Etichettato: banche

L’ascesa dei merca(n)ti dei capitali

Mentre le banche, rese ormai timorose dai rimbrotti e addomesticate dai regolatori, retrocedono, la seconda decade del XXI secolo si segnala per un’altra circostanza storica, fra le tante che contribuiscono a fare del nostro un tempo meraviglioso: l’ascesa dei mercati del capitale. O dei mercanti, sarebbe più giusto dire, visto che costoro altro non fanno che collocare denaro laddove conviene per estrarne altro.

Lo fanno anche le banche, certo, e in particolare quelle che basano sul trading la loro attività di business. Ma la banca, vocazionalmente, è un intermediario che dà credito anche alla sedicente economia reale. I mercati dei capitali, al contrario, vocazionalmente, fanno semplicemente girare i soldi e così facendo hanno ampliato, pur replicandola, la funzione bancaria dell’intermediazione creditizia. E per di più lo fanno senza esser soggetti ai sempre più stringenti controlli regolamentari e seguendo come unica bussola l’interesse dei creditori, che loro affidano le risorse chiedendo sempre più rendimenti in cambio.

E poiché i debiti sono tanti nel mondo, e quindi anche i crediti, ecco che gli asset manager, ossia i mercanti dei capitali, sono diventati una delle categorie più sistemiche delle nostre economie. Tanto che la Bis, nella sua ultima relazione annuale, li ha giudicati meritevoli di un approfondimento che trovo interessante condividere con voi quale utile stimolo di riflessione, oltre che di informazione.

La premessa è che che le banche, dopo la grande paura seguita al 2008, hanno notevolmente ridimensionato la loro attività sul mercato dei capitali. Alcune hanno deciso di tornare a concentrarsi sul settore retail. Altre, dovendosi ricapitalizzare sulla spinta dell’irrigidimento regolamentare, hanno capitalizzato gli utili e quindi ridotto i prestiti. Altre ancora hanno trovato più conveniente dedicarsi ad attività core.

La conseguenza è stata che “l’intermediazione finanziaria per il tramite dei mercati ha guadagnato terreno. La crescita del settore del risparmio gestito ne è un esempio lampante”.

Metteteci pure che molte imprese hanno trovato più conveniente chiedere soldi al mercato, tramite prestiti obbligazionari, piuttosto che alle banche, le quali, oltre ad essere alquanto restie, non riuscivano a collocare i prestiti a un prezzo conveniente per il sottoscrittore, avendo una struttura dei costi di sicuro meno efficiente rispetto ai mercanti dei capitali.

Sia come sia, il fatto è che gli asset manager sono diventati dei pezzi grossi. “Poiché sono responsabili dell’investimento di ampi portafogli mobiliari, gli asset manager possono avere un impatto significativo sul funzionamento del mercato, sulle dinamiche dei prezzi delle attività e, in definitiva, sui costi di finanziamento di amministrazioni pubbliche, imprese e famiglie”.

Sono diventati i nuovi dèi che arbitrano (nel senso di arbitraggio) le nostre sorti. Quindi dovremmo amarli e rispettarli, come insegna la libretta.

Qui ci accontentiamo di conoscerli.

“Le società di asset management (asset management companies, AMC) – spiega la Bis – gestiscono portafogli di titoli per conto degli investitori finali, sia al dettaglio sia
all’ingrosso. Esse investono il risparmio delle famiglie e le eccedenze di liquidità delle piccole imprese, ma anche somme ingenti per conto di investitori istituzionali,
come fondi pensione pubblici e privati, compagnie di assicurazione, tesorerie aziendali e fondi di ricchezza sovrani”.

Nella estrema diversità delle forme contrattuali che legano gli asset manager con i loro clienti, tutte le AMC hanno una caratteristica pressoché comune: “Nella maggior parte dei casi, le AMC non mettono a rischio il proprio bilancio nella gestione di detti patrimoni. Offrono invece, a fronte di una commissione, economie di scala e di scopo sotto forma di competenze nella selezione dei titoli, nell’esecuzione e nel timing delle transazioni, nonché nell’amministrazione dei portafogli”.

Traducendo, si potrebbe dire che non rischiano nulla. Si limitano a far girare i soldi degli altri, a guadagnarci (e a far guadagnare) quando va bene e far perdere (i clienti) quando va male, ma spuntandoci comunque le loro brave commissioni.

Vi sono tuttavia alcune eccezioni che la Bis molto opportunamente ci ricorda.

Quella più vistosa è quella degli hedge fund, che investono assai rischiosamente (promettendo rendimenti adeguati) ma rischiando anche di proprio ed ottenendo remunerazioni sulla base delle performance.

“Una forma nascosta di leva finanziaria riguarda in maniera analoga le rassicurazioni implicite fornite dai fondi monetari sulla preservazione del capitale”. I fondi monetari, per chi non lo ricordasse, sono entità dove usualmente viene parcheggiata la liquidità e una delle componenti più rilevanti del mercato dei finanziamento all’ingrosso (wholesale funding) dove attingono a piene mani i vari sistemi bancari-ombra grazie ai quali i mercanti dei capitali prosperano. Questi fondi monetari vengono percepiti come parcheggi sicuri, e infatti offrono rendimenti assai contenuti. Peccato che l’esperienza abbia insegnato il contrario.

Questo scenario ci aiuta a contestualizzare i dati, che mostrano come dal 2002 al 2012, dove si ferma la seria della Bis, gli attivi del settore (che contempla 500 gestori aggregati) sono quasi raddoppiati, collocando ormai intorno ai 70 trilioni di dollari, un po’ sotto il livello raggiunto nel 2007, prima dell’armageddon, quando crollarono poco sopra i 50 trilioni. La crisi ovviamente non poteva risparmiare questi soggetti che alimentano e nuotano nel mare della liquidità.

A differenza delle banche, però, già dal 2009 le AMC si erano riprese. Le masse gestite avevano già superato i 60 trilioni e da lì hanno continuato a crescere. E soprattutto, è cresciuta la concentrazione di questi soggetti.

La Bis ha calcolato che i primi 20 gestori gestiscono quasi il 30% di questa montagna di soldi. Parliamo quindi di oltre 20 trilioni di dollari nella disponibilità di 20 società private.

“La concentrazione è massima al vertice, dove un ristretto gruppo di operatori domina le classifiche. Molte di queste AMC sono affiliate e/od operano all’interno dello stesso gruppo di grandi istituzioni finanziarie di rilevanza sistemica”. Ossia hanno dietro grosse banche che, improvvisamente, rispuntano come funghi. Lo shadow banking ha sempre bisogno del banking per funzionare, questo è chiaro.

Capite bene che razza di potere rappresentino questi gestori, in un mondo affollato di debitori in costante ansia da roll over come il nostro. E tuttavia, tale potere è ignoto al grande pubblico, come ben si addice una divinità, che si manifesta celandosi.

La Bis sottolinea come tale ascesa presenti vantaggi e svantaggi. Fra i primi la possibilità per chi cerchi credito di disporre di un canale alternativo a quello bancario, e ciò spiega perché il peso relativo dei mercanti di capitale sia cresciuto rispetto alle banche, e poi la circostanza che gli AMC attingano da varie fonti, e non soltanto ai risparmiatori, li espone a minori rischi di rimanere a secco.

Ma lo svantaggio è altrettanto evidente: “Il nesso fra incentivi e obiettivi che influenza le scelte delle AMC può incidere negativamente sulle dinamiche del mercato e sui costi di finanziamento dell’economia reale. I gestori di portafogli sono valutati sulla base dei risultati di breve periodo, e i ricavi sono legati alle oscillazioni dei flussi di
capitali dei clienti”.

Detto in altre parole, i mercanti di capitali esacerbano e aggravano il difetto principale della finanza contemporanea: la visione focalizzata sul breve e brevissimo periodo, oltre ad essere ostaggio di se stessi, come si è visto nel 2008.

Ma sarebbe strano il contrario. Se, vale a dire, un tempo di corto respiro come quello che stiamo attraversando non avesse generato entità che sul breve periodo ritmano la loro attività.

Il risultato è che queste entità sono fortemente procicliche. Detto in italiano vuol dire che vanno bene quando tutto va bene e peggiorano le cose quando tutto va male. E l’aumento della concentrazione può rafforzare tale prociclicità, “esercitando un influsso sproporzionato sulle dinamiche di mercato” arrivando a “produrre effetti sistemici di vasta entità”.

Viviamo in un mondo ricco e pericoloso, questo lo sapevamo già.

Dovremmo ricordarci che sono due facce della stessa medaglia.

Le banche siamo noi

Se c’è un’entità che l’italiano medio mal sopporta meno dello Stato, quella è di sicuro la banca. Fateci caso. Provate a dir male di una banca e partiranno applausi. Esattamente come quando parlate male dello Stato.

Siamo quelli di Piove governo ladro, d’altronde, salvo poi pietir favori ai politici quando serve.

Esattamente come facciamo con le banche. Mentre le disprezziamo le imbottiamo di liquidi. Ci turiamo il naso e le patrimonializziamo, per parafrasare un vecchio detto.

In questo curioso sentimento bifronte, che accomuna ora lo Stato, ora le banche, dimentichiamo che siamo sempre noi, quelli che chiedono favori alla politica e insieme prestiti in banca. Salvo poi maledirli perché ci hanno concesso l’uno e gli altri. Vuoi perché ci vergogniamo, vuoi perché ci accorgiamo che quei prestiti non possiamo ripagarli.

La realtà che dovremmo avere il coraggio di riconoscere è che banche, stato e privati sono la laicissima trinità del nostro vivere socieoconomico. Simul stabunt, simul cadent, come dicono quelli istruiti.

Detto con parole mie: parlar male delle banche o dello Stato equivale a parlar male di noi stessi. E non so voi, ma io sono parecchio stufo di quest’esercizio.

Mi son convinto, perciò, che bisogna far pace con lo Stato e con le banche, per far pace con noi stessi, pure a costo di perdonar loro evidenti difetti costitutivi e cercando invece di trovare espedienti migliorativi, ricordando che pure noi, i privati cittadini, ne siamo specchio fedelissimo.

Solo così, forse, può venire fuori qualche buona idea.

Per ragionare, tuttavia, può essere utile conoscere alcuni dati. All’uopo mi servo dell’ultima relazione della Banca d’Italia che dedica un paio di illuminanti capitoli al sistema bancario nostrano che è assai utile sommarizzare.

A cominciare dall’inizio: “In Italia le banche ricoprono un ruolo rilevante nel finanziamento dell’economia”, scrive la BC. Siamo una Repubblica fondata sul lavoro e sulle banche, insomma. Piaccia o no è così.

Tale intreccio fra noi e le banche ci viene plasticamente rappresentato dai numeri. “A fine 2013 il credito bancario a famiglie e imprese era di oltre 1.400 miliardi di euro, pari al 91% del Pil. I prestiti delle banche costituiscono quasi due terzi dei debiti finanziari delle imprese e oltre un terzo della ricchezza finanziaria delle famiglie è investito in depositi e obbligazioni bancarie”.

Quindi abbiamo da una parte che i due terzi dei debiti finanziari delle imprese stanno in pancia alle banche, quindi circa 800 miliardi fra breve e medio termine su 1.260 circa. Dall’altra che oltre 1.300 miliardi di ricchezza delle famiglie è prestata alle banche, sotto forma di depositi (1.047 mld) od obbligazioni bancarie (326 mld) , ai quali si aggiungono altri quasi 280 miliardi che le imprese hanno come attivo che vengono appoggiati alle banche come circolante, depositi a vista e altri depositi.

Se fate due somme, scoprirete che i 1.400 miliardi di prestiti che le banche concedono a famiglie e imprese, corrispondono grossomodo ai crediti che le famiglie e le imprese hanno nei confronti delle banche stesse (circa 1.580 miliardi) e che anzi sono pure inferiori. Quindi le nostre banche sono ricche (e malviste) perché gli italiani sono ricchi (e malvisti), non il contrario.

Perciò le banche hanno patito, negli anni bui della crisi, esattamente come hanno patito molti italiani, chiudendo il 2013 con perdite, per l’intero settore, pari a due miliardi. Ma quello che ha fatto patire le banche non è stato la mancanza di fondi, anche se poi col procedere della crisi i patrimoni si sono erosi a causa dell’aumento delle sofferenze e degli incagli, specie nel settore immobiliare, che pure grandi soddisfazioni aveva regalato ai nostri istituti di credito.

Quello che le ha fatte soffrire è stato il brusco prosciugarsi della liquidità. La morte repentina dell’interbancario post-Lehman. Per questo è arrivata la Bce e ha iniziato a pompare liquidità nel circuito.

Lo stesso patimento che ha sofferto il nostro debito pubblico, sul finire del 2011, che, ci hanno raccontato, rischiava di non trovare più sottoscrittori. Sicchè le banche, coi soldi della Bce, hanno comprato bond pubblici per dare ristoro alla nostra contabilità pubblica, mentre tagliavano i fondi ai privati, che, visti come un tutt’uno sono anche i i loro principali creditori.

In pratica, hanno usato i soldi della Bce per rimanere liquide e i soldi degli italiani per rimanere solide. E gli italiani, molto disciplinatamente, hanno continuato a dargliene. I depositi, infatti, sono cresciuti per tutto il 2013.

Tutto questo mentre lo Stato, grazie alle banche che comprando titoli pubblici contribuivano a raffreddare i rendimenti, sentitamente rendeva grazie e, prosaicamente, ricambiava con corposi interessi attivi sui bond pubblici comprati dalle banche pagati con le tasse dei cittadini.

Ecco la trinità laica al lavoro.

Prima di proseguire nell’analisi, tuttavia è assai utile fornire un altro elemento che fa capire come il processo di finanziarizzazione delle nostre economie non sia in alcun modo un incidente della storia. Piaccia o meno, tutti siamo chiamati a farci i conti.

In Italia, nel 2013, le banche pesavano il 71,3% dell’intero settore finanziario. Solo in Spagna le banche sono più invasive (75,7%). Ma con una differenza: in Spagna le banche sono dimagrite, dal 2001 in poi, quando erano al 77,3%. In Italia è andata al contrario: eravamo al 64,2% e siamo arrivati al 71,3.

L’Italia, quindi, è sempre più bancocentrica.

L’area dell’euro è al 55%, con Francia e Germania rispettivamente al 67% e al 66,6%. Nel Regno unito le banche pesano il 55,6, in calo di un punto dal 2001, mentre negli Stati Uniti appena il 28,2&, dal 26,8 del 2001.

Poi c’è un altro dato: dal 2001 a oggi il peso sul Pil del settore è costantemente aumentato in tutto il mondo avanzato. In Italia nel 2001 il settore finanziario quotava 2,4 volte il Pil, oggi il 3,9. Stavolta siamo fanalini di coda. La Francia sta a 6, dal 4,1 del 2001), la Germania sta a 4,4, dal 4,3 del 2001, l’area euro a 6, dal 4,3 del 2001, mentre il Regno Unito sta a 12,4, quasi il doppio rispetto al 6,1 del 2001. Gli Usa stanno a 4,7, un punto in più rispetto a 13 anni fa.

Il combinato disposto ci dice una cosa molto semplice: la finanza è destinata a crescere di peso nell’economia e in Italia le grandi protagoniste sono le banche.

Faremmo bene a farcele piacere, se vogliamo provare a tirarne fuori qualcosa di buono.

Non ci sono più le banche svizzere di una volta

Il paradiso elvetico, ricovero di milionari in pensione o giovani ereditieri, ma anche di varia malacarne farcita di denaro, esibisce ai giorni nostri un sole opaco, reso pallido dal turbinare della crisi globale. Pure le sue banche, nel cui mito sono cresciute generazioni intere di redditieri, sono finite nel terribile cono d’ombra del dubbio, erodendo perciò la costituente di tale paradiso, ossia la certezza che, comunque vada il mondo, portare i soldi in Svizzera regali un sonno tranquillo, dove il denaro cresce rigoglioso senza sforzo e, soprattutto senza rischi.

Come tutti i sogni, anche quello svizzero, però, è ingannevole. Il piccolo paradiso s’appoggia incerto sul limitare dell’inferno, che nel nostro tempo economicizzato corrisponde al turbinare incerto delle economie europee, con le quali, pure se la Svizzera non vorrebbe, il paese è profondamente interrelato, vuoi per i suoi commerci, vuoi, appunto, per le sue banche.

La disgraziata Europa, con la quale la Svizzera mai ha voluto mischiarsi, esporta la sua rovina sin qui, nelle idilliache valli d’Engandina, con i suoi torbidi e le sue insicurezze, spingendo la banca centrale a imbottirsi di debiti per tenere il franco svizzero, improvvisamente divenuto bene rifugio, a un livello che sia commercialmente sostenibile.

E poi, che dire del mercato immobiliare? Nel suo ultimo assessment sul sistema bancario elvetico, il Fmi nota che “sembra stia apparendo una bolla immobiliare”. Bolla temutissima, anche per i più smemorati. Troppo recente è la memoria degli sconquassi originati dal mattone statunitense con i quali le banche per prime son state chiamate a fare i conti.

Perciò anche quelle svizzere si sono trovate improvvisamente agli onori della cronaca. Proprio loro che nel tempo hanno costruito la loro fortuna sull’invisibilità, che sempre nel nostro mondo malato d’econom(an)ia corrisponde al non finire mai sulle pagine dei giornali a causa d’una qualche nequizia.

E invece ecco che il Fmi le addita alla pubblica attenzione, il che non è mai un buon viatico per un paradiso finanziario. A ragione peraltro, visto che “il settore finanziario svizzero è uno dei più grandi al mondo, specialmente in rapporto al Pil”, ospitando peraltro la Svizzera due delle più grandi banche al mondo classificate come global sistemically important financial institution (G-SIFIs), ossia di quella terribile genia delle banche troppo grandi per fallire. Entrambi, e in particolare la Ubs, “sono state duramente colpite dalla crisi”, nota il Fmi. A queste si aggiunge una delle più grandi compagnie di riassicurazione al mondo.

Pensate che queste due banche quotano il 43% del totale dei depositi e il 18% dei capitali. A queste si aggiungono 24 banche cantonali, una delle quali è stata definita domestically sistemically important financial institution (D-SIFI) e una banca cooperativa, (la Raiffeisenbank).

Sicché la piccola Svizzera, già dal 2009, ha dovuto dotarsi di una supervisione unificata, un po’ come ha fatto l’eurozona con il suo SSM, già dal 2009. Il supervisore (FINMA) ha introdotto alcune pratiche prudenziali, imponendo fra l’altro alle due big bank di aumentare il capitale anche tramite l’uso di COCOs. Ma in generali tutte le banche hanno aumentato il loro capitale, dopo aver condotto un deciso de-leveraging.

Rimane il fatto che non è abbastanza. I rischi della Svizzera, infatti, dipendono dai suoi vicini di geografia, quindi l’Ue e in particolare dai PIIGS, e dal mattone, ma anche dalla circostanza che i tassi negativi che in alcuni scadenze deliziano i debitori elvetici, stanno mettendo a dura prova il modello di business delle assicurazioni e dei fondi pensione.

A fronte di tutto ciò le autorità fanno ovviamente del loro meglio, se non fosse che al peggio non c’è mai fine.

Gli standard prudenziali sollecitati dai regolatori devono fare i conti con la circostanza che le due banche globali sono ancora più pesantemente leveraged delle altre. Altresì, malgrado gli accordi internazionali di risoluzione in discussione sulle G-SIFIs e il rafforzamento dei poteri della FINMA, c’è il rischio che non sia abbastanza per garantire la stabilità di queste entità. Senza considerare che il Fondo suggerisce che sia “profondamente revisionato il sistema di garanzie dei depositi, in modo da fornirlo di fondi adeguati.

Chiunque pensasse che i problemi bancaria tormentino solo i colossi, tuttavia, sbaglierebbe. Le banche cantonali, infatti, hanno un’esposizione creditizia molto concentrata sui mutui immobiliari “e alcune di queste hanno una governance debole”, in un contesto in cui “le difficoltà in una può facilmente estendersi all’intero gruppo”.

In generale, poi, è apparso un nuovo rischio che fa capire quanto sia diventata pericoloso il paradiso (bancario) terrestre: il rischio di contenziosi.

Proprio ciò che ha fatto la fortuna del modello bancario svizzero, ossia il vantaggio fiscale e soprattutto l’anonimato, sta lentamente franando sotto i marosi della crisi, che ha incattivito gli stati, nel senso che li ha resi più affamati.

La caccia all’evasore internazionale, perciò, deve necessariamente far tappa di là dalle Alpi, che ospitano private banker fra i più rinomati del mondo. Figuratevi con che gioia i vari clienti “grigi” delle banche svizzere acconsentirano ad asseverare un cambio così drammatico di consuetudine. E poi ci sono le grandi banche, finite nel mezzo dei peggiori scandali finanziari internazionali recenti, dal Libor al Tibor.

Insomma: non ci stanno più le banche svizzere di una volta.

Prima o poi tale considerazione si consoliderà nell’immaginario. E il paradiso diverrà un po’ più simile al purgatorio, visto il peso che ha il settore bancario sull’economia nazionale.

Infatti il Fondo nota che la Svizzera, “come gran parte dell’Europa, rimane pesantemente dipendente dal settore bancario”.

Saranno pure svizzeri. Ma sempre in Europa stanno.

(1/segue)

Leggi la seconda e ultima puntata

Banche, la Cina entra nell’Ombra

Capitalista, diligente e dispotica, La Cina ha scoperto da pochi anni la confortevole riservatezza dello shadow banking, le sue spire barocche, la sua straordinaria piacevolezza. E dopo averla scoperta non riesce ormai a farne più a meno. Anzi: ne abusa, come in fondo è giusto che sia in una nazione che solo di recente ha scoperto gli agi occidentali della sregolatezza finanziaria.

Ciò spiega perché il Fondo monetario ne abbia fatto oggetto di una ricognizione nel suo ultimo global financial stability review.

D’altronde i rischi generati dalle banche ombra cinesi, volenti o nolenti, ci riguardano tutti.

“Le istituzioni non bancarie in Cina – spiega il Fmi – sono diventate un’importante fonte di finanziamento, e questa è una conseguenza naturale dei processi di riforma che hanno dato priorità alla diversificazione di un sistema dominato dalle banche”. Fin qui nulla di strano: è accaduto un po’ dappertuto.

I problemi cominciano quando diventa difficile, persino al Fondo Monetario, stimare l’entità del fenomeno. “Secondo stime non ufficiali conservative (quindi sottostime, ndr) il settore non bancario cinese oscilla pesa fra il 30 e il 40% del Pil ed è raddoppiato dal 2010”. Tale crescita, spiega il Fondo, è stata una delle conseguenze delle politiche di stimolo fiscale decise da Pechino per sostenere l’economia dopo la crisi del 2008, che abbiamo già visto hanno determinato un notevole spostamento di debiti fuori dalla contabilità pubblica ufficiale.

Senonché neanche il parziale miglioramento della tensione internazionale è servita a rallentare la crescita delle banche ombra cinesi. Al contrario. Scoperto l’arcano i cinesi ci hanno preso gusto, e non è difficile capire perché.

Il Fondo infatti spiega che gran parte di questo credito non bancario è stato alimentato dalla banche commerciali (come succede ovunque) che volevano far sparire un po’ di crediti dai loro bilanci, magari perché soggette a supervisione e regole che ne limitano l’erogazione. Il marchingegno, o almeno uno dei più diffusi, prevede che le banche vendano un prestito a un trust, a una società esterna insomma, aiutandola poi a trovare i soldi necessari a ripagarlo (tramite l’emissioni di obbligazioni intestate al trust) fra i propri clienti.

Altresì le banche possono vendere quote di wealth management product (WMPs), sorta di fondi, che poi magari investono i questi trust o in altri asset fuori dai bilanci bancari.

Lo stock di WMPs cinesi è stimato nell’ordine dei 10 trilioni di yuan, più o meno il 20% del Pil. E la crescita irrefrenabile di questi prodotti ha consentito di alimentare una crescita dei trust, ai quali si stima sia andato almeno un 40% di queste risorse.

I trust d’altronde usano anche il mercato interbancario per finanziarsi, e chi segue le cronache cinesi ricorderà le tensioni registrate in questi mesi su tale mercato.

WMPs e trust sono due delle componenti principali, ma non certo le uniche, del sistema bancario ombra cinese. E che mettano a rischio la stabilità finanziaria è scritto nella storia dello shadow banking, oltre che nella specificità cinese.

Nella fattispecie, i WMPs cinesi garantiscono un guadagno in media intorno ai 200 punti base in più rispetto a un normale deposito bancario, trascurando di sottolineare che a un maggior rendimento corrisponde sempre un maggior rischio. Anche perché nello splendido mondo cinese, dove le banche sono dello Stato, i sottoscrittori di questi prodotti pensano che su di essi valga la garanzia implicita del governo.

Non vi ricorda niente? A me sì: il disastro dei subprime e il crollo delle agenzia governative americane che smerciavano Abs che il mercato quotava pensando che avessero la famosa garanzia implicita del governo.

Il copione, insomma si replica: la fame di rendimenti e il denaro “facile” messo a disposizione da banche a loro volta affamate di rendimenti incoraggia il moral hazard. E la montagna di debito nascosta cresce senza sosta.

“Ma – avverte il Fmi – la percezione di sicurezza che nasconde questi investimenti può rapidamente sparire in un ambiente di crescenti default di questi prodotti, o anche di calo dei rendimenti”.

Poi c’è il rischio della maturity transformation. Dovendosi finanziare a breve per investire a lungo, le banche ombra incappano sistemicamente in questo rischio che, se è gestibile in un mercato liquido, diventa ingestibile in un mercato teso, come già abbiamo visto accadere nell’interbancario cinese, che in diverse occasioni di recente ha visto i tassi a brevissimo impennarsi a due cifre.

Metteteci poi che oltre un terzo di questi trust, che hanno un leverage ratio pari a 35 volte il capitale in media, hanno investito sul mattone, le infrastrutture e le miniere, quindi asset ormai pesantemente gonfiati, offrendo ai sottoscrittori rendimenti fino al 9%. Ciò provoca che devono continuamente fare roll over sui propri prestiti, di conseguenza trasformandosi in idrovore di liquidità, che rendono il mercato monetario estremamente volatile.

Lato asset, le banche ombra cinesi investono nei famigerati local government financing vehicles (LGFVs), ossia i primi responsabili della montagna di debito nascosto che cova a Pechino, potendo contare queste ultime (anche loro) della famosa garanzia implicita del governo, che però non deve esserne troppo felice. Tanto da imporre limiti al loro ricorso al credito bancario, proprio perché questi veicoli sono molto indebitati e con cash flow deteriorati.

Ma è un vincolo teorico. Se le LGFVs sono off limit alle banche, sono bene accette dalle banche ombra, che, come abbiamo visto, solo alimentate dalle stesse banche proprio per aggirare i vincoli regolamentari.

Questo intreccio molto cinese, ma sostanzialmente simile a quello angloamericano, ha già mostrato la corda in diverse occasioni, come ricorda lo stesso Fmi, “particolarmente nel settore dei trust, con conseguenza anche su altre parti del sistema finanziario”. Alcuni trust hanno avuto difficoltà a ripagare i propri debiti, e non solo per la quota interessi, ma anche quella capitale, e si è posto rimedio a questi default potenziali grazie a pagamenti delle banche sponsor, che magari hanno creato nuovi veicoli che hanno assorbito i primi, o tramite acquisizioni del veicolo in crisi per evitare il default.

Insomma, la Cina, che ha alle spalle una ricca tradizione di default bancari, pare stia mettendo in piedi tutto quello che serve per organizzarne un altro in grande stile che potrebbe diventare un notevole fonte di contagio globale, malgrado le restrizioni finora esistenti sul flusso dei capitali cinesi.

I canali di trasmissione, infatti sono aperti e operanti, grazie soprattutto alla piazza off shore di Hong Kong, dove si calcola sia parcheggiato almeno il 20% del settore ombra bancario cinese. E poi c’è il mercato offshore dei renminbi, altra ossibile fonte di contagio.

I cinesi hanno imparato bene la lezione americana, evidentemente: se tutti vanno a rotoli, nessuno va a rotoli.

 

L’anno (bancario) che verrà

La chiusura dell’accordo sull’Unione bancaria è la degna conclusione di un anno (bancario) vissuto pericolosamente per l’eurozona. Ma allo stesso tempo conferma che le banche saranno le grandi protagoniste anche dell’anno che verrà.

Il 2014 in tal senso sarà un anno di preparazione e di riorganizzazione dell’intero settore bancario in vista dell’avvio della supervisione unificata della Bce, da una parte, e dell’attivazione degli altri due pilastri dell’Unione bancaria, ossia il meccanismo di risoluzione e quello di garanzia dei depositi, previsto per il primo gennaio 2015. Sempre che l’europarlamento approvi le norme relative.

Allo stesso tempo, il 2014 sarà anche l’anno del tapering della Fed. La Banca centrale americana ha già annunciato che inizierà a ridurre gli acquisti di bond di dieci miliardi di dollari al mese e i mercati, che al momento hanno assorbito la notizia senza problemi, dovranno farci i conti. Le tensioni, come già accaduto in passato, potrebbero scaricarsi innanzitutto sui paesi emergenti. Ma è evidente che qualora la mossa della Fed fosse maldigerita dai mercati gli effetti sarebbero evidenti anche nell’eurozona, proprio nell’anno in cui la zona euro spera di tornare alla crescita.

Il combinato disposto Fed-Unione bancaria, con il suo portato di asset quality review sugli asset bancari europei, rischia di avere effetti notevoli nel settore bancario dell’eurozona. Non a caso qualche settimana fa Vitor Constancio, parlando a Dublino, abbia detto che non sarebbe sorpreso se il meccanismo di supervisione “inaugurasse un periodo di ristrutturazioni”. Detto in soldoni, una bella stagione di fusioni e acquisizioni, magari con le banche più forte e meno esposte su bond sovrani “rischiosi” nel ruolo di aggregatori.

E qui veniamo ai casi nostri. Le banche italiane è inevitabile finiscano sotto tensione, visto l’orientamento restrittivo annunciano dalla Bce sulla valutazione del rischio dei bond sovrani, di cui le nostre banche sono imbottite. Se si applicassero le regole di Basilea III ai 400 miliardi stimati di titoli di stato italiani in mano alle banche (anziché quelle più favorevoli previste dalla legislazione europea), queste ultime si potrebbero vedere costrette a mettere da parte capitale per una cifra che potrebbe oscillare fra i 6 e i 16 miliardi, a seconda della classe di rating alla quale si farà riferimento. Hai voglia a ricapitalizzare Bankitalia. O, in alternativa, dovrebbero vendere i titoli di stato, con effetti deleteri sul nostro bilancio pubblico.

Perché poi questo è il problema, che tutti dicono di voler risolvere: il famoso collegamento fra banche residenti e debito sovrano. Se le banche italiano vanno in affanno, anche il bilancio dello stato ne risente, sia direttamente, perché può venir meno uno dei principali acquirenti dei suoi titoli, sia indirettamente, perché può essere costretto a ricapitalizzarle, visto che il fondo di risoluzione dell’Unione bancaria non si vedrà prima del 2025.

In questo senso il 2014 potrebbe essere un anno orribile per il bilancio dello stato italiano, già alle prese con una correzione del deficit basata sulla scommessa di uno spread in calo.

Ma le tensioni non riguarderanno solo le grandi banche. 

Le piccole stanno pure peggio.

Queste ultime in particolare, responsabili grossomodo di circa la metà del credito erogato alle Pmi, sono diventate oggetto delle preoccupazioni della Banca d’Italia, secondo quanto riporta il Financial Times, che ipotizza che si arriverà a un consolidamento del settore bancario italiano entro la metà del 2014.

Alcuni analisti stimano che sia probabile addirittura la creazione di una bad bank con 10-12 miliardi di capitale (presi dove?) dove far confluire tutti i crediti incagliati delle banche medio-piccole. E in questa complessa partita giocherà di sicuro un ruolo la decisione del governo di rivalutare le quote di Bankitalia, fortemente voluta dalle banche proprio per passare con maggiore sicurezza l’esame della Bce, il cui provvedimento relativo è ancora all’esame delle Camere e in attesa del parere della Bce. Che non è vincolante, come ripete sempre il ministro Saccomanni, però pesa e, soprattutto, ritarda. Specie se è vero, come riportano le cronache, che la Bundesbank si è messa di traverso.

Le banche italiane, insomma, non saranno semplici protagoniste ma saranno in prima linea dell’anno che verrà.

Alla riorganizzazione interna, infatti, è assai probabile seguirà una riorganizzazione intereuropea, con le nostre banche nel ruolo di facili prede, visto che sono imbottite di sofferenze e titoli di stato italiani e quindi a serio rischio di patrimonializzazione.

La cronaca ci dirà se il 2014 sarà l’anno in cui verrà meno l’ultimo baluardo del nostro sistema produttivo, ossia quello finanziario, da tempo oggetto delle amorevoli attenzioni dei giganti europei. Non sarà necessario aspettare l’Unione bancaria per spezzare il nesso fra debito sovrano e banche. Basterà una robusta migrazione di pacchetti azionari.

In ogni caso, auguri.

Ci rivediamo il 13 gennaio 2014.

Un futuro “luminoso” per lo shadow banking

A conclusione di questa miniserie sullo shadow banking si può dire che abbiamo acquisito alcune informazioni tecniche, ma soprattutto sistemiche. Che poi sono quelle che ritengo più interessanti.

Abbiamo scoperto, ad esempio, che le banche ombra hanno prosperato negli ultimi decenni contrabbandando l’illusione di essere riuscite a creare dei titoli totalmente privi di rischio (risk free). E non tanto perché ciò fosse la realtà, ma perché veniva percepita come tale. Ma tutto ciò che hanno ottenuto è stato di aver spostato il rischio dal singolo titolo a tutto il sistema. La logica del risk free ha condotto a quella del systemic risk.

Bell’affare.

Abbiamo scoperto che gli strumenti di questo spostamento planetario del rischio sono stati la pratica della cartolarizzazione e l’esistenza di mercati finanziari sempre più liquidi e profondi, frutto di un trentennio di liberalizzazioni dei movimenti di capitale, che hanno incoraggiato le banche (prima) e altre entità finanziarie (poi), a spingere il pedale sullo shadow banking per fare intermediazione creditizia in maniera sempre più profittevole. Sempre spostando il rischio a livello sistemico (in finanza avere più rendimenti implica correre più rischi).

La catena del credito, allungandosi, generava altro credito (quindi debito) arrivando a diluire tutti i titoli in una sorta di piscina finanziaria (wholesale funding) dove questa cartaccia veniva percepita come cash (liquidità) e da dove tutti attingevano per alimentare le proprie transazioni e fare soldi con gli spread.

Così siamo arrivati alla crisi.

Quando tutti si sono svegliati dal bel sogno di un mondo senza più rischio finanziario, hanno capito che al contrario il mondo rischiava il collasso finanziario. Gli stati, a cominciare dagli Stati Uniti, hanno dovuto stendere una rete di protezione senza precedenti nella storia per evitare il crollo dei mercati dei capitali che, dai vertici della catena, le banche, si sarebbe trasferito alla base (la fonte della liquidità) creando un’ecatombe.

Nella storia americana, ha ricordato Daniel K.Tarullo, componente del board della Fed in un discorso a Washington del novembre scorso (“Shadow banking and systemic risk regulation”), il crollo sperimentato dallo shadow banking fra il 2007 e il 2008 “ha ricordato simile fughe disordinate dai depositi bancari non assicurati nelle crisi di panico finanziario che hanno afflitto le nazioni fra la fine del XIX e i primi anni del XX secolo”.

All’epoca i depositi bancari non erano assicurati, e quindi le corse agli sportelli (deposit runs) erano frequenti.

“I più drammatici – ricorda Tarullo – furono i bank runs dei primi anni ’30, che culminarono nel bank holiday del 1933”, quando le banche furono chiuse per tre giorni alla fine dei quali fu varato l’Emergency banking act, un insieme di norme che si proponeva di mettere al sicuro le banche, prevedendo fra le altre cosa la fondazione della Federal Deposit insurance corporation (FDIC), che assicurò tutti i depositi bancari fino a un certo importo.

Il paragone di Tarullo ci dice una cosa molto semplice: per salvare le banche, negli anni ’30, servirono leggi straordinarie e una garanzia di sistema. Poiché la crisi dello shadow banking ricalca quelle vicende, servono rimedi simili, se si vuole mettere in sicurezza un sistema che, volenti o nolenti, dovremo tenerci per i prossimi 80 anni almeno.

La parolina magica stavolta è: regolazione.

Il problema invece è: servono tante regole diverse quanto sono i soggetti che operano nello shadow banking.

Perché è chiaro: una cosa è avere a che fare con un broker, un’altra con una SPEs (special purpose entity), un’altra ancora con un mutual fund, o magari con una controparte centrale.

Le banche invece si somingliano tutte. E peraltro sono già ben regolate (fin quando non trovano l’inganno che fa fessa la legge, come è stato grazie anche allo shadow banking).

I partecipanti allo shadow banking, invece, sono numerosi e assai diversi per missione, strumenti utilizzati e fisionomia. Un vero rompicapo per il regolatori.

Rimane il problema che questo universo muove tuttora un sacco di soldi. “Le banche e i broker-dealer al momento prendono in prestito circa 1.600 miliardi di dollari, molti dei quali dai fondi monetari (money market fund) attraverso il tri-party repos. In cambio le banche e i broker-dealers usano i reverse repo per recuperare più di 1.000 miliardi per finanziare i loro prime broker e altri clienti”. E “malgrado il volume di queste attività sia diminuito considerabilmente fin dalla crisi – sottolinea – c’è ogni ragione per credere che tale volume di attività potrà crescere non appena le condizioni economiche miglioreranno”.

Insomma, il futuro dello shadow banking è alquanto “luminoso”.

Senonché, i precedenti hanno insegnato che è anche alquanto pericoloso. Tarullo insiste perciò sui progressi effettuati sul versante della regolazione dal 2008 in poi. Ad esempio alzando i requilisiti di capitali o fissando indici di liquidità, in applicazione ai principi di Basilea III.

Vi risparmio i tecnicismi, perché penso ne abbiate abbastanza dopo questi tre post. Quello che conta è capire il principio: più regolazione significa rendere più difficile prendere a prestito o dare prestiti. Significa strozzare la catena dell’intermediazione creditizia. Un po’ l’effetto che provoca la crisi, ma stavolta in condizioni di salute.

Per darvi un’idea, prima della crisi le banche di clearing, che si interpongono fra i contraenti nel tri-party repo, fornivano il 100 per cento del credito intraday. Oggi appena il 30% e si va verso il 10%. “Il tri-party repo – spiega Tarullo – avrebbe sofferto un crollo su larga scala se non fosse intervenuto il settore pubblico”.

Progressi, perciò, ce ne sono stati. Ma non a sufficienza. “Prima della crisi queste entità (dello Shadow Banking, ndr) erano fuori dalla regolamentazione – conclude Tarullo -. I processi stabiliti grazie alla Dodd-Frank Wall Street reform e al Consumer protection act hanno provveduto a assicurare che il perimetro della regolazione fosse esteso anche a tali istituzioni. Ma noto che il rischio sistemico associato ai finanzamenti a breve nel Wholesale funding non è ancora stato contemplato nelle norme adottate finora. Per questo serve un piano più comprensivo di riforme”.

Fin qui Tarullo, del quale bisogna apprezzare la buona volontà e l’ingenuità. L’eterno dilemma fra regolazione e sregolatezza, infatti, è una delle costanti del sistema capitalistico (inteso come mercato dei capitali) e la saggezza popolare insegna che fatta una legge si trova sempre un inganno.

Ma come tutti i dilemmi anche questo è figlio di un inganno.

L’esigenza della regolazione, infatti, nasce da due circostanze: prima di tutto che ci sia libertà di movimenti del capitale. Poi che ci sia abbondante capitale.

Sul primo punto non troverete nessun banchiere centrale (ossia un regolatore) che oggi vi dica che i movimenti di capitale devono essere controllati. Al contrario.

Quanto al secondo punto, basta leggere l’ultimo rapporto sulla stabilità finanziaria del Fmi (ottobre 2013) che dedica un box proprio al wholesale funding. Alla fine della sua disamina il Fondo dice una cosa precisa: “Il WF può essere spiegato come una risposta all’innovazione finanziaria (che di solito è il frutto della reazione alla regolazione, ndr) e alla creazione di un eccesso di risparmio nel settore corporate di alcuni paesi e nell’aumento delle riserve di alcuni paesi emergenti”.

E’ l’abbondanza di risparmio, quindi del credito, quindi della liquidità, a generare la domanda di un suo impiego remunerativo.

Se pensate che siamo anche società che invecchiano, e che quindi vedono crescere sempre più la propria quota di risparmio a vantaggio dei cosiddetti investitori istituzionali, a cominciare dai fondi pensione, avrete chiaro perché questa mole di risparmio, alla costante ricerca di rendimenti, sarà la vera benzina dello shadow banking. 

Tutto questo mentre le banche centrali continuano a pompare soldi nel sistema finanziario per non farlo crollare.

Come vedete, è tutt’altro che un dilemma. Regolatori e liberalizzatori vogliono esattamente la stessa cosa: fare soldi coi soldi.

Non usciremo dallo Shadow banking finché non capiremo questo.

(3/fine)

Il default americano, ovvero la fine del mondo

Per capire perché mai il mondo tremi ogni volta che gli americani giocano col loro debito pubblico basta leggere tre paginette dell’ultima Financial stability review della BoE.

La banca centrale inglese prende talmente sul serio la possibilità che gli americani, fra uno shutdown e l’altro, finiscano col mandare in default il loro debito che hanno analizzato in profondità il ruolo degli Us treasury (i titoli di stato) nel sistema finanziario globale.

Una lettura molto edificante, dalla quale ho tratto una conclusione molto semplice e altrattanto nota: il mondo è una gigantesca bomba finanziaria e la miccia sta a Washington.

Quello che scopro in più leggendo l’analisi della BoE è che già la minaccia di un default è pericolosa per la stabilità finanziaria, trattandosi di un territorio in gran parte inesplorato. “E’ difficile – scrive la BoE – giudicare l’impatto preciso di uno shock sui Treasury”.

La BoE ricorda che i bond americani non hanno clausole di cross-default, ossia quel particolare meccanismo giuridico per il quale un default su una classe di obbligazioni si estende a tutte le classi di obbligazioni di quell’emittente. Ad esempio se io ho un debito per l’acquisto di un automobile e non pago la rata, il mio default sul debito dell’automobile non si estende al debito che ho per il mutuo.

La mancanza di una cross-default provision implica che un default settoriale su una classe di bond americani non si estenda a tutti gli altri. Di conseguenza la magnitudo della crisi dipenderà dal numero e dall’ammontare delle obbligazioni il cui pagamento verrà ritardato.

Nelle ultime cronache da shutdown e debt ceiling dell’ottobre scorso ballavano circa 3.000 miliardi di debito americano, di cui un po’ meno di 500 erano T-bills, e il resto erano notes e bond. In totale parliamo di circa un quarto della montagna di obbigazioni americane in giro per il mondo. Più che sufficienti per far dire alla BoE che “quest’esperienza  ha messo in evidenza che l’impatto di uno stress sui titoli americani può rapidamente diventare grande”.

La BoE individue due canali attraverso i quali il contagio può diffondersi per il mondo. Uno chiamato “fast burn”, quindi rapido e drammatico, e l’altro “slow burn”, lento ma sistemico.

Il primo terremoto, il più violento, sia per la rapidità che per la magnitudo, è quello che si provocherebbe sul mercato dei Repo, ossia quelle transazioni (come i pronti contro termine) in cui una parte cede un’obbligazione a un’altra in cambio di contanti, impegnandosi a ricomprarla al termine di una scadenza, restituendo la cifra presa a prestito.

Il mercato dei Repo è fonte di grandi preoccupazione per i regolatori. Di recente perché in questo mercato sono esplosi come collaterali gli MBS. Ma anche perché, ed è il nostro caso, perché i titoli di stati americani pesano circa un terzo dei collaterali depositati a garanzia.

I primary dealers americani, ossia le banche autorizzate dal Tesoro a comprare Treasury direttamente dal governo, sono grandi partecipanti del mercato Usa dei Repo “e usano circa 1.500 miliardi di treasury”.

Un sottoinsieme dell’ampio mercato dei Repo è quello costituito dalle transazioni tri-party repo. La logica del processo non cambia, solo che in questi scambi fra le due parti, ossia chi chiede cash in cambio di collaterale e chi dà il cash prendendo a tempo i titoli, si interpone una terza parte, ossia un agente che svolge il ruolo di “arbitro” fra le due, custodendo i titoli, garantendo l’esecutività delle transazioni. Agisce, insomma, come un soggetto di clearing.

Negli Stati Uniti questo ruolo viene svolto da due soli soggetti: la Bank of New York Mellon e la JP Morgan.

Il solo mercato americano tri-party repo, ossia quella parte delle transazione Repo intermediate dalle banche di clearing, quota circa 500 miliardi di treasury usati come collaterali in media nel mese di settembre.

All’epoca dello shutdown, scrive la BoE, “il mercato dei Repo si deteriorò. Ci fu un un brusco aumento nel costo dei prestiti Repo che si appoggiavano su collaterali Treasury, che raggiunse il picco di 26 punti base il 16 ottobre, 18 punti in più rispetto all’inizio dello stesso mese”. Un segnale – spiega – del timore che le tensioni sul bilancio pubblico americano finissero con lo scaricarsi sul mercato dei Repo. E in quei giorni si notò anche una certa disaffezione nei confronti di questo collaterale.

Da ciò la Boe ne deduce che “in caso di default si può prevedere che il mercato repo basato sui Treasury si essiccherebbe rapidamente”. Un mercato che pesa, lo ricordo di nuovo, un terzo del totale.

Peggio ancora andrebbe se se i prestatori finissero con “l’aumentare gli haircuts sugli altri collaterali, come risposta allo stress sui Treasury”. Il famoso effetto contagio che si traduce in straordinarie perdite a causa dei timori di soffrirne.

Della serie: mi sparo in testa per evitare l’emicrania.

Non bastassero i danni sul mercato dei repo, un default americano avrebbe effetti terribili anche sul mercato monetario, che pesa una cosetta da 2.400 miliardi di dollari di asset. In questo mercato operano fondi che investono il denaro dei loro sottoscrittori in strumenti di breve termine come la carta commerciale o, appunto, i T bill, ossia la  i treasury a breve termine.

Sul totale degli asset in circolazione, i T bill pesano circa 450 miliardi di dollari, ai quali si aggiungono altri 200 miliardi di dollari investiti in reverse repo, ossia in transazioni pronti contro termini in cui i fondi monetari sono controparte venditrice nella fase di ritorno (quindi rivendono il titolo che avevano comprato dal promotore in cerca di liquidità).

Così quando leggete che i mercati sono profondamente interrelati avete un’idea di che vuol dire.

Un default Usa avrebbe nel mercato monetario l’effetto di uno tsunami, atteso che tale mercato viene percepito come uno dei più sicuri (infatti offre rendimenti molto bassi). Anche stavolta, i fondi monetari dovrebbero vendere pezzi di altri asset per compensare il crash dei titoli americani, e questo avrebbe un effetto diretto sulle banche che sponsorizzano questi fondi. “Anche le banche europee potrebbero trovarsi in difficoltà ad ottenere fonti di funding alternative al dollaro in caso di condizioni di mercato stressato”.

Non vi basta?

Allora sappiate che una perdita di fiducia nel dollaro, anche senza arrivare a un default, potrebbe creare una mancanza di collaterale disponibile da contrapporre alle operazioni repo e sui derivati. In pratica, le controparti centrali si troverebbero senza strumenti per fare il loro lavoro, con la conseguenza che “ci sarebbe un ulteriore peggioramento delle condizioni di mercato”.

Il contagio si estenderebbe fino alle borse. Sempre ad ottobre, infatti, la semplice prospettiva di un default convinse il Chicago mercantile exchange ad aumentare del 12% il margine richiesto agli investitori (ossia la quota di deposito richiesta a fronte della transazione), per operare sugli swap sui tassi d’interesse americani, mentre il mercato di Hong Kong aumentava lo sconto sui titoli americani. “Questo comportamento pro-ciclico delle controparti centrali e delle borse ha il potenziale di peggiorare il collateral shortage”, ossia la mancanza di collaterale.

Gli ultimi due canali grazie ai quali il contagio si diffonderebbe sono quello della perdita mark to market sui bond americani, che sono in grande quantità nelle pance delle banche di tutto il mondo, a cominciare da quelle giapponesi “esponendo le istituzioni giapponesi a notevoli perdite potenziali”, e dulcis in fundo, quello delle riserve valutarie.

Quest’ultimo merita un breve approfondimento. Per quanto iscritto dai tecnici della BoE fra gli “slower burne”, ossia uno di quei canali che produce effetti lentamente, la perdita una fiducia del dollaro (cos’altro è un default?) metterebbe a serio rischio il ruolo del dollaro come valuta di riserva per stati e banche centrali.

Si calcola che dei 6.000 miliardi di dollari di riserve note, circa il 62% sia composto da dollari, mentre l’euro arriva al 24%. Un calo di fiducia, lo si è visto sempre ad ottobre, quando i rendimenti sui titoli a breve americani aumentarono significativamente (30 punti base), potrebbe spingere i gestori di queste riserve a orientarsi altrove.

Provo a ricapitolare. Un default americano “brucerebbe” prima l’interbancario, lasciando a corto di collaterale il mercato repo e quello monetario, quindi salirebbe di livello fino a terremotare le controparti centrali e le borse, sempre a causa del collateral shortage, ossia la mancanza di un collaterale alternativo credibile al treasury.

Sottolineo che su tale mancanza di alternativa l’America ci ha costruito la sua fortuna.

Quindi il contagio andrebbe a bussare direttamente ai bilanci delle banche, che stanno dietro questi mercati, prima infliggendo perdite in conto capitale e poi essiccando la loro possibilità di concedere credito, per la gioia dell’economia reale.

Infine, la devastazione arriverebbe fino ai piani alti, ossia gli stati e le le loro banche centrali.

Sarebbe una cataclisma senza precedenti nella storia.  

La fine del mondo.

Ecco perché il dollaro viene considerato un investimento sicuro.

Il mattone di carta americano torna a far danni

Siccome di rado impariamo dai nostri errori, specie quando sono remunerativi, tendiamo a ripeterli.

Siccome abbiamo la memoria corta, neanche ce ne accorgiamo.

Finchè non è troppo tardi.

Nel mio piccolo mi sembrava giusto, di conseguenza, farvi sapere, visto che ormai l’argomento è stranoto fra regolatori e istituzioni internazionali, che la finanza immobiliare made in Usa, con tutto il suo contorno di cartolarizzazioni e derivati, è tornata ad essere un rilevante rischio sistemico per la stabilità finanziaria internazionale.

Oggi, come nel 2007, gli investimenti sul mattone di carta garantiscono rendimenti stellari, anche fino al 15%, secondo il WsJ, trascurando, allora come oggi, che un tale rendimento porta con sé un rischio equivalente.

L’unica differenza fra ieri e oggi è che all’epoca dello sboom americano, che poi contagiò il resto del mondo, erano in gran parte le banche le dirette protagoniste del ballo del mattone finanziario.

Oggi sono altre entità, società finanziarie di quello shadow banking che tanto preoccupa i regolatori, che sostanzialmente replicano (con il sussidio delle banche, a cominciare dalla Fed e a finire da quelle di investimento) quello che facevano le stesse banche prima della grande crisi. Ossia prendono in prestito a breve termine per finanziare l’acquisto di obbligazioni a lungo termine, quindi molto remunerative, che hanno come sottostante mututi immobiliari.

Over and over, again.

Di questa simpatica deriva mi sono accorto leggendo l’ultimo Financial stability review rilasciato pochi giorni fa dalla Bce.

La nostra banca centrale, dopo aver ricordato la mole di rischi addensati sul capo dell’eurozona, rileva a un certo punto che “tuttavia, al contrario dell’anno scorso, i rischi macro-finanziari che corre la stabilità dell’eurozona sono originati fuori dall’area”.

Non sto a farvi l’elenco. Magari ne riparleremo. Qui mi limito a raccontarvene uno, che mi ha molto divertito.

“Negli Stati Uniti – scrive la Bce – un rischio alla stabilità finanziaria è legato alla rapida espansione dei Mortgage real estate investment trusts (Mreits), che sono vulnerabili alla crescita dei tassi d’interesse a causa della loro dipendenza verso i prestiti a breve termine per finanziare i loro acquisti di Mortgage backed security (Mbs). Una brusca svendita di Mbs, dovuta a un rialzo dei tassi, può esporre le banche a un calo del valore degli Mbs detenuti”.

In sostanza, la stessa storia del 2007. Con l’aggravante che il rischio tassi d’interessi, ossia di un loro aumento, è qualcosa di più di una semplice probabilità, in tempi di exit strategy e di rallentamento annunciato (e subito ritrattato perché catastrofico) di rallentamento, da parte della Fed, del programma di acquisto mensile di titoli cartolarizzati. Che poi sono proprio quegli stessi Mbs sui quali si concentra l’attenzione degli Mreits.

Un corto circuito perfetto: la Fed sostiene un mercato (quello degli Mbs) che tiene in vita, grazie ai tassi bassi sempre voluti dalla Fed, queste società d’investimento che emettono debito (sotto forma di obbligazioni proprie a breve termine garantite dalle banche, spesso collegate a tali società, che le vendono) per comprare debito altrui sotto forma di mutui a lungo termine più o meno cartolarizzati (Mbs).

Il guadagno lo ricavano dalla differenza (spread) fra il rendimento dei titoli che comprano a lungo e il costo dei titoli che emettono a breve. Quelli bravi lo chiamano ROIC (return on invested capital).

Facile come fare due più due.

Tuttavia può essere utile fare un passo indietro.

Cominciamo da una definizione. Un Mreits è una società che investe in mutui residenziali. Una sorta di fondo comune di investimento.

Questa società prende a prestito soldi e con questi fondi compra mutui che vengono impacchettati in Mbs, ossia un’altra obbligazione, che ha un rendimento e una durata. Più è lunga la durata, più è alto il rendimento. La sostenibilità di questa obbligazione, e quindi la sua capacità di essere ripagata alla scadenza, dipende dai mutui che ha sotto.

Vi ricordate i famosi subprime? Ricorderete allora che erano impacchettati in Mbs e Cdo (collateralized debt obligation).

A differenza dei Reits (real estate investment trust) i Mreits non hanno quindi mattone reale sotto i loro investimenti, ma carta.

Soltanto quella.

La tassonomia finanziaria distingue i Mreits in due tipi: quelle che lavorano con gli agency loans e quelle che lavorano con i non agency loan.

I primi lavorano con debito garantito da entità governative, come Fannie Mae o Freddie Mac (le stesse che hanno collassato causa subprime). Poiché hanno la garanzie implicita del Tesoro, questi debiti hanno un rating di credito assimilato a quelli dei bond americani e quindi un rendimento basso.

I secondi (non agency) lavorano con debito “privato”, ossia senza garanzia governativa. Ovviamente, essendo meno garantiti, e quindi più rischiosi, queste debiti devono offrire un tasso più alto agli investitori per incoraggiarli a comprare le loro obbligazioni.

Ciò costringe gli emittenti a spingere sul pedale della leva finanziaria per ottenere un maggior ROIC, aumentando di conseguenza a loro volta i rischi.

Ovviamente lo stesso vale per il Mreits che usa questi asset.

Dopo la crisi, che evidentemente non ha insegnato nulla, queste entità sono letteralmente esplose per numero. La maggior parte stanno negli Usa. Ma ce ne sono anche alcune tedesche.

E così, nell’aprile scorso, i Mreits finirono nel mirino del FSOC, il Financial stability oversight council, un gruppo di regolatori costituiti in seno al Tesoro americano, che se ne sono occupati nell’ultimo annual report.

I tecnici notarono con preoccupazione che queste società di investimento avevano quadruplicato i propri asset fino a più di 400 miliardi dal 2009 in poi.

Secondo Fitch, che al tema ha dedicato un approfondimento nel giugno scorso, l’esposizione di questi veicoli nei confronti degli Mbs sarebbe addirittura di oltre 460 miliardi di dollari. Ma soprattutto è cresciuta enormemente la loro rilevanza sistemica.

Tanto è vero che la Reuters ha rilanciato la notizia pubblicata da Financial Times il 27 ottobre scorso, secondo il quale i Mreit sono finiti anche nel mirino dei regolatori della Fed di New York, dopo che, un mese prima, il Fondo monetario internazionali li aveva classificati come una delle componenti crescenti dello shadow banking.

Il problema è che il debito a breve dei Mreits, sponsorizzato dalle banche rivenditrici, si inserisce nel più vasto mercato dei repo, ossia dei pronti contro termine, che muove circa 4,5 trilioni di dollari.

Un’improvvisa svendita di Mbs, seguita magari a un rialzo dei tassi, può perciò avere conseguenze devastanti proprio per questo mercato, che è vitale per il funzionamento delle grandi banche, che vi si rivolgono per il proprio funding, ponendo come pegno i propri Mbs e altri titoli.

Una turbolenza nel mercato repo avrebbe lo stesso effetto, se non peggiore, di quella registrata nel mercato della carta commerciale agli albori della crisi del 2007.

Dal canto loro, i tifosi dei Mreits sottolineano che il loro lavoro ha contribuito a rilanciare il mercato immobiliare americano, favorendo la domanda di mutui a basso prezzo e, di conseguenza, la domanda di mattone. E infatti i prezzi in America hanno ripreso a salire. 

Sempre per non dimenticare i subprime.

Tanto sarebbe bastato ai regolatori della Fed di New York per decidere di vederci chiaro.

Per la cronaca, la Fed di New York è una filiale della stessa Fed che ha contribuito (e contribuisce tuttora) a far crescere le Mreits e il mercato degli Mbs.

Fare pace col cervello no?

Il Contagio (fiscale)

Mi succede questo: incontro M. che saranno dieci anni che non lo vedo.

E’ un vecchio amico che il diradarsi della frequentazione ha degradato prima in conoscente e poi, inesorabilmente, in fantasma, come in effetti mi appare, pallido ed emaciato com’è.

Come sempre succede in questi casi, in cui si mescolano insieme letizia e imbarazzo per l’incontro fortuito, ci facciamo grandi feste e finiamo a prendere un caffé con l’occhio all’orologio, perché oggi viviamo così, e temporeggiando al contempo con l’ordinazione per rubare qualche minuto in più alla frenesia.

Scopro così che ha messo su famiglia: ha figli e moglie (che non lavora). Per fortuna, mi spiega, ha uno stipendio dignitoso, visto che ha fatto una carriera discreta, sicché può permettersi il lusso, mi dice, di fare due vacanze l’anno, una l’estate e una per le feste di natale.

Niente di che, si affretta a sottolineare. Anche lui come molti ormai vive come un senso di colpa avere un lavoro e spendere dei soldi. Oggi chi ha mille euro da buttare viene visto come un pericoloso privilegiato e un cuore di pietra indifferente alla miseria altrui.

Tanto che poi precisa: in realtà potevo fare due vacanze. Quest’anno a natale resto a casa.

Mi faccio scrupolo di chiedergli come mai per puro amore della conversazione.

Così mi racconta questa storia.

Suo suocero, piccolo artigiano con una pensione da 800 euro al mese, si è trovato a dover fare i conti col fisco a causa di un capannone, dove svolgeva la sua attività, che è rimasto chiuso e sfitto dopo che aveva smesso di lavorare. Non che non ci abbia provato ad affittarlo, mi spiega, e pure a venderlo. Ma con questa crisi…

Sicché a giugno, mentre tutta Italia gioiva per il taglio dell’Imu sulla prima casa, a suo suocero, che intanto ha avuto anche il cattivo gusto di ammalarsi, è arrivata una bolletta Imu di non so quanti mila euro su un bene che non genera alcun reddito.

Il che sicuramente è colpa del suocero, per lo stato italiano.

E così un bel giorno la moglie del mio amico gli ha chiesto se poteva prestare i soldi a suo padre per pagare le tasse.

E come fai  a dire di no a una richiesta del genere? mi domanda retoricamente.

Ovviamente non rispondo.

L’amico mette mano al portafoglio col risultato che accorcia di una settimana la prevista vacanza estiva.

La moglia giura e spergiura che sarà solo per questa volta e lui finge di crederle, per amore della pace.

A questo punto vorrei dirgli una di quelle banalità tipo: vedrai che troverete una soluzione. Andrà tutto bene (che fa molto film americano).

Ma non ho il tempo.

Adesso mi tocca pagare pure la rata di dicembre dell’Imu, mi dice masticando rabbiosamente un mini cornetto al cioccolato.

E così questo natale niente vacanze, conclude.

Che sfiga, penso.

Ma poi mi distraggo un attimo, lasciandolo da solo con la sua lamentazione.

Penso improvvisamente che le famiglie italiane sono come le banche.

Negli anni buoni hanno garantito pasti e prebende a tutti, figli e figliastri, e persino qualche vizio.

Negli anni brutti sono diventate fonte di contagio.

Solo che del contagio finanziario provocato dalle banche si occupano gli stati e le banche centrali.

Del contagio provocato dalle famiglie, spolpate per via fiscale, al contrario, non si occupa nessuno.

Si impoveriscono e basta, silenziosamente. E fanno impoverire chi sta loro vicino.

Penso che le mancate vacanze del mio amico peseranno un microdecimale in meno sulla nostro prodotto nazionale a fronte di un microdecimale di deficit in meno nel bilancio dello stato.

E mi sembra un gioco a perdere.

E poi penso che nessuno è felice: né il mio amico, che si trova a dover mantenere una famiglia allargata come negli anni ’50, che però erano anni ruggenti quanto quelli di oggi sono deprimenti; né il suocero, costretto ad umiliarsi ogni sei mesi perché con la sua pensione, se pagasse l’Imu sul capannone abbandonato, non avrebbe di che mangiare; né la moglie del mio amico, che si sentirà responsabile per questo salasso inflitto alla sua famiglia e quindi ai suoi figli; né l’economia nazionale, che rimarrà contratta; né il bilancio dello stato, che rimarrà in deficit.

E mi sembra un gioco senza vincitori.

Poi mi sono accorto che il mio amico mi guardava imbambolato. Evidentemente aveva finito il suo racconto e aspettava un mio commento.

Devo andare, gli dico.

Che dovrei dirgli?

Insisto però a pagare il conto.

Lui fa un po’ di storie, ma poi accetta sorridendo.

Sul momento non ci faccio caso.

Solo dopo che ci siamo salutati, promettendoci (senza crederci) di rivederci presto, mi rendo conto di aver appena usato l’ultima banconota che avevo.

Sono a secco.

Potenza del Contagio.

Minacce Emergenti

Quelli che erano i cavalli sui scommetteva l’economia internazionale rischiano di essere i brocchi che finiranno con l’affossarla.

Le economie emergenti, che avrebbero dovuto trasformarsi nel serbatoio della domanda mondiale fino a gareggiare con i tradizionali mercati di sbocco, oggi sono guardate con sospetto e una crescente preoccupazione da parte degli organismi internazionali.

Il boom creditizio che ne ha sostenuto la crescita negli anni buoni rischia infatti di trasformarsi un uno straordinario boomerang capace di fare danni seri alla fragile ripresa mondiale.

L’ultimo allarme è arrivato dall’Ocse, che al tema ha dedicato un approfondimento nell’ultimo outlook sull’economia mondiale rilasciato di recente.

Gli Emergenti possono far danni su due fronti: lato commercio internazionale e lato interconnessione finanziaria, visto che in moltio paesi emergenti “le condizioni finanziarie si sono molto deteriorate rispetto all’outlook di maggio”. A tal punto che “uno slowdown di questi paesi – scrive – può far diminuire la crescita nelle economie avanzate, i particolare in Europa e Giappone”.

Oltre ad esaminare le relazioni che intercorrono lato commercio internazionale fra Emergenti e Avanzati, rilevando come un rallentamento dei primi rischia di affossare i mercati globali, l’Ocse è particolarmente preoccupato dei collegamenti bancari che la globalizzazione finanziaria ha favorito fra queste due entità. Specie dopo aver assistito con pacato terrore alla reazione dei mercati internazionali all’annuncio (poi ritrattato) del rallentamento degli acquisti di asset da parte della Fed che ha messo in tensione gli Emergenti assai più e prima degi Avanzati.

Le statistiche della Bis, dice l’Ocse, mostra che “l’esposizione delle banche dei paesi avanzati nei confronti degli emergenti è aumentata dopo la crisi”.

E questo è il primo problema.

Gli afflussi sono arrivati da diversi paesi, a cominciare dagli Usa, con le banche americane a caccia di redditizi carry trade incoraggiati dal denaro praticmente gratis, e poi dalla Gran Bretagna e dal Giappone, che condividono tale pratica.

Ma anche l’Europa è molto esposta.

“Segni di una possibile vulnerabilità bancaria è apparsa in alcune economie emergenti – scrive l’organizzazione -. In particolare, la crescita del credito al settore privato è aumentata rapidamente dal 2007. In termini nominali, tale crescita è stata in media del 20% all’anno in molte di queste economie, malgrado, in relazione al Pil nominale, questa crescita sia stata notevole solo in Turchia, Cina e Brasile”.

In tale contesto, “una tale rapida crescita aumenta i rischi di turbolenza finanziaria, in quanto espone le banche a perdite in caso di shock macroeconomici, specialmente se associati a standard di prestito negligenti”.

Ricordo a tutti che in letteratura è ormai pacifico che una rapita crescita del credito sia una delle migliori spie di una possibile crisi finanziaria.

Tali rischi sono aumentati da quando in questi paesi si è cominciata a notare una preoccupante impennata dei non performing loan, cioé i crediti in sofferenza, associata a una generale debolezza dei coefficienti di liquidità delle banche.

Per il momento, tuttavia, il settore bancario degli emergenti risulta ancora in equilibrio, “almeno a livello aggregato”. Ma le preoccupazioni rimangono, anche a causa dell’aumentata vulnerabilità esterna. Ossia il debito estero.

Guardiamo alcuni dati.

La crescita del credito interno è stata impetuosa negli ultimi anni. La Turchia ha visto un tasso annuo medio nominale del 25% l’anno dal 2007, mentre i quattro Bric stanno poco sotto, con la Cina a pochi decimali dalla Turchia, l’India intorno al 20% come anche il Brasile,e la Russia poco sotto il 20%.

Il credito al settore privato non finanziario ha sfondato il 150% del Pil in Cina, (circa 170%), mentre era al di sotto del 150% nel 2007.

La Turchia, seconda in questa classifica, sta poco sotto il 100% del Pil, ma nel 2007 era meno della metà.

La crisi, per questi paesi, si è tradotta in una straordinaria crescita del credito interno, che evidentemente ha supportato la domanda domestica a fronte della contrazione di quella estera.

Il problema sorge quando per dare credito all’interno le banche devono far debiti all’esterno.

E qui arriviamo al debito estero.

 “La crescente dipendenza di alcune economia in deficit estero, in particolare India e Indonesia, dagli afflussi esterni di capitali le ha rese vulnerabili al rischio di deflussi”.

Il tanto temuto sudden stop.

“La vulnerabilità finanziaria è aumentata anche in altre economie emergenti a causa della quota crescente di debito estero sul totale, in particolare in India, Turchia e Polonia, anche a causa dell’aumentata dipendenza dal finanziamento a breve termine dalle banche straniere”.

Alcuni di questi rischi, nota l’Ocse, sono tuttavia mitigati dalla presenza di riserve. Ma le riserve si sa come sono: oggi son qui, domani chissà.

Anche qui qualche numero aiuterà a capire le dimensioni del problema.

In Polonia l’ammontare totale delle passività estere ha superato il 100% del Pil nel 2012. Il debito nei confronti di banche estere pesa il 25% del Pil. Oltre il 50% di queste passività è  finanziato con debito a breve e la posizione netta degli investimenti (NIIP) è negativa per oltre il 60% del Pil.

In Turchia le passività estere hanno superato il 75% del Pil. Il debito nei confronti di banche estere pesa circa il 20% del Pil e la quota di questo debito finanziato a breve con le banche estere sfiora il 60%, mentre la posizione netta è negativa per oltre il 50% del Pil.

Chiunque mastichi questa roba, sa bene che debito estero elevato finanziato a breve è il miglior viatico per una crisi della bilancia dei pagamenti. E con le minacce di exit strategy che girano nel mondo finanziario, tale crisi è qualcosa di più che una semplice possibilità.

La Cina non sta tanto meglio degli altri. L’unica differenza notabile è che, oltre ad essere comunque un creditore globale netto, in relazione al Pil ha meno passività estere, intorno al 40% (ma solo perché il Pil è più alto), e una quota bassa, sempre rispetto al Pil, di debiti verso banche estere. Ma la quota di finanziamenti a breve sfiora l’80% del totale. In compenso, la posizione netta degli investimenti è positiva per oltre il 20%. La Cina, poi, è forte delle sue riserve, che ormai sfiorano il 40% del Pil, il doppio di quelle polacche e circa il triplo di quelle turche.

Non è un caso, perciò, che di recente la Bundesbank, nel suo rapporto sulla stabilità finanziaria, abbia messo nel conto dei rischi di fronte ai quali si trovano le banche tedesche gli oltre 150 miliardi di dollari di esposizione nei cofronti proprio delle banche dei paesi emergenti.

Si può star certi che il caso tedesco non è l’unico: tutti hanno prestato agli Emergenti, lucrandoci pure succulenti guadagni, e ora iniziano a temerne le conseguenze.

La stretta monetaria, se mai arriverà, rischia infatti di colpire prima gli Emergenti, le cui banche potrebbero faticare a trovare il necessario per rifinanziare i propri debiti a breve, e di conseguenza gli Avanzati, che a queste banche i soldi li hanno già prestati.

La bella favola dei paesi emergenti rischia di strasformarsi in un incubo.

L’incubo della Minaccia Emergente.