta è stato nel 2010, quando la Cina già aveva fatto prepotentemente capolino, ecco che la review del 2015, che deve formalmente concludersi entro la fine di quest’anno, assume un significato assai importante, visto che i cinesi soddisfano ormai da diversi uno dei requisiti per accedere al basket: una quota di commercio internazionale superiore almeno dell’1% a quella di uno degli stati la cui valuta ne fa parte.

La Cina, come si può vedere qui, è stabilmente al terzo posto nella classifica globale degli esportatori almeno da un decennio, avendo surclassato con il suo 11% il Giappone, al quarto posto con il 5% e il Regno Unito, con il 4,9%, ossia lo yen e la sterlina che insieme all’euro e il dollaro, al primo e al secondo posto dei paesi esportatori, compongono il paniere valutario degli SDR.

Il problema è che lo yuan non soddisfa il secondo fondamentale criterio per l’ingresso nel basket: l’uso libero della moneta, ossia che sia usata e scambiata “widely”, ampiamente. Quindi che sia presente in maniera adeguata nelle riserve ufficiali, nelle obbligazioni e nei depositi bancari internazionali, oltre che negli scambi sul mercato valutario.

Malgrado la crescita dell’utilizzo del renmimbi in queste classi di attività, la soglia di utilizzo è considerata ancora troppo bassa rispetto alle altre valute del basket in ragione delle ancora numerose restrizioni che ancora insistono sul conto capitale cinese. La completa liberalizzazione dello yuan è di là da venire e il fatto che ci siano due mercati, uno on shore e uno off shore, a Hong Kong, dove la moneta viene valutata ne è un chiaro esempio, anche se di recente, e probabilmente in previsione della review del Fmi, le autorità monetarie cinesi hanno ridotto le restrizioni alla possibilità delle banche centrali degli altri paesi di accedere al mercato on shore, ossia quello ufficiale, che impedivano perciò una perfetta internazionalizzazione della moneta.

Aldilà delle tecnicalità, che peraltro abbondano nello studio del Fmi, conta rilevare come malgrado le dichiarate intenzione dei cinesi di arrivare lentamente a una reale internalizzazione della loro moneta, questo processo richiederà un tempo lungo, difficilmente compatibile con la scadenza di fine anno, quando i direttori del Fmi saranno chiamati a decidere del futuro del basket. A meno che, certo, non finisca col prevalere la ragione politica che i seguaci delle cose economiche tendono a sottovalutare.

Se si guardasse solo ai numeri, e pure al netto delle specificità della contabilità cinese (si discute ad esempio se le transazioni fra Hong Kong e la Mainland cinese siano da considerarsi flusso internazionale oppure no) difficilmente lo yuan passerà l’esame di fine anno. E pure se i direttori accetteranno la proposta che il nuovo basket entri in vigore a settembre del 2016 e non il primo gennaio come previsto, sembra assai remota la possibilità che il Fmi includa lo yuan nella prossima revisione. A meno, certo, che i direttori non decidano politicamente un’apertura di credito.

Tale eventualità, a ben vedere non è neanche remota, anche considerando la tormentata estate vissuta da Cina. E tuttavia sembra evidente che potrà verificarsi solo qualora la comunità internazionale, a cominciare dagli Usa, decida di investire sul futuro di questa moneta, inserendola a pieno titolo nel grande gioco valutario. L’inserimento di una nuova moneta nel basket, infatti, è soggetta a una procedura di voto che richiede un quorum elevato che sarebbe impensabile raggiungere senza il sostegno degli americani.

Ciò significa che il preludio all’ingresso della Cina nel gioco delle potenze valutarie è subordinato all’accettazione di un sostanziale controllo del sistema finanziario internazionale sul conto capitale cinese, dissimulato dall’adesione alle regole che valgono per tutte le monete liberamente scambiate. In sostanza, per riuscire nel suo intento di divenire parte protagonista del Grande Gioco capitalista la Cina deve accettare la “penetrazione” occidentale nella sua complessa economia ancora statalizzata nel settore più delicato e dove ancora è assai forte la presa delle autorità: quello monetario. Di fatto un’accettazione piena della logica capitalista che regge l’intero edificio finanziario occidentale.

In questo scenario, peraltro assai probabile, lo yuan sembra destinato a una sostanziale trasformazione: da valuta regionale a forte controllo statale, a moneta di rango internazionale costretta a fare i conti con i capricci del mercato.

Sarà pure cinese, insomma, ma soprattutto dollaro.

Ultime dal Fmi: ora il problema dell’Italia è il debito privato, non quello pubblico

Arrivo alla fine del lungo racconto straordinario che il Fmi fa del nostro Paese e scopro un’evidenza che mi lascia di stucco: il problema dell’Italia versione 2015 non è più il debito pubblico, che pur essendo “esposto a diversi rischi rimane sostenibile”, ma il debito privato. Non tanto delle famiglie, che appaiono comunque fra le meno indebitate d’Europa, ma delle imprese.

Ne ho contezza grazie a un semplice procedimento artimetico: il numero di pagine dedicate alla questione del debito pubblico è assai inferiore rispetto a quelle scritte sui crediti dubbi che ancora campeggiano nelle pance delle banche e ai quali il Fmi dedica uno dei suoi selected issue, dove si prendono in esame alcune soluzioni di sistema per riparare i bilanci degli intermediari creditizi, visto che i non performing loans (NPLs) “al 17 per cento hanno raggiunto un livello sistemico, impedendo l’offerta di credito e limitano potenzialmente gli investimenti”.

Se infatti guardiamo al grafico che analizza l’offerta e la domanda di credito notiamo due cose: la prima è la scomparsa della domanda di credito, che segnala della scarsa propensione ad investire delle aziende italiane, ma anche l’inabissarsi dell’offerta. Comprensibile quando ballano circa 330 miliardi di crediti incerti. “infatti – nota il Fmi – gli investimenti privati reali sono caduti a un livello mai visto in 15 anni, rallentando drammaticamente il passo della ripresa e proiettando ombre sull’output potenziale”.

A ciò che si aggiunga che le sofferenze (in italiano nel testo) ammontano a più della metà di questi 330 miliardi. “La combinazione fra aziende sovra-indebitate, banche con bassi buffer di capitale e alti rischi, e un sistema legale che complica la ristrutturazione delle aziende e la lunghezza giudiziaria dei procedimenti e il sistema fiscale scoraggiano la svalutazione di questi Npls”, aggiunge il Fmi.

Questo ha avuto anche un pesante impatto sulle banche, che hanno visto diminuire la loro profittabilità proprio mentre la crisi ha fatto aumentare drammaticamente i crediti difficili. La conseguenza è che “malgrado la disponibilità di denaro a basso costo, le banche sono diventate molto più caute nel concedere crediti, specie per le piccole e media imprese”, ossia la grandissima maggioranza del nostro tessuto industriale.

Insomma: la diagnosi è chiara: l’abbuffata di debiti privati nel periodo pre crisi, unita al loro lievitare a causa della crisi, ha determinato che i “NPLs in Italia abbiamo raggiunto un livello sistemico”. Ciò malgrado il grosso di queste esposizioni dubbie sia concentrati su piccoli importi, oltre il 75%, infatti sono inferiori a 250mila euro, e tre quarti sono concentrati nel settore corporate, con un particolare concentrazione nel settore dei servizi e quello a bassa intensità tecnologica.

Questa riscrittura delle nostre emergenze nazionali mi sorprende non tanto perché non fosse nota, ma a cagione del fatto che sia ancora poco compresa. E soprattutto mi sorprende leggere che il Fmi giudichi come assolutamente necessario che il governo faccia “tutto ciò che è necessario” per arrivare a una soluzione. Come sempre i poteri pubblici, usualmente negletti, vengono invocati quando si tratta di riparare i danni fatti da quelli privati.

E le autorità, infatti, se ne sono fatte carico. Il Fmi si aspetta che entro la fine dell’anno arrivino dal governo proposte per la riforma del sistema delle insolvenze, mentre la Banca d’Italia sta lavorando a uno schema di supervisione per definire come e quando si debba arrivare a una svalutazione dei crediti dubbi. Il governo, inoltre, sta lavorando all’ipotesi di una asset management company (AMC), quella che la vulgata chiama bad bank, della quale però, nota il Fmi, “i dettagli non sono ancora noti”.

A tal fine, immagino, il Fmi elargisce alcuni suggerimenti, ricordando che “una soluzione potenziale bisogna sia onnicomprensiva dei diversi aspetti del problema”, che sono finanziari, economici e legali.

I problemi, infatti sono diversi e complessi. A cominciare dalla circostanza che “i potenziali e sostanziali gap sui prezzi (di questi crediti, ndr) conducono a disincentivi per le banche a svalutarli e venderli”. In quanto evidentemente, subirebbero perdite che non vogliono accollarsi. Anche perché “il trattamento fiscale penalizza le banche italiane che volessero svalutare più aggressivamente i crediti dubbi”.

Che fare dunque? Il Fmi nota che “ogni incertezza sulla qualità dei asset bancari italiani deve essere risolta”, magari coinvolgendo i regolatori che devono aiutare le banche a vedersela con questi crediti dubbi. E in tal senso sarebbe utile varare “forti disincentivi verso le banche che tengono questi crediti in bilancio”, accoppiandoli perciò a incentivi fiscali a liberarsene. Insomma, strategia “carota e bastone”, per usare le parole del Fmi.

Dulcis un fundo, una “AMC può altresì giocare un ruolo utile per sviluppare un mercato del debito incerto”. Meglio ancora, “una AMC centralizzata con alle spalle lo Stato può anche aiutare a far partire questo mercato”.

Sarà pure inefficiente l’amministrazione pubblica italiana. Ma quanno ce vo’, ce vo’.

(2/fine)

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Delusioni da QE: lo zero virgola italiano

Occuparsi del caso italiano, nella disamina degli effetti reali svolti dal QE (quantitative easing) sulle economie che ne hanno fatto uso, è parecchio istruttivo per la semplice constatazione che l’Italia è, fra i paesi europei, quella che è cresciuta di meno nell’ultimo ventennio e quella che ha patito di più dopo l’appalesarsi della crisi.

Come dire: se il QE funzionerà da noi, figuratevi che faville farà nel resto dell’Eurozona.

Purtroppo, non disponendo di una palla di vetro, devo accontentarmi delle previsioni, notoriamente imperfette, che diversi entità, a cominciare dalla Banca d’Italia, hanno elaborato per provare a quotare l’impatto che le politiche monetaria potranno avere sul nostro Pil.

Senonché, mentre mi decido a scrivere questo post, mi arrivano fresche fresche da Bruxelles le previsioni di primavera della Commissione, che con toni decisamente ottimisti, mi informano che la ripresa prende forza, e che addirittura per il 2015 per l’Italia si prevede un clamoroso +0,6, lo stesso che prevede l’Ocse, che non è ancora il +0,7 previsto dal governo nel DEF, ma è già più dello +0,5% ipotizzato da Bankitalia nell’ultimo bollettino economico, già rivisto al rialzo rispetto al +0,4 del penultimo bollettino.

L’Italia dello zero virgola, con differenze nelle previsioni che ricordano l’errore statistico mi appassiona parecchio. Specie quando leggo un po’ dappertutto che gran parte di questo progresso lo dobbiamo a Mario Draghi e al suo più che benvenuto QE.

Mi appassiona talmente, l’Italia dello zero virgola, che mi torna in mente la corposa audizione della Corte dei conti al DEF di poche settimane fa, e in particolare un agile paragrafo intitolato “Gli effetti sull’economia italiana del Quantitative Easing: opportunità e rischi”.

Alcuni ricorderanno che anche la Banca d’Italia ne ha preparato uno simile, nell’ultimo bollettino economico, a significare il gran dispendio di cervelli che il QE intanto ha provocato.

Dopo aver riepilogato qualità e quantità del QE, che qui vi risparmio, la Corte ha utilizzato il modello DSGE-Prometeia per stimare l’impatto macroeconomico dei 150 miliardi di euro di acquisiti di titoli di stato, pari al 9% del Pil, operati in gran parte dalla Banca d’Italia (130 miliardi su 20), che lo ricordo è un’entità pubblica, su una serie di variabile macro, fra le quali appunto il Pil, e ne ha ricavato una tabella.

La Corte ricorda che 79 miliardi di titoli verranno acquistati nel corso del 2015 e il resto nel 2016.

Giova sottolineare che come tutti i modelli, anche questo va preso con le pinze, anche se “il confronto con
analoghi esercizi effettuati per valutare gli effetti dei QE implementati negli US, in UK e in Giappone conforta sulla dimensione di tali effetti”.

Insomma, le previsioni sembrano ragionevoli.

I risultati, nell’arco del biennio, sono i seguenti: il rendimento dei titoli a lunga scadenza dovrebbe diminuire di 109 punti base, il tasso sugli impieghi delle imprese di 40 punti base. I prestiti alle imprese dovrebbero aumentare dello 0,57%, i consumi dello 0,14%, gli investimenti del 5,02.

Ricordo che dal 2007 gli investimenti italiani sono diminuiti del 30% (vedi grafico).

E il Pil?

Il Pil dovrebbe aumentare ulteriormente dello 0,69% rispetto alle previsioni. In due anni.

Un altro zero virgola per la nostra collezione.

(4/fine)

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Il QE non frena la galoppata del debito privato

Anche i più estenuati corifei dei vari quantitative easing dovranno farsi piacere un’antipatica evidenza che il Fmi sottolinea nel suo ultimo Global financial stability report: l’allentamento monetario non ha fatto diminuire la montagna di debito che grava sul nostro futuro. L’ha erosa qua e là, ma solo per spostarne il peso relativo da un punto all’altro del globo, e per certi versi l’ha incoraggiata. Ma il macigno è ancora fra noi, pesante e sempre più difficilmente gestibile.

Quel che è peggio, “guardando avanti, la crescita prevista sotto le attuali condizioni monetarie, sarà probabilmente insufficiente a ridurre il livello del debito significativamente”.

E quindi?

Semplice: il debito del nostro tempo rimane eterno. Ci costringe a rischiare sempre più il collo, come individui e come società, per riuscire a sostenerlo, e genera un costo che va ben al di là di quello rappresentato dagli interessi che matura ogni anno: è un costo che grava sulle potenzialità di crescita, sulla programmazione delle politiche economiche, sul welfare.

Viviamo, per così dire, sotto ipoteca, godendo schizofrenicamente ogni qualvolta una banca centrale affossa i rendimenti, come se ce ne venisse in tasca qualcosa oltre ai maggiori rischi che tali decisioni sussumono. E malgrado ce lo dicano pure a chiare lettere, come fa peraltro anche il Fmi, che stiamo vivendo molto pericolosamente.

Detto ciò, è sempre utile capire a che punto siamo, e a questo servono i rapporti internazionali. A tal proposito il Fmi nota che “le politiche monetarie accomodanti nelle economie avanzate hanno aiutato a ridurre il debito privato non finanziario supportando l’inflazione e la crescita e aumentando il valore degli asset”.

Ma è altresì vero che il disindebitamento non è avvenuto ovunque con le stesse modalità. In Europa si è proceduto attraverso pagamenti e/o svalutazione dei debiti. Nei paesi anglosassoni, dove il QE è cominciato anni fa, tramite l’accoppiata inflazione&crescita. E tuttavia nessuno dei due metodi sembra abbia funzionato pienamente: “L’indebitamento del settore privato rimane elevato in molte economie”.

I grafici proposti dal Fmi fotografano con bene questa evidenza. Negli Usa e in UK, dove il deleveraging è stato deciso, i debiti delle famiglie sono passati, rispettivamente, da circa il 90% e il 100% del Pil del 2008 al 90% e poco meno dell’80% del 2014. Quello delle imprese non finanziarie dal 70% e 100% del 2008, al 65% e 75% del 2014.

Nella zona euro le famiglie hanno raggiunto il loro picco di debito nel 2008 a poco sopra il 60% del Pil e da quel livello i ribassi sono stati minimi, mentre le imprese, che avevano superato il 100% del Pil ora stanno poco sotto.

In Giappone le famiglie si sono mosse poco dal loro circa 70% del pil di debiti e le imprese non finanziarie, che avevano raggiunto il 110% ora viaggiano intorno al 100%.

Se vi sembra poco…

In questo sostanziale fallimento delle politiche eccezionali, celato dall’euforia finanziaria delle borse, se ne nasconde un altro: “Guardando avanti – dice il Fmi – la crescita e l’inflazione previste sotto le attuali condizioni monetarie saranno probabilmente insufficienti a ridurre i debiti significativamente”.

In particolare, “Il deleveraging macroeconomico fino al 2020 potrebbe ridurre il debito di famiglie e imprese, ma in diverse economie non sarà sufficiente a liminare il peso dell’alto debito”. Anzi “alcune economie avanzate i cui debiti sono cresciuti bruscamente, è ancora probabile avranno un livello di debiti vicino al loro livello pre crisi.

Come esempio viene citato quello del debito lordo del settore corporate di Francia, Italia, Portogallo e Spagna, che “rimarrebbe sopra o vicino al 70% del Pil nel 2020 sulla base delle correnti previsioni su crescita e inflazione”.

Benvenuti nel futuro.

 

 

Il lato oscuro del petrolio low cost

Sempre perché è utile ricordare che una medaglia ha due facce, quando vi dicono che il calo del petrolio fa bene all’economia, ricordatevi che fa male all’altra metà del cielo, ossia alla finanza.

Se questa evidenza passa pressoché inosservata è perché il mondo ha bisogno di buone notizie, capaci di incrementare il buon umore, ossia l’unico antidoto alla crescente quantità di rischio che dobbiamo caricarci sulle spalle per scrollarci la pigrizia di dosso.

Ma il fatto che non se ne parli, col pretesto che è roba da azzeccagarbugli dell’informazione, non impedisce che tali malanni stiano covando sotto le nostre preziosissime terga. Solo che per conoscerli bisogna armarsi di pazienza e leggere roba noiosa come quella che pubblica il FMI nel suo ultimo Global financial stability report, dove un box titola proprio su “The Oil Price Fallout—Spillovers and Implications for the Financial Sector”.

Qui leggo ciò che a me pareva già evidente: ossia che non esistono pasti gratis nell’economia internazionale e tantomeno nella finanza internazionale. Ciò che fa bene ai paesi avanzati, che devono sborsare meno dollari per comprare il petrolio e quindi possono contare su un inaspettato miglioramento dei propri redditi, fa male a quei paesi che producono il petrolio.

Questo sul canale economico.

Su quello finanziario le complicazioni sono ancora maggiori.

Il primo esito che impensierisce il Fmi è l’amplificazione del rischio di credito per quei paesi e quelle compagnie che basano sul petrolio gli incassi energetici. In pratica costoro, molti dei quali notevolmente indebitati, hanno subito un riprezzamento del loro merito di credito da parte degli investitori. Che detto in parole povere chiedono loro più soldi per prestargliene a loro volta.

Per darvi un’idea di cosa ciò abbia comportato in pratica, basta ricordare che dall’estate 2014 gli spread sui bond denominati in dollari emessi dai paesi emergenti che hanno a che fare col petrolio sono quasi raddoppiati, il che rende assai più problematico per questi paesi gestire i loro debiti.

Chi come noi è fresco di spread alle stelle sa bene cosa ciò voglia dire.

Le valute di questi paesi, inoltre, hanno sperimentato pressioni al ribasso, complicando anche la gestione domestica dell’inflazione le cui aspettative, in diversi paesi emergenti, “risultano non bene ancorate”.

Il quadro peggiore se dai paesi sovrani si guarda la situazione delle corporation che agiscono nel settore energia, che hanno notevolmente aumentato il loro livello di indebitamento nella fase del  boom del prezzi delle commodity. “Storicamente – nota perfido il Fmi – i default nel settore corporate nel settore energia si sono verificati nella fase dei prezzi calanti”. E sarebbe strano il contrario, aggiungo.

Agli amanti dei numeri farà piacere sapere che il valore nozionale dei debiti del settore energetico, a livello globale, pesa circa 3 trilioni di dollari, 247 miliardi dei quali sono attribuibili al mercato americano delle obbligazioni ad alto rendimento, che è il modo elegante per dire che sono ad alto rischio.

Solo nel 2014, l’emissione di prestiti sindacati nel settore dell’oil e del gas ha raggiunto i 450 miliardi di dollari, pari al doppio del precedente picco del 2007, con una percentuale di prestiti leveraged, ossia ad alto rendimento perché altamente rischiosi,  passata dal 17% del 2006 al 45% del 2014.

Risulta peraltro che la maggior parte della banche considerate sistemicamente globali (GSIs) abbia nei suoi libri una quota che oscilla dal 2 al 4% di esposizione verso il settore energetico. “Un prolungato ribasso dei prezzi petroliferi, avverte il Fmi – può rendere complicato la capacità di servire il debito” e in ultima analisi la loro operatività.

Il costo del petrolio insomma impatta su chi ha finanziato i petrolieri.

A questo canale di potenziale instabilità, se ne aggiungono altri.

Le riserve dei paesi esportatori sono aumentate di 1,1 trilioni, quintuplicandosi, nell’ultimo decennio. Questa montagna di carta è diventata una componente rilevante della liquidità globale. Ossia una delle fonti alle quali si abbeverano per il loro funding il settore bancario globale e i mercati dei capitali.

Per darvene un’idea, i depositi bancari dei paesi esportatori, secondo i dati della BIS, sono più che raddoppiati dal 2004 al 2014, arrivando a 974 miliardi di dollari, e adesso detengono asset finanziari per oltre 2 trilioni di dollari, suddivisi fra equity (1,3 trilioni) Treasuries (580 miliardi), credito (230 miliardi) e agency debt (21 miliardi).

Bene, nel 2014 le riserve dei paesi esportatori sono diminuite di 88 miliardi e questo trend sembra confermato per il 2015. Ciò, osserva il Fmi, pure se appartiene al normale processo di riequilibrio in corso, può creare problemi. Specie considerando che il settore Oil e in generale delle commodity ha da tempo attirato per i suoi rendimenti l’attenzione dei cosiddetti investitori istituzionali, quindi ad esempio i fondi pensioni, che si stima abbiano in pancia il 45% dei future sul WTI, ossia il triplo di quanti ne detenevano nel 1990.

Quindi il costo del petrolio impatta anche su chi gestisce, per dire, i soldi dei futuri pensionati.

Sempre contenti che il petrolio cali?

La tremarella globale e la coperta corta della crescita

Come in un riassunto delle puntate precedenti, il Fondo monetario internazionale collaziona i peggiori tremori globali dovendosi occupare di redigere la nuova edizione del Global financial stability report.

Chi come me, per mestiere o per diletto, passa il tempo a leggere i resoconti preoccupati che arrivano da tutte le parti del mondo sulla situazione della finanza internazionale, della liquidità, dei mercati a reddito fisso o valutario, leggerà l’ennesimo monito del Fmi come una stanca ripetizione di circostanze note, che i compilatori del rapporto devono mettere insieme per dovere d’ufficio. E forse non ha tutti i torti.

Il fatto però è che il Fmi non fa filosofia, o almeno non ne fa più di tanto: incrocia dati statistici con modelli econometrici e ne trae previsioni e stime. Perciò quando si arriva alla conclusione che “gli sviluppi degli ultimi sei mesi hanno aumentato i rischi per la stabilità finanziaria globale”, possiamo solo fare due cose: ignorare l’allarme o toccare scaramanticamente ferro.

Qualcuno si stupirà che tale aumento di rischi coincida col migliorare delle previsione di crescita, che lo stesso Fmi ha pubblicato nel suo World Outlook più recente, persino per la povera e vecchia Eurozona. Ma in realtà non dovrebbe: le migliori previsioni di crescita sono la contropartita dell’aumentato rischio finanziario. Nessuno sfugge alla regola generale della finanza, forse l’unica che valga realmente, ossia che per aumentare i rendimenti bisogna rischiare di più. Chi non risica non rosica, dice il proverbio. Vale per ognuno di noi, ma anche per il mondo nel suo insieme.

Per avere più rendimento perciò, ossia più crescita, il mondo deve rischiare di più, sperando che la crescita non si riveli una coperta troppo corta per proteggerci dalla tremarella che tutti questi rischi provocano in ognuno di noi.

Tutto qua.

Sicché a me, che sono cresciuto a pane e allarmi, quelli del Fmi, pure se fatti per dovere d’ufficio, mi sembrano il prezzo ipocrita che il mondo economicizzato paga al suo senso di colpa, e come tali li considero: utili a comprendere ma insinceri ab imis fundamentis. Se fossero sinceri, questi almanacchi, dovrebbero confessare che l’instabilità è intrinseca nell’idea economica che essi stessi propagandano.

Se decido di parlarvene qui, è solo perché questo blog è la testimonianza del cronicario economico nel quale ognuno di noi vive. Questi rischi, quindi, ci riguardano personalmente e credo che conoscerli possa servire a salvare la pelle, o almeno a farsi meno male quando il redde rationem arriverà, come è sempre arrivato.

Tutto quello che c’è da sapere, o meglio da ricordare, sta scritto nell’excutive summary del documento che vi sommarizzo per punti, riservandomi gli approfondimenti per altri post.

La premessa dice già tutto: “Un ampio raggio di sviluppi macroeconomici, positivi e negativi, e finanziari si sono verificati nei sei mesi trascorsi. Al netto, questi sviluppi hanno aumentato i rischi per la stabilità finanziaria”.

Quindi stiamo rischiando di più per spuntare qualche decimale di crescita. Mi chiedo se avessimo alternative.

Di positivo c’è che i vari QE, non ultimo quello europeo, dovrebbero spingere il prodotto e insieme sconfiggere il baubau deflazionario che tutte le banche centrali dicono di voler debellare. Tale miracolo dovrebbe avvenire tramite una serie di canali, a cominciare da quello del credito.

Ma poiché il rapporto si occupa di stabilità finanziaria, ecco che il lato oscuro della forza (del QE) viene rappresentato con maggior nitidezza.

Un’altra affermazione rivela un dettaglio che molti trascurano: “Malgrado i benefici siano abbastanza ben distribuiti, gli impatti avversi dei recenti shock hanno avuto conseguenze su settori o economie già fragili. Nel frattempo le continue prese di rischio e i cambiamenti nei mercati del crediti hanno spostato il rischio dalle economie avanzate a quelle emergenti, dalle banche alle banche ombra, dai rischi di solvency a quelli di liquidità“.

Insomma: siamo inseriti in un gigantesco gioco delle tre carte. E conosciamo tutti chi sia il mazziere.

La questione monetaria, con i tassi ormai stabilmente in territorio negativo, ha chiare conseguenze per molti settori finanziari, a cominciare da quello assicurativo, e in particolare per quello europeo.

Solo per darvi un’idea, gli stress test assicurativi svolti dall’Eiopa (European Insurance and Occupational Pensions Authority) mostrano che il 24% degli assicuratori dell’area potrebbe non essere in grado di raggiungere i suoi requisiti di solvency in caso di prolungata durata di uno scenario di tassi bassi. Tale industria, ricorda il Fmi, gestisce 4,4 trilioni di asset nell’eurozona con crescente e profonde interconnessioni col resto del mondo.

Il QE, insomma, ci scava la fossa nel momento stesso in cui la riempie di euro.

Poi c’è la questione del debito privato, che si è sì ridotto, ma rimane alto e lo rimarrà ancora a lungo. Per dire: il Francia, Italia, Portogallo e Spagna si prevede che il debito corporate lordo rimarrà nell’ordine del 70% del Pil almeno fino al 2020, e quello delle famiglie, in UK e in Spagna, bel al di sopra.

Poi ci sono gli Stai Uniti, certo, con le loro indecisioni monetarie che rischiano di scaricare sui paesi emergenti, come è sempre successo ancora di recente, il costo dell’apprezzamento del dollaro, visto che costoro hanno emesso debito denominato in valuta estera, per lo più americana, a rotta di collo.

E che dire della Cina che già non si sappia? Magari che l’esposizione al settore del real estate, esclusi i mutui, è arrivata al 20% del Pil, o che magari “11 dei 21 paese emergenti monitorati settori bancari mostrano una notevole dipendenza dai crediti concessi al settore corporate”.

O magari, che il calo del petrolio ha reso i paesi esportatori, gonfi di debiti da ripagare, assai più fragili, e che tale fragilità inizia a fibrillare in Argentina, come in Brasile, con in Sudafrica o Nigeria.

Tutte queste circostanza hanno in comune rendere molto dipendenti dal funding estero questi paesi, le ex grandi speranze dell’Occidente, divenute ora la grande Minaccia Emergente.

Ma non sono solo le complicazioni dell’economia internazionale a preoccupare il Fmi. E’ l’infrastruttura stessa della finanza che è pericolosa, con i suoi sistemi ombra, le gravi crisi di liquidità alle quali si assiste di tanto in tanto, i cambiamenti profondi che abbiamo visto stanno intervento nei mercati.

Di fronte a questo scenario il Fmi consiglia prudenza, temperanza e moderazione.

Tutto il contrario della realtà

 

 

L’irresistibile avanzata dell’asset management

Per quanto tendiamo a dimenticarlo, a fronte dell’incredibile montagna di debiti che il mondo ha cumulato esiste, uguale e contraria, una montagna di crediti che in quanto tale, richiede di essere gestita per originare rendite.

Quest’attività, che ormai ha generato un’industria globale, del tutto al di fuori del circuito bancario tradizionale, ormai è diventata una delle componenti fondanti del sistema finanziario, tanto che il Fmi, nel suo ultimo Global financial stability report, ha reputato necessario dedicarle un approfondimento, limitandolo peraltro solo a un segmento: l’asset manegement.

In particolare, nel settore non vengono inclusi i fondi pensione e le compagnie di assicurazione, comprendendo quindi genericamente i veicoli di investimento come i mutual funds, gli exchange traded funds, i money market funds, i private equity funds e gli hedge funds.

Bene, questa pletora di intermediari, che lavorano al fresco dello shadow banking gestiscono masse di risorse ormai per 76 trilioni di dollari, pari al 100% del Pil mondiale. Se vi sembra una cifra eccezionale, considerate che stiamo parlando solo del 40% del totale degli asset finanziari che girano per il mondo, che quindi possiamo quotare circa 190 trilioni di dollari, circa il 250% del Pil mondiale.

Il fatto che il Fmi si occupi dell’asset management, al di là dei valori assoluti che pure son rilevanti, dipende dalla circostanza che queste entità, insieme con i numerosi e dichiarati vantaggi che derivano dal loro operare, rappresentano anche un notevole rischio sistemico.

I più vecchi ricorderanno il disastro provocato dal crack del Long Term Capitale management nel ’98, uno di quegli hedge fund, che tuttora rappresentano una piccola quota dell’asset management, circa il 3% del totale, senza che ciò impedisca loro di mettere a repentaglio il sistema globale.

Se guardiamo ai dati storici, si può notare come la straordinaria crescita di quest’industria si sia concentrata sostanzialmente nell’ultimo decennio. Ancora nel 2002 l’asset management gestiva meno di 40 trilioni di dollari, a livello globale. Ma già dall’anno successivo l’industria conobbe il primo boom, portandosi quasi a 50 trilioni.

Nel 2007, anno del picco prima della crisi, le masse gestite sono arrivate a 70 trilioni, per poi crollare poco sopra 50 nel 2008.

Ma la crisi ha fatto bene all’industria. Nel 2009 il totale era già superiore ai 60 trilioni e da lì, salvo un leggero ritracciamento nel 2011, la crescita non si è più fermata. Fino ad arrivare all’ultimo dato disponibile, relativo al 2013, di 76 trilioni. Oggi saranno di sicuro di più

Il Fmi nota anche come gran parte di questo sviluppi, nell’ultimo decennio, sia stato concentrato nelle economia avanzate. Da soli, Canada, Germania, Irlanda, Giappone, Lussemburgo, Stati Uniti e Regno Unito hanno masse gestite per oltre 25 trilioni, nel 2012.

Interessante anche notare come il 41% di questa montagna di denaro sia investito in prodotti finanziari plain vanilla, ossia a strutturazioni standard e non esotica, per lo più tramite l’adesione con mutual funds open end, a fronte di un altro 36% che invece viene gestito privatamente con  separate accounts.

Il Fmi nota inoltre come l’attività di queste entità, e in particolare dei mutual funds, sia fortemente cresciuta dopo la crisi. E al contempo come questo abbia aumentato anche i rischi per la stabilità finanziaria. E basta una semplice constatazione per capire perché: “Al momento – spiega il Fmi – gli asset gestiti dalle più grandi compagnie di asset management sono grandi quanto quelli gestiti dalle grandi banche e mostrano simili livelli di concentrazione”.

A questo livello è assai facile fare danni. Anche i prodotti plain vanilla, che pure dovrebbero rassicurare per la loro semplicità, “sono esposti a rischi di liquidità”, nota il Fmi. Quanto al settore più rischioso, basta ricordare oltre al già citato caso LTCM, il comportamento di alcuni fondi monetari all’esplodere della crisi del 2008.

Ma, aldilà delle tecnicalità, che pure abbondano, sono le relazioni pericolose delle compagnie di asset management a suscitare l’attenzione del Fmi. Queste ultime (AMCs) sono in larga parte (16 su 25 top AMCs) possedute dal banche e assicurazioni, ossia dall’altra metà del cielo del sistema finanziario e, come nota il Fmi “le implicazioni sulla stabilità di questi accordi sono poco chiari”. A cominciare dalla circostanza che i fondi raccolti dai gestori, in assenza di norme apposite, possono essere utilizzati come veicoli per il funding della banche “parenti”. Ossia una raffinata elusione del rischio di trasformazione, inerente alla tipica attività bancaria, che si indebita a breve e presta a lungo, facendolo passare per un gestore di fondi, che si indebita a lungo.

Non a caso “i mutual funds sono il più importante provider di finanziamenti a lungo termine per le banche negli Stati Uniti”.

Come si vede, la linea di confine fra banche ombra e banche normali si assottiglia, quando i volumi delle transazioni crescono. In questo raffinato gioco delle tre carte è chiaro chi vince.

Noi di sicuro no.

 

 

 

 

 

Le nozze d’argento fra ex comunisti e capitalisti

Son passati venticinque anni dal 1989, e sembra lo ricordi solo il Fmi, che ha festeggiato le nozze d’argento fra ex comunisti e capitalisti con un agile volume che racconta l’epopea dell’ex blocco sovietico dalla caduta del muro in poi. Val la pena leggerlo, vuoi perché riporta tanti di noi a una bella e ormai lontana giovinezza, che ci fece sperare improvvisi rivolgimenti nel mondo, e poi perché ci accompagna fino alla maturità di oggi, quando abbiamo capito che il mondo, a differenza nostra, non cambia.

Fuor di metafora, l’idillio ormai è datato e val la pena fare un bilancio, come usa nella vita vera. Se non altro perché ci avevano detto che il matrimonio sarebbe stato d’amore, non certo d’interesse, quando già dall’indomani della caduta del muro fu evidente a tutti che era vero il contrario.

La riunificazione dell’Europa, della quale quella tedesca fu la migliore rappresentazione, iniziò a misurarsi sin d’allora col metro del pil pro capite, magari misurato a parità di potere d’acquisto che, a differenza di quello quotato col metro della valuta, ha il pregio di raccontare con maggiore precisione delle condizioni di vita dei diversi paesi, atteso che, nell’economania imperante, il potere d’acquisto fa la differenza fra chi sta bene e chi vivacchia.

Sicché leggo che molta strada è stata fatta sul versante della convergenza, ma di più ne rimane da percorrere. In Polonia, per dire, il pil procapite all’inizio del percorso di convergenza, era un terzo di quello della Germania Ovest. Ora, allo scoccare delle nozze d’argento, vale circa la metà. Il coniuge più povero, insomma, si arricchito, ma ancora sta nella parte bassa della catena alimentare. E poiché il coniuge più ricco si è arricchito anch’egli, e forse pure di più, viene da chiedersi quanto abbia giovato a noi occidentali e capitalisti poter disporre di tanti poveri ex comunisti per celebrare felicemente il rito economico della contemporaneità.

Ma qui voglio solo narrarvi, seguendo il filo tracciato dal Fmi, cosa sia accaduto in questi 25 anni. I paesi oggetti del rapporto sono i Baltici (Estonia, Lettonia e Lituania), quelli dell’Europa centrale (Repubbica Ceca, Ungheria, Polonia, Slovacchia e Slovenia, quelli del Caucaso e dell’Asia centrale (Moldova, Federazione Russa, Bielorussia e Ucraina), quelli dell’Europa sud-orientale entrate nell’Ue (Bulgaria, Croazia e Romania) e quelli dellla stessa area fuori però dall’Ue, Balcani compresi (Albania, Bosnia Erzegovina, Kosovo, Macedonia, Montenegro e Serbia).

La prima circostanza che salta all’occhio, osservando gli sviluppi macroeconomici del primo periodo, è che il costo del matrimonio lo pagò il coniuge più povero, evidente ben disposto (o quantomeno costretto) a fare i necessari sacrifici pur di entrare nel club dei paesi moderni. In termini di prodotto ci sono voluti dieci anni per tornare alla crescita zero dopo un picco di calo aggregato che ha toccato il 10% medio per l’intero gruppo dei paesi, fra il 1991 e il ’93, con punte del 25% per i paesi Baltici.

Peraltro, il crollo dei vari Pil si accompagnò con rialzi fuori misura dell’inflazione, ove non direttamente iperinflazione, in gran parte dei paesi dell’est, costretti a confrontarsi d’improvviso con i prezzi di mercato che le pianificazioni sovietiche avevano tenuto dietro la cortina di ferro. Nei paesi sud orientali l’inflazione arrivò al 160% fra il ’96 e il ’98, dovendo altri paesi, Russia in testa, fare i conti con i cascami della crisi asiatica del ’97.

I primi anni duemila, tuttavia, digerita la transizione, furono quelli della crescita, che in media arrivò a sfiorare il 6%, con punte del 10% nei paesi Baltici, fino a quando, dal 2007 in poi, i torbidi internazionali non ricordarono agli ex comunisti che le loro fortune erano appese al tenuissimo filo dell’ottimismo occidentale.

Scoprirono così, i poveri, che il coniuge indulgeva alla ciclotimia tipica dei ricchi, che avendo troppo, perdono altrettanto quando il clima muta di stagione. Sicché i sistemi finanziari di questi paesi, verso i quali le ricche banche occidentali avevano indirizzato un flusso di finanziamenti che aveva raggiunto la non modesta cifra di 450 miliardi di euro, si trovarono a dover gestire importanti deflussi capaci di terremotare non solo le loro economie, ma anche quelle dei paesi più ricchi.

Ne scaturì la Vienna initiave, così intitolata prendendo spunto da un vertice tenutosi a Vienna a gennaio del 2009, che si proponeva di coordinare la ritirata dei capitali occidentali da quelle piazze pericolose in maniera ordinata. Vale la pena notare come la Vienna iniative sia stata replicata nel 2012, dopo che l’eurocrisi aveva riacceso i timori derivanti dai rischi di un deleveraging disordinato.

Sicché nel 2009 il prodotto tornò a declinare in media del 6% con punte del 18, “un impatto più severo – nota il Fmi – che in ogni altra regione al mondo”.

L’arrivo dell’eurocrisi ha reso la ripresa altalenante, e le attuali tensioni geopolitiche fra Russia e Ucraina, ha pure peggiorato l’outlook, impattando sia sulla sostenibilità fiscale di molti stati, che sulla loro posizione estera.

Tuttavia, malgrado gli alti e i bassi, nel venticinquennio trascorso il Fmi nota compiaciuto la “forte convergenza” dei paesi dell’ex blocco sovietico con quelli occidentali dell’Europa. In media il pil pro capite è cresciuto dal 30% della media Ue a 15 al 50% di oggi, anche se, ammette, tale media nasconde importanti differenze all’interno dei singoli paesi. Tutto merito, manco a dirlo, dell’ampio processo di riforme strutturali che i vari paesi, anche qui con differenze importanti, hanno realizzato in questo quarto di secolo.

L’impatto sociale di questa rivoluzione, nota il Fmi, “è stato profondo”. Le popolazioni ex comuniste hanno dovuto patire, e non poco, la transizione da un sistema in cui il lavoro era garantito a uno dove la logica del mercato ha fatto esplodere la disoccupazione fino a quando le riforme del lavoro e del mercato non hanno iniziato gradualmente a riassorbirla. Fanno eccezione i paesi dei Balcani occidentali dove la disoccupazione è rimasta molto elevata durante tutto il periodo.

Ma forse l’indicatore che meglio fotografa quanto abbia patito la popolazione è quello che misura l’aspettativa di vita. In molti paesi tale indice è rimasto stagnante per numerosi anni, in altri, e segnatamente in Bielorussia, Moldova, Russia e Ucraina, è addirittura diminuito, confermando che il capitalismo allunga la vita solo a coloro che possono permetterselo.

Altrettanto, sono esplosi gli indici di disuguaglianza. Dall’era socialista, dove gli indici di Gini erano estremamente bassi, nel range 18-26, si è passati a range 26-42, ossia al livello dell’Ue a 15, quindi ante rivoluzione. Ma anche qui, le media nascondono ampie differenze.

Se proviamo a guardare avanti, immaginando come saranno i prossimi venticinque anni, il Fmi ci dice soltanto che questi paesi devono ancora fare i conti con le necessarie riforme strutturali e con un’attento monitoraggio della stabilità macroeconomica e finanziaria. Sono un po’ come dei Piigs, ma di serie B.

Forse arriveremo a celebrare le nozze doro, fra ex comunisti e capitalisti. Ma la parità fra i coniugi, nell’Europa prossima ventura, è ancora una speranza lontana.

E chi campa di speranza…

Il Fmi cala il jolly degli investimenti pubblici

In una partita a carte che si sa disperata arriva prima o poi il momento in cui è necessario tirar fuori il jolly, ossia la carta magica che trasforma la realtà del gioco a vantaggio di chi la usa.

Senonché, a differenza di una partite di carte, quella giocata dall’economia internazionale porta con sé una complicazione: chi vorrebbe il jolly non ce l’ha e chi ce l’ha non vuole usarlo. Perciò al mazziere, che nel nostro gioco viene interpretato dal Fondo monetario internazionale, non rimane che sottolineare gli enormi vantaggi che si possono trarre dall’uso del jolly, specie quando, come succede con la nostra economia, la partita minaccia di essere vagamente truccata.

Il jolly del Fmi si chiama investimenti pubblici in infrastrutture. La moral suasion è contenuta in uno dei capitoli dell’ultimo World economic outlook che si intitola, retoricamente “Is it time for an infrastructure push? the macroeconomic effects of public investment”.

Retoricamente perché la risposta implicita è ovviamente un sonoro sì. Addirittura, per non farci mancare niente, il Fmi produce anche una stima secondo la quale un paese tipo, purché sia un’economia avanzata, avrebbe un guadagno di Pil pari allo 0,4% il primo anno se investisse l’1% di pil in infrastrutture pubbliche, che poi arriverebbe all’1,5% quattro anni dopo, con indubitabile benefici sul rapporto debito/pil. Un affarone, insomma. Che stiamo aspettando?

Il Fmi, inoltre, ricorda che il deficit infrastrutturale non è solo un problema delle economie avanzate. I paesi emergenti, che pure dispongono di ampi spazi fiscali, sono quelli che più di altri beneficierebbero di ampi investimenti pubblici. E ciò non potrebbe che far ripartire la crescita mondiale, che sempre le previsioni del Fmi rivedono continuamente al ribasso.

Il fatto è che non è tutto oro ciò che riluce e il Fmi non si perita di ricordarcelo. Molte economia avanzate hanno solo un piccolo spazio fiscale per regalarsi investimenti così costosi. E anche il basso costo del denaro, che da un lato incentiva tale politica, deve fare i conti con l’annunciata volontà di alcune banche centrali di iniziare a normalizzare la politica monetaria. Inoltre la letteratura non è concorde circa gli esiti moltiplicativi degli investimenti pubblici e la loro capacità di ripagarsi. Come insegna il caso giapponese, non a caso espressamente analizzato nell’analisi del Fmi.

Rimane il fatto che lo stock di capitale pubblico destinato agli investimenti in infrastrutture è costantemente declinato dal 1970 in poi. Così siamo arrivati al punto che, oltre agli emergenti, anche paesi come la Germania e gli Stati Uniti soffrono di un grave deficit infrastrutturale che solitamente non è un buon viatico per la crescita del prodotto.

Ciò malgrado le analisi econometriche del Fmi individuano chiari effetti macroeconomici positivi, sia per il prodtto che per il debito, dall’investimento pubblico.

Ma anche qui ci sono alcuni importanti caveat da non ignorare. Ilmodello mostra che gli investimenti pubblici hanno effetti positivi in periodi di bassa crescita, che possono arrivare all’1,5% subito e al 3% nel medio termine, mentre in periodi di alta crescita gli investimenti pubblici producono un effetto sul prodotto praticamente nullo.

Tali effetti, tuttavia, sono assai più visibili in paesi che hanno un livello elevato di efficienza negli investimenti pubblici. Qui infatti la crescita del prodotto potrebbe essere dello 0,8% il primo anno e fino al 2,6% negli anni successivi. Al contrario nei paesi a bassa efficienza si oscilla fra un risicato 0,2% e un massimo dello 0,7 nel medio periodo.

Quest’avvertenza rima con un’altra: i paesi a bassa efficienza degli investimenti pubblici sono quelli che più spesso hanno una maggiore sofferenza fiscale.  Con l’aggravante che un paese efficiente vedrà diminuire il suo debito pubblico, in conseguenza degli investimenti, al contrario di quanto accade per un paese con scarsa efficienza.

Ve la faccio semplice: la Germania avrebbe tutto da guadagnare a spingere sul pedale degli investimenti pubblici, l’Italia non sembra proprio. E tuttavia le cronache ci raccontano della ritrosia tedesca a spendere i suoi ampi surplus per investimenti pubblici e della litania italiana di aumentare gli investimenti pubblici per uscire dalle secche della crisi. Il che la dice lunga sull’utilità di queste analisi.

Meglio perciò affidarsi alle analisi empiriche, osservando quello che è successo in Giappone, che certo non si può sospettare di inefficienza.

Il Fmi nota che molti individuano nell’ingente mole di investimenti pubblici effettuati dopo la crisi di fine anni ’80 la causa principale del forte indebitamento attuale nonché del decennio perduto degli anni ’90, visto che tali investimenti, per quanto corposi, non sono riusciti a generare una crescita sufficiente del prodotto e frenare la deflazione.

Ma il Fmi non concorda.  “E’ vero – scrivono – il Giappone aumentò gli investimenti pubblici nei primi anni ’90, ma l’aumento della spesa pubblica è stato concentrato sul finanziamento della spesa sociale a causa dell’invecchiamento della popolazione”. Per la cronaca, lo stato incrementò la spesa pubblica dell’1,5% a inizio dei Novanta, per arrivare al picco dell’8,6% nel 1996. “Ma dopo la spesa pubblica per investimenti ha continuato a declinare, riprendendosi solo dopo il terremoto del 2011 e l’inizio dell’Abenomics”.

“Nei vent’anni dopo il 1992 – sottolinea il Fondo – l’ultimo anno in cui il Giappone ha registrato un surplus fiscale, la spesa sociale è aumentata del 10,6% e gli investimenti pubblici sono declinati del 2,3%”. Ciò a fronte di annunci ridondanti di piani di investimento che, nei fatti, hanno prodotto ben poca cosa.

Dal che deduciamo un’altra conseguenza teorica: la spesa per il welfare è sostanzialmente inefficiente, dal punto di vista del prodotto. Il che fa il paio con lo spirito del tempo, che vuole il welfare un problema delle economie e non più un’opportunità.

Per essere produttivo, poi, l’investimento deve rispondere ad alcune precise caratteristiche. Innanzitutto deve essere indirizzato verso progetti con un alto indice di costi/benefici e, soprattutto deve essere fiscalmente sostenibile. In caso contrario la spesa pubblica si trasforma in deficit e non spinge la crescita.

Quindi alla domanda se sia il momento giusto per rilanciare gli investimenti pubblici la risposta è assai semplice: si.

Forse.